27/10/2025
La violenza economica è una forma di violenza spesso invisibile, ma che incide profondamente sulla vita delle donne e sulla loro capacità di autodeterminazione. La violenza economica non è un fenomeno marginale: è un meccanismo di controllo che si innesta sulla disuguaglianza di genere e sulle vulnerabilità economiche e sociali delle donne. Contrastarla significa non solo offrire risposta alle vittime, ma intervenire sulle radici culturali, strutturali ed economiche del fenomeno: potenziare l’educazione finanziaria, riconoscere e qualificare la violenza economica, potenziare l’autonomia economica delle donne, orientare politiche e sostegni mirati. La violenza economica rappresenta una sfida centrale per la promozione della parità di genere, della dignità e dell’autonomia delle donne.
Oltre alle conseguenze immediate, la violenza economica contribuisce a perpetuare disuguaglianze di genere: riduce la partecipazione delle donne al lavoro, limita la loro capacità di accumulare risorse, e quindi alimenta il divario economico e sociale di lungo termine.
Cos’è davvero la violenza economica
Secondo un’indagine del 2022 a cura dello sportello “Donne al quadrato”, riportata da ANMIL / Global Thinking Foundation, il 33% delle segnalazioni riguarda temi finanziari: controllo del denaro, gestione economico familiare, orientamento al lavoro, frodi legate all’economia personale. Sempre secondo ANMIL, fra le donne che segnalano violenza economica, oltre la metà (il 56%) ha fra i 35 e i 50 anni. Donne con situazioni economiche fragili subiscono violenza più frequentemente: disoccupate, casalinghe, lavoratrici in nero sono soggetti con probabilità più alta di denuncia (o segnalazione) di violenza da partner. In particolare, il 79,5% delle casalinghe rientra in gruppi che riportano violenza domestica in presenza di vulnerabilità economica. Il fatto che molte vittime siano donne in età tra 30 50 anni, con figli minorenni, lavoratrici in nero o disoccupate, indica come lavoro, risorse economiche e cura (di figli o familiari) formino un intreccio critico nell’esperienza della violenza.
La violenza economica consiste in comportamenti perpetrati per controllare, negare o sfruttare l’autonomia economica della persona. Ciò comprende: impedire di lavorare, controllare denaro, cointestare conti senza reale partecipazione, accumulare debiti a nome dell’altro, impedire l’accesso all’istruzione o al lavoro.
La violenza economica non è solo “non avere soldi”. È il controllo sull’indipendenza e sulle scelte di una donna, il modo in cui qualcuno la priva del diritto di decidere per sé.
Può succedere quando il partner impedisce di lavorare, quando controlla ogni spesa, quando toglie l’accesso al conto in banca o ne nega uno personale, oppure si appropria dello stipendio dell’altro. A volte è ancora più sottile: può minare il proprio senso di competenza, di indipendenza, portando a dubitare di sé e creando il terreno per una dipendenza economica e affettiva.
Il rapporto WeWorld (2023) descrive tre modi in cui questa violenza si manifesta:
il controllo economico, cioè il decidere come e quando una donna può usare il denaro;
lo sfruttamento economico, quando le sue risorse vengono usate dal partner per sé;
il sabotaggio economico, che avviene quando le si impedisce di lavorare o studiare.
In particolare, la violenza economica può manifestarsi in diversi e sfaccettati comportamenti quotidiani all’interno di una relazione in cui il potere organizzativo e decisionale è sbilanciato:
Privazione
Impedire l’accesso al denaro
Rifiutare di contribuire alle spese familiari
Trattenere lo stipendio della vittima
Non pagare il mantenimento dei figli
Controllo
Monitoraggio costante delle spese
Richiedere giustificativi per ogni spesa
Decidere unilateralmente su acquisti e investimenti
Ostacolo all’autonomia
Impedire di lavorare o studiare
Fare pressioni per lasciare il lavoro
Costringere a lavorare nell’azienda di famiglia senza retribuzione
Indebitamento forzato
Quasi una donna su due in Italia dice di aver vissuto almeno un episodio di violenza economica. Tra chi si è separata o ha divorziato, la percentuale sale al 67%. Dietro questi numeri ci sono storie di donne che, dopo anni di relazione, si ritrovano senza un reddito, senza una casa, con figli da mantenere e nessun sostegno reale. Più della metà delle donne separate dichiara di non ricevere neppure il denaro dovuto per la cura dei figli. Oltre il 60% di queste donne racconta di aver visto peggiorare la propria situazione economica dopo la separazione.
