05/11/2025
Prima era tutto più semplice, o almeno così ci piace raccontarcelo.
Tipo quei filtri vintage che metti sulle foto per farti credere che gli anni ’90 fossero un film di Sorrentino invece che la mensa della scuola con le sedie di plastica arancione.
Prima si parlava guardandosi negli occhi, adesso ci mandiamo i vocali di tre minuti in cui diciamo “niente eh, tutto a posto” mentre dentro stiamo crollando come l'intonaco da pareti troppo umide.
Silenziosamente ma inesorabilmente.
Prima l’amore era una cosa che succedeva e basta.
Ti guardavi, ti piaceva, fine.
Adesso c’è da fare la triangolazione emotiva:
“Mi piace, però risponde lento, però ha visualizzato, però forse ha paura delle relazioni, però magari sono io.”
E intanto la vita passa.
E noi a farci autopsie sentimentali con la cura di un restauratore di affreschi.
Prima si cadeva e ci si rialzava.
Adesso se cadi, prima di rialzarti devi capire perché sei caduto, quale ferita infantile ti ha fatto inciampare, e poi magari apri un profilo instagram per raccontarlo.
Prima eravamo vivi. Adesso siamo bravi.
E bravi non sempre vuol dire felici.
A volte vuol dire solo “funzionanti”.
E niente. Non sto dicendo che era meglio prima. Sto solo dicendo che a volte mi mancano le cose che non sapevano di essere preziose mentre le vivevamo.
Quelle lì, che non torneranno uguali, ma che ancora brillano quando la sera chiudo gli occhi.
Eppure,
in mezzo a tutto questo casino,
la tenerezza resiste.
In certe mani che tremano ancora,
in certi “resta” detti piano,
in certe seconde possibilità che nessuno saprà mai che ci siamo dati.
Non siamo più quelli di prima, è vero.
Ma forse, sotto tutti gli strati,
una parte di noi sta ancora lì
che aspetta qualcuno che dica:
“Dai, vieni.
Si torna a casa.”
Oscar Travino