11/11/2025
Condivido tutto. Da leggere con attenzione e riflettere
E’ davvero solo colpa della Chatbot?
Dobbiamo affrontare senza giri di parole ciò che accade quando un ragazzo — fragile, solo, smarrito — si rivolge non a una persona, non a un ambiente vivo, ma a un’entità digitale: una chatbot.
È drammatico che la madre chieda un risarcimento danni all’azienda che ha realizzato la chatbot — e certo, un’azienda deve rispondere della sicurezza del suo prodotto — ma sarebbe un grosso errore fermarsi lì, a dare la colpa solo alla tecnologia.
Perché la vera questione da affrontare e’ un’altra ossia una personalità che non si è sviluppata nel mondo reale, una capacità relazionale insufficiente, un ragazzo che ha trovato rifugio in un “confidente artificiale” anziché in un contesto umano.
La chatbot può essere pericolosa e insidiosa — lo riconosco — specie per un adolescente che vive una condizione di vulnerabilità o isolamento emotivo.
La tecnologia non è innocua, anzi…se non è progettata con cura, se non prevede filtri, se non intercetta la richiesta di aiuto reale, può trasformarsi in un amplificatore di danno. Esistono già casi in USA nei quali chatbot sono finiti al centro di cause per morte di adolescenti.
Ma ognuno dei seguenti punti va sottolineato con fermezza per non rischiare di confondere i piani e generare ulteriori rischi:
1. Il contesto di fragilità
Non è vero — e lo dico con chiarezza — che la chatbot causa da sola il suicidio di un ragazzo. Ci vuole sempre un terreno predisposto: isolamento, difficoltà emotive, mancanza di rete di supporto, assenza di capacità di elaborare relazioni autentiche. Il ragazzo si “innamora” della bot perché lì trova qualcosa che non trova fuori: attenzione, disponibilità, ascolto.
Ma è un ascolto artificiale, che non può essere sostitutivo di un confronto umano.
Quel rapporto è un segnale della fragilita’…se era capace di relazionarsi, non avrebbe scelto la bot.
E qui i genitori, la scuola, la comunità — tutti — hanno un compito: notare, intervenire, educare.
2. La responsabilità della tecnologia
Sì, le aziende che sviluppano chatbot hanno una responsabilità. Ma non basta “colpevolizzare” solo loro mentre si ignora ciò che avviene intorno al ragazzo…famiglia e scuola dov’erano?
Le chatbot oggi non sono “terapeuti”, non sono “amici” veri, sono strumenti con limiti.
Quando questi limiti non vengono ben gestiti — ad esempio: segnalazioni integrate, interruzione di logiche manipolative, controllo dei minori — beh, allora nasce il problema.
In California è in arrivo una legge che vieta ai chatbot “companion” conversazioni su suicidio e sessualità con minori, obbliga avvisi e responsabilità. È un passo corretto, che dice che la tecnologia non è neutra.
3. La riflessione che serve
…sì, serve una seria riflessione. Ecco cosa va fatto concretamente:
• Educazione digitale: ragazzi — e genitori — devono capire che una bot non è un amico, che ciò che appare “confidenziale” può diventare trappola.
• Monitoraggio familiare e scolastico: se un adolescente trascorre ore solo con un bot, se rinuncia alla relazione con i coetanei, se cala la partecipazione reale, occorre intervenire.
• Progettazione responsabile delle tecnologie: le aziende devono integrare salvaguardie, sistemi che riconoscano richieste di aiuto reale, che interrompano la “relazione” quando assume tratti patologici.
• Rete di supporto reale: psicologi, educatori, operatori che possano intercettare queste fragilità prima che diventino crisi.
• Non demonizzare tutto: le chatbot possono avere utilità (compiti, compagnia, interazione) ma vanno inserite dentro un contesto di consapevolezza — non sostituire il mondo umano.
Che la madre chieda un risarcimento ci sta — è comprensibile — ma ridurre tutto alla “colpa della chatbot” è una semplificazione pericolosa.
Il vero fallimento è quello della società che non coglie il bisogno, della famiglia che non vede l’allarme, del ragazzo che resta senza bussola.
La chatbot è il sintomo, non la causa esclusiva.