Sono numeri che raccontano di una dipendenza economica costruita nel tempo, che continua anche dopo la fine del rapporto.
Il rapporto a cura di WeWorld spiega che la violenza economica trova terreno fertile nella cultura patriarcale che ancora resiste in Italia. Ma non è solo una questione di cultura. È anche un problema di disuguaglianza strutturale: le donne lavorano di meno, guadagnano di meno, hanno meno accesso ai beni e ai risparmi. Tutto questo le rende più vulnerabili, soprattutto se sono giovani, madri sole, o se hanno origini straniere.
Molte donne raccontano di non essersi mai accorte che quella che vivevano era violenza.
Una testimonianza, raccolta da WeWorld, dice: “Lui mi diceva che era meglio se non lavoravo, perché così potevo occuparmi dei bambini. Poi ha cominciato a controllare il conto, a chiedermi lo scontrino di ogni spesa. Non mi picchiava, ma mi sentivo come in gabbia.”
Questo è il volto più comune della violenza economica: il controllo mascherato da protezione. All’inizio sembra una forma di cura: “non ti preoccupare, ci penso io”, ma col tempo diventa una catena invisibile. La violenza economica toglie la possibilità di scegliere, di sbagliare, di sentirsi capaci. Molte donne, dopo anni di controllo, perdono fiducia in sé stesse e smettono di credere di poter vivere da sole.
Un’altra testimonianza del rapporto WeWorld racconta: “Quando mi sono separata non avevo un conto mio, non sapevo nemmeno quanto costasse una bolletta della luce. Mi sono sentita persa. Non solo povera, ma incapace.”
Questa è forse la parte più dolorosa: la perdita di competenze e autostima, costruita lentamente da anni di dipendenza forzata.
Per questo serve promuovere l’educazione finanziaria, perché sapere gestire i soldi è una forma di libertà. Serve un riconoscimento legale più chiaro della violenza economica, per permettere alle donne di denunciarla. E servono politiche pubbliche più forti: sostegni economici, case rifugio, accesso al lavoro, percorsi di autonomia. Serve anche, e forse soprattutto, un cambiamento culturale. Capire che amare non significa controllare, e che la libertà economica è parte della dignità di ogni persona.
La violenza economica nelle statistiche italiane
I dati disponibili sulla violenza economica in Italia sono parziali, ma esistono indagini e rapporti che ci permettono di avere una visione complessiva del fenomeno.
Secondo il report dell’Istat (2021), le donne italiane vittime di violenza fisica o sessuale (circa il 31% delle donne dai 16 anni in su) subiscono, in molti casi, anche violenza economica. Questo tipo di violenza viene vissuto da circa 1 donna su 5 e in molti casi è correlato alla violenza psicologica e fisica.
Dallo stesso studio, emerge che:
Il 19,3% delle donne ha subito una forma di violenza economica, che si è manifestata principalmente come privazione di denaro (14%), controllo delle spese familiari (10%) e ostacolo a lavorare (7%).
Le donne che vivono in contesti di violenza domestica sono più vulnerabili alla violenza economica: l’84% delle vittime di violenza domestica ha riferito di aver subito anche abusi economici.
Il 48% delle donne vittime di stalking ha dichiarato di essere stata anche vittima di violenza economica.
Il Telefono Rosa (associazione che supporta le donne vittime di violenza) segnala che la violenza economica è una delle forme di abuso più difficili da denunciare, poiché spesso è meno visibile e non comporta segni fisici evidenti. Inoltre, molte donne non riconoscono questo abuso come un crimine, soprattutto quando è associato ad altre forme di violenza domestica.
La violenza economica in Italia è influenzata da vari fattori, tra cui il contesto socio-culturale e le difficoltà strutturali del paese. L’Italia, infatti, si trova ad affrontare una serie di problematiche che aggravano la condizione economica di molte donne:
Disuguaglianza di genere nel lavoro: Le donne italiane guadagnano mediamente circa il 20% in meno rispetto agli uomini. Questo divario salariale contribuisce a una situazione di maggiore vulnerabilità economica per le donne, che spesso si trovano in una posizione di dipendenza economica all’interno della famiglia.
