Dr. Marco Inghilleri Psicologo - Psicoterapeuta -Padova

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Dr. Marco Inghilleri Psicologo - Psicoterapeuta -Padova Sono psicologo, psicoterapeuta e sessuologo. Ricevo a Padova, presso InterattivaMente E’ psicologo dello Sport presso l’A.S.D. PadovaRing.

Bionote

Marco Inghilleri, psicologo, psicoterapeuta e sessuologo, è direttore del Centro di Psicologia giuridica, Sessuologia clinica e Psicoterapia di Padova e vicepresidente della Società Italiana di Sessuologia ed Educazione Sessuale. E’ stato direttore della collana Generi, Culture e Sessualità per la FrancoAngeli, membro dell’Osservatorio per la promozione sociale e la ricerca delle Psicoterapie per l’Ordine degli Psicologi del Veneto e ha collaborato per diversi anni con la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Padova e con la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi Milano-Bicocca. Collabora come consulente per l’Associazione Umanitaria Palestine Children’s Relief Fund. I suo interessi di ricerca riguardano le problematiche relative all’identità sessuale, personale e sociale, la sessuologia e il dialogo tra scienze psicologiche e scienze biomediche, le devianze e le tematiche sociali legate alla multiculturalità. Collabora con diverse associazioni scientifiche nazionali ed è supervisore e docente per alcune scuole di specializzazione in psicoterapia. In ambito psicoterapeutico e clinico si occupa delle svariate forme di disagio psicologico, affettivo, sessuale ed esistenziale e delle problematiche connesse alla pratica sportiva ed atletica. Ha curato e scritto diverse pubblicazioni scientifiche che riguardano le psicoterapie, l’epistemologia delle scienze psicologiche e biomediche, la psicologia clinica e la psicosessuologia ed è stato relatore a numerosi convegni e seminari nazionali e internazionali. Insegna Elementi di terapia sessuale presso il Centro Studi in Psicoterapia Cognitiva (CESIPc)
Ambiti clinici di competenza:

Psicoterapia individuale (adolescenti, adulti e anziani)
Psicoterapia di coppia
Psicoterapia della famiglia
Consulenza e sostegno psicologico
Sessuologia
Psicologia dello sport

Ambiti di competenza psico-giuridica:

Psicoterapia rivolta agli autori di reato (adolescenti e adulti)

Contatta per un primo appuntamento:

mail: info@interattivamente.org ; marco.inghilleri@interattivamente.org

Cellulare: 349.8632076

«Il mio lavoro nasce da un’esigenza epistemologica: ricondurre la psicologia clinica e la riflessione culturale a un orizzonte di realtà che non sia né ideologico né appiattito sul conformismo intellettuale. Mi muovo in una prospettiva costruttivista, ma non relativista: la realtà è sempre mediata dalle nostre strutture cognitive e culturali, e tuttavia possiede una resistenza, un “dato” che non possiamo cancellare con la sola forza delle narrazioni. Prendo sul serio l’eredità dell’epistemologia evoluzionistica — da Lorenz a Popper — secondo cui la conoscenza è un adattamento, una strategia che la specie ha sviluppato per sopravvivere, e non un rispecchiamento passivo del mondo. Questo significa che anche in psicologia clinica dobbiamo interrogarci non solo sul “che cosa è vero”, ma su “che cosa funziona” per il soggetto in quanto essere situato, incarnato, storico. Diffido delle categorie diagnostiche prese come dogmi. Non esistono entità cliniche fisse, ma costellazioni di significati, schemi d’azione, memorie, che si organizzano in configurazioni più o meno stabili. Il compito del clinico non è incasellare, ma disarticolare rigidità e restituire al paziente possibilità di movimento, di pensiero, di scelta. Nel mio lavoro critico le derive ideologiche che oggi attraversano il discorso psicologico: dall’appiattimento su protocolli standardizzati al recepimento acritico di istanze politiche mascherate da scienza. Per esempio, quando affronto temi come la disforia di genere, non lo faccio con la pretesa di “validare” un’identità data per scontata, ma per interrogarmi — e interrogare — su quali dinamiche psichiche, simboliche e sociali portino un soggetto a formulare la percezione di essere nato “nel corpo sbagliato”. È una domanda clinica, non una questione di adesione a un’agenda culturale. Il clinico, per me, è un artigiano della comprensione: lavora sui materiali che il paziente porta, ma anche sulle cornici che il contesto sociale impone. La terapia è uno spazio dove il senso si ricostruisce, e dove la libertà non è un’idea astratta, ma la capacità concreta di abitare il proprio mondo senza esserne schiacciati. Questo implica, in ultima analisi, un’etica della responsabilità: verso la verità, verso la complessità, e verso il soggetto che ci affida la sua narrazione. Non è un lavoro di consolazione, ma di lucida esplorazione dell’esistenza.»