Lavoro precario e disoccupazione femminile: la disoccupazione femminile è più alta rispetto a quella maschile e le donne tendono a occupare lavori più precari e meno remunerati. Ciò significa che, in molte famiglie, le donne sono economicamente dipendenti dal partner, il che le rende facili bersagli di violenza economica.
Mancanza di politiche di supporto per l’autonomia economica delle donne: In Italia, le politiche per l’empowerment economico delle donne sono ancora insufficienti. Manca un sistema strutturato di sostegno per le donne che desiderano intraprendere un percorso di indipendenza economica, sia tramite il lavoro che attraverso l’accesso a risorse finanziarie e formazione.
Uno studio del 2019 a cura della Banca Mondiale, ha evidenziato che la violenza economica è presente nel 40% delle relazioni abusive e che circa il 30% delle donne in tutto il mondo ha subito questa forma di abuso in una fase della loro vita. Lo studio sottolinea come la violenza economica sia una barriera significativa per l’uscita dalla violenza domestica, in quanto le vittime si sentono intrappolate in una condizione di dipendenza economica.
Secondo il Rapporto Istat del 2021, in Italia, circa 1 donna su 5 ha dichiarato di aver subito violenza economica, con forme di abuso che vanno dal controllo del denaro all’isolamento economico. La ricerca ha inoltre rilevato che la violenza economica è strettamente correlata alla violenza fisica e psicologica: il 45% delle donne che subiscono violenza domestica ha anche subito una forma di abuso economico.
Possiamo dire che la violenza economica è spesso presente all’interno della violenza domestica, così come la violenza psicologica. La violenza psicologica è una forma di abuso che si manifesta attraverso il controllo, l’umiliazione, la manipolazione e l’intimidazione della vittima. Sebbene non lasci segni fisici evidenti, la violenza psicologica può essere altrettanto distruttiva della violenza fisica, danneggiando profondamente la salute mentale e l’autostima della persona abusata.
Le principali manifestazioni della violenza psicologica includono:
• Umiliazione e svalutazione: l’abusante denigra continuamente la vittima, facendola sentire inferiore, incapace o indegna.
• Minacce verbali: minacce di violenza, di distruzione della reputazione o di danneggiare i propri cari.
• Isolamento sociale: l’abusante impedisce alla vittima di mantenere relazioni sociali o di uscire da casa, isolandola progressivamente.
• Gaslighting: una manipolazione psicologica che porta la vittima a dubitare della propria percezione della realtà, facendola sentire “pazza” o insicura di sé. All’interno di una dinamica manipolativa con un disequilibrio di potere di tipo economico e decisionale, è frequente che una persona possa vivere un profondo conflitto tra ciò che crede sia vero e ciò che non lo è, criticando se stessa e la propria capacità di giudizio, mettendo in dubbio le proprie osservazioni, sensazioni, pensieri.
• Controllo e sorveglianza: l’abusante monitora costantemente le azioni, i movimenti e le comunicazioni della vittima.
Lenore Walker (1979), una delle prime ricercatrici ad analizzare la violenza domestica, ha descritto la violenza psicologica come una delle prime fasi del ciclo della violenza. Le sue ricerche hanno evidenziato che le vittime di violenza psicologica sono spesso indebolite emotivamente, diventando più vulnerabili a forme più gravi di abuso fisico o economico.
Autonomia economica femminile e accesso ai conti bancari in Italia
Secondo una ricerca della Global Thinking Foundation solo il 58% delle donne in Italia ha un conto corrente intestato personalmente.
Sempre da questa ricerca: il 12,9% delle donne ha un conto cointestato (con partner o altro familiare) e il 4,8% non ha nessun conto (neanche cointestato).
Un articolo più recente segnala che una donna su cinque (circa il 20%) non ha un conto corrente personale.
Un’altra fonte (Wired Italia), afferma che circa il 37% delle donne italiane non ha un conto in banca (puoi approfondire qui: Wired Italia)
Avere un conto bancario intestato individualmente è più che un semplice strumento economico:
è una condizione di autonomia personale: poter ricevere un reddito, effettuare pagamenti, avere accesso al risparmio e al credito in modo diretto e riconosciuto;
è una protezione rispetto a forme di dipendenza economica o controllo da parte di altri (familiari, partner). Se non hai un conto a tuo nome, puoi essere più vulnerabile al controllo finanziario;
è un fattore che incide sulla partecipazione attiva delle donne nell’economia formale, nell’accesso ai servizi finanziari, e quindi nel raggiungimento della parità di genere.
In Italia, questi dati si collegano anche a un più ampio gender gap nel lavoro, nelle retribuzioni, nella decisione economica.
Inoltre, la difficoltà nell’avere un conto corrente personale può sia derivare da barriere (culturali, informative, di servizio), sia rinforzarle.
Alcuni fattori che contribuiscono:
Culturali e storici: in molti casi si è dato per scontato che “il conto è intestato all’uomo”, o che la donna delegasse; ancora oggi permane una mentalità che considera la gestione economica più “maschile”.
Informazione e competenze finanziarie: molte donne segnalano di avere scarsa confidenza con aspetti bancari o finanziari (ad esempio non sapere quanto costa un conto) ciò limita la decisione autonoma. Dati recenti evidenziano una scarsa fiducia e competenza finanziaria da parte delle donne. Solo una minoranza dichiara di sentirsi “molto preparata” nella gestione del denaro e degli strumenti bancari (Global Thinking Foundation, 2023). Questa auto-percezione di inadeguatezza, alimentata da stereotipi di genere e da carenze nell’educazione economica, contribuisce a mantenere una dipendenza finanziaria strutturale.
Servizi e accesso: in alcune aree, soprattutto periferiche o meridionali, l’accesso fisico a filiali bancarie o sportelli può essere più difficile, e la digitalizzazione richiede competenze che non tutte hanno.
Condizioni economiche/occupazionali: se una donna ha un lavoro instabile, basso reddito o è in una condizione economica fragile, aprire e mantenere un conto corrente personale può sembrare meno prioritario o più difficile.
Relazioni personali: in relazioni in cui è presente una dinamica di controllo economico, la mancanza di un conto personale può essere parte del problema: il partner controlla e gestisce l’accesso al denaro o agisce come unico intestatario, togliendo di fatto alla donna il controllo sulle finanze famigliari.
Il possesso di un conto bancario personale rappresenta oggi una delle condizioni minime di inclusione economica e sociale. Tuttavia, in Italia, solo il 58% delle donne possiede un conto corrente intestato esclusivamente a sé stessa, mentre circa il 20% non dispone di alcun conto personale (Global Thinking Foundation, 2023). Questo dato, apparentemente tecnico, riflette una questione strutturale più ampia: la persistente disuguaglianza di genere nell’accesso e nel controllo delle risorse economiche.
L’accesso a un conto bancario non è solo una questione di operatività finanziaria, ma una dimensione fondamentale dell’autonomia personale. Esso consente di ricevere redditi, effettuare pagamenti, accumulare risparmi e accedere al credito. La mancanza di un conto individuale implica, di fatto, una dipendenza economica da altri soggetti (spesso il partner o la famiglia) e limita la capacità decisionale delle donne nella gestione del proprio denaro. In questo senso, la proprietà e la gestione di un conto personale rappresentano una soglia simbolica di emancipazione economica e un presupposto essenziale per la libertà individuale (Banca d’Italia, 2022).
Le ragioni che spiegano la bassa percentuale di donne con un conto personale sono di natura culturale, economica e strutturale.
Da un lato, persistono retaggi patriarcali secondo cui la gestione finanziaria è percepita come un ambito maschile. In molte coppie, anche giovani, la gestione dei conti resta centralizzata nella figura maschile, con la donna relegata a un ruolo di spesa quotidiana o di controllo marginale (WeWorld, 2023). Inoltre, le disuguaglianze nel mercato del lavoro contribuiscono a rafforzare questa dipendenza: il tasso di occupazione femminile in Italia rimane tra i più bassi d’Europa (circa 52%), con una forte incidenza di lavoro part-time involontario e una retribuzione media inferiore del 13-16% rispetto a quella maschile (ISTAT, 2024). Tale disparità riduce non solo il reddito disponibile, ma anche la percezione della necessità di disporre di un conto personale.
La mancanza di un conto bancario personale è una delle condizioni che aumentano la vulnerabilità economica e sociale delle donne.