Il pensiero perverso come difesa dall’umiliazione: dal trauma infantile alla negazione dell’alterità1. La radice dell’um...
09/11/2025

Il pensiero perverso come difesa dall’umiliazione: dal trauma infantile alla negazione dell’alterità

1. La radice dell’umiliazione e il riscatto perverso

Il pensiero perverso può essere compreso come il tentativo di trasformare un’umiliazione infantile in un trionfo adulto. Questa formulazione sintetizza una dinamica psichica complessa, in cui l’individuo cerca di riscattarsi da una ferita originaria legata alla dipendenza, alla vulnerabilità e alla perdita di controllo.
Freud già nel 1905, nei Tre saggi sulla teoria sessuale, aveva individuato nella perversione la persistenza di modalità infantili di soddisfacimento pulsionale, legate al bisogno di padronanza e al diniego della castrazione (Freud, 1905). Tuttavia, autori successivi hanno sottolineato che la perversione non è solo fissazione pulsionale, ma tentativo di riparazione narcisistica (Chasseguet-Smirgel, 1985).

Per Joyce McDougall (1982), la perversione rappresenta “una soluzione tragica e ingegnosa” che consente al soggetto di controllare la vergogna originaria trasformandola in una scena trionfale, dove l’Io, regista e attore, impone il proprio copione all’altro. L’atto perverso diventa così una messa in scena del potere su ciò che un tempo aveva generato impotenza.

2. Negazione della differenza e violazione del limite

Una caratteristica saliente del funzionamento perverso è la negazione delle differenze — sessuali, generazionali, soggettive. La differenza è intollerabile perché evoca la mancanza, la dipendenza e la necessità di riconoscere l’altro come irriducibilmente separato.
André Green (1983) ha descritto questa operazione come una negazione della negazione, una cancellazione simbolica che impedisce l’accesso alla dimensione del desiderio e mantiene il soggetto in un universo chiuso, dominato dalla propria onnipotenza.

La violazione del limite non è dunque semplice trasgressione morale, ma sfida simbolica al principio di realtà: è il modo con cui il soggetto tenta di confermare la propria autosufficienza, negando il valore dell’altro come soggetto di desiderio autonomo (Khan, 1979). L’altro, in questo contesto, diventa un oggetto-scenico, funzionale a una fantasia privata e solipsistica.

3. Onnipotenza e autoreferenzialità

La perversione si fonda su una logica onnipotente e autoreferenziale. L’altro è ammesso solo in quanto attore di una fantasia personale e chiusa, in cui il soggetto è insieme regista e spettatore del proprio dramma interiore.
Questo pensiero autoreferenziale si configura come un dispositivo mentale difensivo: protegge dal rischio della relazione autentica, ma al prezzo di un isolamento narcisistico. Come sottolinea Bolognini (1998), la mente perversa è “una mente senza confini”, incapace di tollerare la frustrazione necessaria all’incontro con l’alterità.