Nei casi di separazione o violenza domestica, la mancanza di autonomia bancaria si traduce in una difficoltà concreta nel gestire le proprie risorse e nel ricostruire un percorso di indipendenza economica. Il Rapporto WeWorld 2023 sulla violenza economica (“Ciò che è tuo è mio”) sottolinea che la dipendenza finanziaria e la mancanza di strumenti bancari propri sono spesso componenti chiave delle dinamiche di controllo economico esercitate dai partner.
In questo senso, l’accesso ai servizi bancari diventa anche un elemento di prevenzione della violenza economica. La disponibilità di un conto personale permette alle donne di disporre di risorse riservate, di pianificare in autonomia e di sottrarsi a situazioni di abuso o ricatto finanziario. Il diritto di ogni donna a possedere un conto a proprio nome non è un dettaglio amministrativo, ma una frontiera di cittadinanza economica e libertà personale. La libertà economica costituisce la base materiale della libertà individuale: senza la possibilità di gestire le proprie risorse, ogni altra forma di parità (politica, sociale o culturale) resta incompleta.
Come osserva il Rapporto WeWorld 2023, la piena autonomia economica femminile non si riduce a una questione di reddito, ma riguarda la capacità di autodeterminarsi e di partecipare da protagoniste alla vita economica del Paese. Colmare il divario nell’accesso ai conti bancari è dunque un passo fondamentale non solo verso l’inclusione finanziaria, ma verso la realizzazione effettiva della parità di genere in Italia.
Sessismo benevolo, autonomia economica e violenza economica
Il sessismo benevolo è una forma di ideologia di genere che appare “positiva”, ma che rinforza ruoli tradizionali, dipendenze e diseguaglianze. Originariamente concettualizzato da Peter Glick e Susan Fiske (1996) nel loro lavoro sull’Ambivalent Sexism Theory, il sessismo benevolo è suddiviso in tre componenti principali:
Paternalismo protettivo: l’idea che “gli uomini devono proteggere le donne”, che le donne siano fragili o bisognose di cura.
Differenziazione complementare: la credenza che uomini e donne abbiano ruoli diversi ma complementari, per esempio, un uomo “provvede”, una donna “cura”.
Intimità eterosessuale ideale: l’idea che la donna debba offrire supporto emotivo/intimo all’uomo, in cambio della sua protezione/provvedimento.
Questi meccanismi mostrano come, pur formulati in termini “positivi”, il sessismo benevolo resti un sistema ideologico che legittima e perpetua disuguaglianze di potere. Ricerche mostrano che il sessismo benevolo ha effetti concreti: donne esposte a misure di sessismo benevolo mostrano una prestazione cognitiva peggiorata rispetto a contesti neutrali. Ciò suggerisce che l’effetto non è solo culturale o simbolico, ma incide sulle abilità, la competenza percepita e l’autonomia reale.
Quando il sessismo benevolo è presente in una relazione o in un contesto sociale, possono emergere effetti come:
Dipendenza economica: se il partner assume il ruolo del provveditore “gentile”, può occuparsi di quasi tutto, relegando la donna in una posizione non solo di cura ma di non-decisione riguardo al denaro. Questo è coerente con il meccanismo del paternalismo protettivo.
Sollecitazione alla non-competenza: in contesti di sessismo benevolo agli uomini è più probabile offrire “supporto orientato alla dipendenza” alle loro partner (ossia risolvere i problemi al posto loro) piuttosto che incoraggiare l’indipendenza della donna. PubMed Questo tipo di supporto limita la percezione di competenza della donna e riduce le esperienze in cui lei stessa decide in autonomia, inclusa la decisione di aprire un conto bancario a nome proprio, gestire il risparmio, investire.
Effetti sull’accesso ai conti bancari e alle risorse: nella misura in cui il sessismo benevolo normalizza l’idea che “l’uomo provvederà”, vi è un rischio che le donne non vengano incoraggiate/abilitate ad avere strumenti finanziari propri (conto corrente, conto risparmio, carta, investimento). Sebbene non tutti gli studi colleghino direttamente sessismo benevolo e possesso di conto, la letteratura sull’autonomia economica femminile mostra che la mancanza di strumenti a nome proprio aumenta la vulnerabilità (per esempio in relazioni abusive, separazioni, contesti di violenza economica).
Dunque, appare evidente che, più la donna interiorizza o accetta implicitamente modelli di sessismo benevolo, maggiore è la sua vulnerabilità a perdere il controllo economico.