4. L’altro come oggetto di una fantasia onanistica

Nella scena perversa, l’altro non esiste come persona, ma come proiezione incarnata di un copione interno. L’esperienza è di tipo onanistico anche quando coinvolge un partner reale: ciò che conta non è la reciprocità, ma la ripetizione rituale di un atto che conferma la propria potenza e cancella la vergogna.
Chasseguet-Smirgel (1985) descrive questa dinamica come “idealizzazione dell’Io arcaico onnipotente”, in cui la fantasia erotica serve a negare la castrazione e la dipendenza. La sessualità è così de-erotizzata e trasformata in strumento di dominio simbolico.

5. Il senso clinico: la perversione come difesa relazionale

In prospettiva clinica, la perversione va letta come un’organizzazione difensiva dell’esperienza relazionale, più che come una categoria morale o comportamentale. È una modalità che preserva il soggetto dal dolore della mancanza e dalla paura dell’umiliazione, attraverso un uso concreto e manipolatorio dell’altro.
La sfida terapeutica consiste nel riconoscere la funzione protettiva di tale costruzione psichica, senza colludere con essa, ma accompagnando il soggetto verso la possibilità di tollerare la differenza, la dipendenza e la vulnerabilità come condizioni della relazione autentica (McDougall, 1982; Bolognini, 1998).

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Bibliografia

Freud, S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale.

Green, A. (1983). La follia privata. Psicoanalisi della perversione. Torino: Einaudi.

Chasseguet-Smirgel, J. (1985). L’ideale dell’Io. Studio sulla perversione. Milano: Raffaello Cortina.

McDougall, J. (1982). Teatri della mente. Illusione e verità nella psicoanalisi. Torino: Boringhieri.

Khan, M. M. R. (1979). Il sé nascosto. Roma: Armando Editore.

Bolognini, S. (1998). Come vento, come onda. Trasformazioni psichiche e relazioni. Milano: Franco Angeli.

La forza della propagandaDa bambino non avevo dubbi: i buoni erano i cowboy, i cattivi gli indiani.I cowboy avevano il c...
04/11/2025

La forza della propaganda

Da bambino non avevo dubbi: i buoni erano i cowboy, i cattivi gli indiani.
I cowboy avevano il cappello bianco, cavalcavano per difendere la civiltà.
Gli indiani urlavano, attaccavano, volevano distruggere il villaggio.
Era semplice. Lineare. Rassicurante.

Anche la storia del mondo mi sembrava chiara: noi stavamo con gli americani, i buoni, contro i tedeschi cattivi che volevano conquistare tutto.
Così mi avevano insegnato i film, i fumetti, la scuola, le figurine.
Un mondo a due colori, senza sfumature.

Poi, qualcosa si incrinò.
Un giorno lessi una storia diversa: gli indiani non erano i cattivi, erano i popoli invasi.
Difendevano la loro terra, la loro vita, la loro dignità.
I cowboy, improvvisamente, non erano più eroi ma conquistatori.
Quel giorno la mia infanzia finì un po’.

Da allora, tutto cambiò.
I Sioux diventarono il simbolo di un coraggio autentico.
Teschio Rosso, con la sua ferita indelebile, mi parve più umano di Capitan America, troppo perfetto, troppo sicuro di sé.
Cominciai a sospettare che i “buoni” non sempre lo fossero, e che spesso la verità avesse perso la battaglia prima ancora di cominciare.

Fu allora che scoprii la vera forza della propaganda:
non quella che ti impone un’idea, ma quella che ti fa credere di averla scelta tu.

Dai Lari a Ognissanti: memoria, identità e consumo nella sfida culturale con HalloweenL’autunno, con la sua luce che dec...
01/11/2025

Dai Lari a Ognissanti: memoria, identità e consumo nella sfida culturale con Halloween

L’autunno, con la sua luce che declina, è da sempre il tempo in cui le culture dell’Europa hanno celebrato la memoria dei morti e il legame con gli antenati. La festa dei Lari dell’antica Roma, la solennità cristiana di Ognissanti e la Commemorazione dei Defunti sono espressioni diverse di un unico principio antropologico: riconoscere la continuità tra la vita e la morte, tra le generazioni che vivono e quelle che hanno lasciato il mondo visibile.