Sessismo benevolo e violenza economica
Il sessismo benevolo non è innocuo: maschera diseguaglianze, protegge la dipendenza e limita l’autonomia delle donne. Quando si sposta nell’ambito economico, può diventare un terreno fertile per la violenza economica, in cui il potere di decidere, risparmiare, agire diventa appannaggio dell’altro. Contrastare questo fenomeno richiede una visione integrata: culturale, educativa, economica e giuridica. La libertà economica delle donne non è solo una questione di reddito, ma di potere decisionale, risorse proprie e riconoscimento come soggetto attivo.
Riconoscere il sessismo benevolo è un passo fondamentale per rendere visibili le dinamiche nascoste della violenza economica e aprire la strada a relazioni più paritarie e equilibrate.
Come si intrecciano sessismo benevolo e violenza economica:
Normalizzazione del controllo: il sessismo benevolo normalizza che l’uomo “gestisca” o “faccia per” la donna, e questo getta le basi per un controllo economico più sistematico che può non essere percepito come violenza.
Rendere invisibile la violenza: perché la donna viene idealizzata come “fragile” o “bisognosa di protezione”, il passaggio da “protezione” a “controllo economico” può risultare meno evidente sia alla vittima sia agli altri. E questo facilita il fatto che la violenza economica passi sotto silenzio.
Dipendenza economica come terreno fertile: quando una donna è economicamente dipendente (situazione favorita dal sessismo benevolo) la separazione, l’interruzione del reddito, la perdita di accesso alle risorse, diventano più dolorosi e meno prevenibili.
Sottovalutazione del danno: studi meta-analitici mostrano che il sessismo benevolo, pur non essendo direttamente associato alla violenza fisica quanto il sessismo ostile, è comunque correlato ad atteggiamenti che legittimano la violenza contro le donne.
Quando la “protezione” diventa gabbia
Nel suo saggio “La femminilità, una trappola” (contenuto in una serie di conferenze svolte negli Stati Uniti nel 1947, pubblicate all’epoca da Vogue, e oggi proposte in Italia da L’Orma Editore) Simone de Beauvoir, mostra in modo molto chiaro questo meccanismo presente nella società di allora e, possiamo dirlo, riconoscibile ancora oggi, quasi ottant’anni dopo.
Scrive Simone de Beauvoir, con la sua solita lucidità:
“Per quanto mi riguarda, penso che non ci sia mito più irritante e falso di quello dell’ ‘eterno femminino’, che è stato inventato dagli uomini con la complicità delle donne e che descrive queste ultime come intuitive, affascinanti, sensibili.
Gli uomini hanno il potere di dare a simili parole un’accezione lusinghiera, al punto che molte donne si lasciano ingannare da quest’immagine. Svelano i misteri dei loro cuori, i segreti delle loro intime emozioni; con umiltà offrono all’uomo il riflesso dei suoi desideri, rafforzando il suo senso di superiorità. Ma, quando parla di sensibilità delle donne, in realtà l’uomo si riferisce alla loro mancanza di intelligenza, quando parla di fascino alla loro mancanza di responsabilità, quando parla di capriccio alla loro propensione al tradimento. Non lasciamoci ingannare“.
E ancora: “Di fronte alle donne, agli uomini piace assumere il ruolo di valorosi cavalieri pronti a combattere per difenderle. Ma per meritare questa generosità la donna deve essere fragile o prigioniera. E’ possibile liberare Andromeda solo se è incatenata, è possibile svegliare la Bella addormentata solo se giace dormiente”.
Peter Glick e Susan Fiske, che per primi hanno studiato sistematicamente questa forma di sessismo, lo definiscono come “un insieme di atteggiamenti apparentemente positivi, che però rinforzano stereotipi di genere e ruoli limitanti” (Glick e Fiske, 1996). È la voce di chi dice «lascia fare a me, tu occupati di altro», quella che si veste da cura ma cela il controllo, quella che protegge ma allo stesso tempo chiude una porta dietro cui si cela la dipendenza.
Come abbiamo visto, secondo il rapporto di WeWorld, in Italia quasi il 40% delle donne non dispone di un conto bancario a proprio nome, un dato che da solo dice molto sull’autonomia economica ancora fortemente inadeguata. Se a questo si aggiunge la normalizzazione culturale di ruoli in cui “l’uomo provvede e la donna si prende cura“, come osservato da South et al. (2023), la fragilità economica diventa terreno fertile per forme di violenza spesso invisibili, come quella economica.