In epoca contemporanea, questa eredità si trova progressivamente oscurata da una ricorrenza di matrice anglosassone – Halloween – diffusasi in Europa attraverso la potenza dei media e del mercato globale. Ma se i Lari e Ognissanti rappresentano una cultura della memoria, Halloween incarna piuttosto una cultura della rimozione travestita da gioco, una messa in scena della paura che nega la profondità simbolica della morte.

1. Il culto dei Lari: la memoria come fondamento dell’identità

Nella religione romana, i Lari erano spiriti benevoli, custodi della casa e protettori degli incroci, figure intermedie tra il divino e il domestico. Ogni famiglia possedeva un larario, altare domestico dove si offrivano incenso, vino e cibo in segno di gratitudine e di continuità con gli antenati (Cerulli, 2020).

Il culto dei Lari rappresentava una concezione relazionale e immanente del sacro: il defunto non era “altro”, ma parte viva della comunità familiare. Durante i Dies Parentales, nel mese di febbraio, i Romani visitavano le tombe e portavano doni ai loro morti (Romano Impero, 2018). La morte era parte della vita, non il suo contrario: un passaggio dentro un ordine naturale e sociale che univa vivi e defunti in un’unica appartenenza.

In questa visione, la memoria non è solo ricordo ma presenza attiva, custodia, riconoscimento del debito verso chi ci ha preceduti. È la radice stessa dell’identità collettiva.

2. Ognissanti e la Commemorazione dei Defunti: la memoria trasfigurata in speranza

Con l’avvento del cristianesimo, molte tradizioni legate al culto degli antenati vennero rilette alla luce della fede nella risurrezione. Papa Gregorio III, nell’VIII secolo, istituì la festa di Ognissanti il 1° novembre, dedicandola a tutti i santi (Britannica, 2024); poco più tardi, san Odilone di Cluny introdusse la Commemorazione dei Defunti il 2 novembre.

La Chiesa, lungi dal cancellare l’antico legame con i morti, lo trasfigurò in una prospettiva di speranza: la morte non è fine, ma compimento. I cimiteri divennero luoghi di incontro e non di terrore; le preghiere, i lumini, i fiori sono segni di una memoria affettiva e trascendente, di una relazione che continua oltre la soglia della vita visibile.

La cultura cristiana dell’Europa ha fatto di questo tempo un rito collettivo di riconciliazione: ricordare i morti significa riconoscere la nostra stessa umanità, la nostra dipendenza, la fragilità che ci accomuna. In questo senso, Ognissanti non celebra la paura della morte, ma la comunione con essa come parte della vita spirituale e comunitaria.

3. Halloween: la morte ridotta a spettacolo

A confronto con queste tradizioni, Halloween rappresenta un mutamento radicale nel modo in cui le società contemporanee trattano la morte. Le sue radici, come noto, risalgono alla festa celtica di Samhain, che segnava la fine dell’estate e l’inizio dell’inverno (Time, 2018). Ma nella forma moderna, sviluppata negli Stati Uniti a partire dal XIX secolo, Halloween ha perduto ogni autentica dimensione rituale o religiosa, trasformandosi in fenomeno commerciale e mediatico (History, 2023).

Zucche intagliate, maschere, feste, film horror e “dolcetto o scherzetto” non hanno nulla a che vedere con la riflessione sulla morte. Sono piuttosto la sua parodia consumabile: una estetizzazione del macabro che trasforma il terrore in intrattenimento. Come nota l’antropologo Jack Santino, «Halloween è la teatralizzazione della paura, resa innocua dal mercato» (Santino, 2011).

In questo senso, Halloween non affronta la morte: la nega, la svuota di senso. Dove le antiche culture cercavano di mantenere un legame con i defunti, Halloween offre una fuga. Dietro la maschera del divertimento si nasconde una profonda angoscia rimossa, quella dell’uomo postmoderno che non sa più come guardare in volto la propria finitezza.

David Le Breton (2005) osserva che la società contemporanea trasforma la morte in immagine per non sentirne più il peso: la spettacolarizza per neutralizzarla. Halloween è l’emblema di questa tendenza: un rito del consumo che, sotto l’apparenza di gioco, contribuisce alla desertificazione del sacro e all’anestesia emotiva collettiva.

4. Memoria o consumo: una scelta di civiltà

La contrapposizione tra Ognissanti e Halloween non è dunque solo una questione di calendario, ma una scelta di civiltà. Da un lato, la cultura della memoria, del radicamento, della comunione tra generazioni; dall’altro, la cultura della superficialità, del consumo immediato, della maschera che sostituisce il volto.

Ognissanti e le antiche feste dei Lari educano alla gratitudine, alla consapevolezza della propria fragilità e alla solidarietà con chi ci ha preceduto. Halloween educa invece alla sospensione ironica del senso, alla finzione, alla paura addomesticata che non trasforma, ma distrae.

La prima è una festa che unisce; la seconda, che disperde. La prima invita al silenzio e alla contemplazione; la seconda al rumore e all’eccesso. La prima ci aiuta a elaborare la morte, la seconda a dimenticarla.

In una società che teme la morte più di ogni altra cosa, Halloween è il suo travestimento: una maschera collettiva che tenta di rendere sopportabile l’insopportabile, trasformando l’angoscia in mercato e la paura in merce.

5. Conclusione: recuperare la profondità della memoria

Recuperare il senso autentico delle feste dei morti non significa rifiutare ogni forma di gioco o di creatività, ma ritrovare la dimensione simbolica che unisce i vivi e i defunti. Celebrare Ognissanti o ricordare i Lari non è un gesto nostalgico, ma un atto di resistenza culturale contro l’omologazione del consumo.

Solo una cultura che sa dare spazio alla morte, al silenzio e alla memoria, può dire di aver compreso davvero la vita. In questo senso, scegliere Ognissanti contro Halloween non è un gesto di conservazione, ma un atto di libertà spirituale.

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Bibliografia essenziale

Britannica (2024). All Saints’ Day. Encyclopaedia Britannica.

Cerulli, F. (2020). Il culto dei Lari e la religione domestica romana. Arca Cultura.

History Channel (2023). The Origins of Halloween and Samhain.

Le Breton, D. (2005). Antropologia della morte e del corpo. Raffaello Cortina Editore.

Romano Impero (2018). Il culto dei Lari.

Santino, J. (2011). Halloween and Other Festivals of Death and Life. University of Tennessee Press.

Time Magazine (2018). The Pagan Roots of Halloween.

Vogue (2023). The Modern History of Halloween.

Per Mario GalzignaMio caro amico,ancora oggi mi sembra impossibile che tu non ci sia.Ci sono assenze che non si colmano,...
31/10/2025

Per Mario Galzigna

Mio caro amico,
ancora oggi mi sembra impossibile che tu non ci sia.
Ci sono assenze che non si colmano, e la tua è una di quelle: una presenza viva, ironica, critica, mai convenzionale, che continua a interrogarmi anche da lontano.

Ripenso al tempo che abbiamo avuto e a quello che, purtroppo, abbiamo sprecato a litigare. Quante energie, quante parole che avrebbero potuto essere dedicate a tutt’altro: alla curiosità reciproca, alla ricerca condivisa, o anche solo al semplice stare insieme. Eppure — come spesso accade nelle relazioni autentiche — anche i conflitti hanno avuto un senso, forse quello di rivelare la forza e la complessità del legame che ci univa.

Ah, Mario, non ti ho detto una cosa importante.
Ho studiato con profonda attenzione La sfida dell’altro, il tuo libro. L’ho letto come si legge un testo che interpella, che smuove, che costringe a pensare e a ripensarsi. È stato illuminante, un punto di svolta.