La violenza economica non è solo una questione di denaro: è il sottrarre alla donna il potere di decidere, di pianificare, di agire. È l’impedire l’accesso alle risorse, il controllo serrato sulle spese, l’ostacolare la partecipazione al mercato del lavoro. È una violenza spesso legittimata da narrazioni benevole che (magari con le migliori intenzioni) “proteggono” la donna, ma in realtà ne reprimono la libertà e alimentano la dipendenza (WeWorld, 2023).
Dal punto di vista psicologico, è interessante notare che il sessismo benevolo ha effetti tangibili sulle capacità delle donne di agire autonomamente: studi dimostrano come l’esposizione a questo tipo di atteggiamento riduca le prestazioni cognitive e il senso di competenza nelle donne, alimentando così una spirale che rinforza la loro marginalizzazione economica (Barreto e Ellemers, 2005).
Questo ha risvolti profondi nella vita quotidiana e nelle relazioni: ad esempio, quando un partner prende in mano tutte le decisioni economiche, senza coinvolgere o responsabilizzare la donna, si crea una dipendenza che, se trasformata in controllo, diventa violenza. La protezione si trasforma in prigione. Eppure, la narrazione dominante spesso minimizza o non riconosce queste forme di abuso, perché la “protezione” sembra un gesto di amore o cura. È qui che il lavoro culturale, educativo e politico diventa essenziale: riconoscere il sessismo benevolo significa educare su ciò che sembra gentilezza ma è una forma di potere che limita ogni donna che si trova coinvolta in dinamiche relazionali asimmetriche.
Violenza economica come forma di abuso: riferimenti normativi
La violenza economica e psicologica sono forme di abuso invisibili che influiscono profondamente sulla vita delle vittime, compromettono la loro autonomia e la loro salute mentale. Mentre la consapevolezza e la ricerca su questi temi stanno crescendo, c’è ancora molto lavoro da fare per migliorare la protezione delle vittime e per prevenirne la diffusione.
La violenza economica è una delle espressioni della violenza di genere, riconosciuta a livello internazionale.
In Italia, la violenza economica non è ancora un reato specifico, ma può essere perseguita attraverso norme penali e civili esistenti. Tuttavia, la frammentazione normativa e la difficoltà di riconoscimento di queste forme di abuso richiedono un’evoluzione legislativa più esplicita, in linea con le raccomandazioni internazionali e con le esigenze di tutela delle vittime, soprattutto in un’ottica di genere e di diritti umani.
Violenza economica e psicologica non sono fenomeni da relegare al privato: sono ferite sociali che costano in dignità, tempo, opportunità. L’educazione finanziaria non è la panacea, ma è uno dei pilastri fondamentali per costruire autonomia, potere personale e relazioni più equilibrate. Se vogliamo che la prossima generazione sia meno vulnerabile, dobbiamo investire non solo nei numeri, nei dati, ma nelle competenze, nella cultura, nelle parole che usiamo. Perché parlare di soldi è anche parlare di libertà.
Secondo la Convenzione di Istanbul del 2011, la violenza economica è una forma di violenza domestica che comprende atti di privazione economica, controllo coercitivo delle risorse economiche, impedimento all’accesso al lavoro o all’istruzione, e gestione imposta del denaro. Anche se la Convenzione non fornisce una definizione netta della sola violenza economica, la include chiaramente tra le forme di violenza psicologica e domestica, obbligando gli Stati firmatari (tra cui l’Italia, con la legge n. 77/2013) a riconoscerla e contrastarla.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (che puoi leggere qui:https://www.istat.it/it/files/2017/11/ISTANBUL-Convenzione-Consiglio-Europa.pdf ) riconosce la violenza economica come forma di abuso. L’art. 3 della Convenzione definisce la violenza contro le donne come “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione” e include esplicitamente “la privazione economica”.
La ratifica della Convenzione impone allo Stato italiano l’obbligo di adottare misure concrete per contrastare anche la violenza economica sia sul piano penale che civile.
Appare evidente, alla luce dei molti dati che abbiamo approfondito, che la strada da fare è ancora lunga e impervia, ma non per questo, inaccessibile.