Rileggerlo oggi, nel 2025, e scoprire che tu, già nel 1999, scrivevi cose che oggi sostengo e insegno, mi provoca un sentimento misto di ammirazione e di sconforto. Ammirazione per la tua lucidità, per la tua capacità di pensare l’altro — non come minaccia, ma come occasione di trasformazione, come incontro che disloca e rinnova.
Sconforto, invece, per non averti ascoltato di più, per non aver compreso fino in fondo quanto già allora tu vedessi avanti, oltre le categorie dominanti, oltre le semplificazioni del sapere e del potere.

Tu parlavi di un sapere critico e dialogico, di un pensiero che non teme l’alterità ma la abita. E forse questo era anche il tuo modo di essere nel mondo: scomodo, appassionato, profondamente umano.

Oggi, guardandomi indietro, capisco che la “sfida dell’altro” non era solo un tema di studio, ma una pratica di vita — e tu ne eri incarnazione piena.
Mi mancano le tue provocazioni, il tuo sarcasmo intelligente, la tua capacità di unire rigore e tenerezza, sapere e inquietudine.

Ti penso spesso, Mario.
E forse, in fondo, continui a esserci ogni volta che provo a pensare in modo critico, a mettere in dialogo differenze, a cercare un senso dove il senso vacilla.
La tua lezione vive lì — nel tentativo di non smettere mai di pensare, e soprattutto di ascoltare.

Grazie per aver lasciato una traccia così profonda, non solo nei libri, ma in chi ha avuto la fortuna di conoscerti, di discutere con te, di volerti bene.

https://www.psychiatryonline.it/notizie-varie/per-mario-galzigna/?fbclid=IwVERDUANxOfpleHRuA2FlbQIxMAABHsmCaZYqpBj0XH_qbnY63F-kk0p9T9jmLibfeHuXUQmtp2reU_IeurpaefPH_aem_OnrssPcWcm80zg9qNCPWEA

NDR: Mario Galzigna è stato tra i fondatori di Psychiatry on line Italia, ha curato per anni la Sezione delle recensioni librarie e ha regalato alla rivista e ai suoi lettori "pillole di sapienza vera" che potete trovare nei nostri archivi. Mi pare, come Editor, che il modo migliore di ricordarlo s...

Quando l’amore non arriva: la ferita dei non amatiL’idea che la sofferenza affettiva più profonda possa derivare dalla m...
29/10/2025

Quando l’amore non arriva: la ferita dei non amati
L’idea che la sofferenza affettiva più profonda possa derivare dalla mancanza d’amore – o dall’amore ricevuto in modo distorto – trova nella prospettiva di Peter Schellenbaum una delle sue formulazioni più incisive. Egli sostiene che molte delle frustrazioni, delle ansie, delle rigidità psicologiche dell’adulto sono il residuo di un’esperienza infantile di «non essere amato» o di essere amato in forma condizionata (Schellenbaum, La ferita dei non amati).
In questo articolo propongo una ricognizione di questa ferita, dei suoi meccanismi psicodinamici e delle possibili vie terapeutiche, con lo sguardo di un operatore della relazione d’aiuto.
1. La ferita primaria: cosa significa “non amare”
Schellenbaum individua nella mancanza d’amore – intesa non tanto come assenza tout court, quanto come amore non riconoscente del Sé – una ferita esistenziale. «Che cosa significano frasi come: “Non mi ama nessuno…”, “È andata male anche questa volta…”, “Era la persona sbagliata”?» sono il segno di una vecchia ferita mai rimarginata e ancora dolorosa (Schellenbaum, 2015, p. 5).
Qui si apre una distinzione fondamentale: non è solo l’essere totalmente ignorati, ma essere “amati troppo poco”, o “amati male”, o “amati solo se…” che genera una ferita incentrata sul tema del valore personale. L’amore condizionato costruisce una premessa implicita: «valgo se…», «merito solo se…» – e la persona si interiorizza un Sé frammentato.
2. Le cinque manifestazioni cliniche della ferita
Schellenbaum e la letteratura che lo attualizza individuano cinque modalità in cui la ferita del non amato si manifesta nell’adulto:
Rifiuto del Sé e amore condizionato: La persona che è stata soltanto “amabile se…” interiorizza un rifiuto di sé. Questa condizione, a suo dire, impedisce l’amore incondizionato verso sé stessi, condizione pregiudiziale per l’amore verso l’altro.
Rigidità mentale e autocritica: Il ferito si fa giudice implacabile di sé. La ferita non è solo il trauma, ma la modalità difensiva che si costruisce: autocritica, perfezionismo, rigidità.
Somatizzazione: Quando non si riconoscono o non si esprimono le emozioni originarie (rabbia, dolore, senso d’abbandono), il corpo “parla” al posto della parola. Le teorie psicosomatiche riconoscono che emozioni bloccate possono tradursi in sintomi organici.
Paura del giudizio e ipersensibilità: Il ferito è costantemente in allerta rispetto all’altro: “mi guarderà, mi valuterà, mi rifiuterà”. Questa ipersensibilità al giudizio limita la spontaneità, e può condurre all’isolamento.
Sensazione d’ingiustizia: Infine, il ferito sperimenta un forte senso di ingiustizia, una rabbia sommersa verso chi “non ha amato”, o non ha saputo amare. Questa rabbia non sempre viene riconosciuta, ma struttura l’interiorità.
Queste cinque modalità non sono “categorie fredde”, ma aspetti che spesso si intersecano nella storia individuale.
3. Implicazioni per la psicoterapia esistenziale-costruttivista
Dal punto di vista dell’approccio esistenziale e costruttivista – che premia la consapevolezza attiva del Sé, il riconoscimento delle possibilità e la costruzione di significato – la ferita del non amato implica alcune sfide e alcune potenzialità.
Sfide:
Ricostruire una narrazione di sé che riconosca la ferita senza restarvi impigliati. Spesso il ferito costruisce identità basate sul “non-amato”: «sono quello che non merita», «sono l’ospite non invitato».
Lavorare sulle credenze implicite: «Se mi accettano solo se… allora se non faccio… non sarò». Queste credenze condizionano la vita relazionale e la libertà esistenziale.
Rendere simbolica la sofferenza affettiva: aiutare il soggetto a riconoscere e nominare il dolore dell’abbandono/negazione, affinché non resti soltanto somatizzato o agito.
Potenzialità terapeutiche:
Attraverso la relazione terapeutica, offrire un luogo in cui il «non-amato» possa essere raccontato, vista l’importanza del riconoscimento (come nella tradizione junghiana di Schellenbaum).
Favorire l’affermazione dell’amore verso sé stessi: l’amore pre-condizionale – cioè non subordinato a performance – diventa un obiettivo primario.
Sostenere la costruzione di relazioni significative dove il soggetto può dire “sì” e “no” autentici, recuperando autonomia e riconoscimento reciproco (Schellenbaum, Il no in amore).
Integrare corpo, emozione e simbolo: favorire la consapevolezza del sé somatico, e il passaggio da “il corpo che parla al posto della parola” a “il corpo che accompagna la parola”.
4. Verso una lettura critica
È bene considerare che l’interpretazione della ferita del non amato non esaurisce le cause della sofferenza umana. Da una prospettiva integrata, vi sono fattori biologici, sociali, culturali e storici che contribuiscono all’esperienza di abbandono o rifiuto. Tuttavia, la forza del contributo di Schellenbaum risiede nella attenzione simbolica: non solo ciò che è accaduto, ma come è stato interiorizzato, quale significato ha assunto nel sé e nella relazione.
Una domanda che vale porre al terapeuta/interlocutore: Come può il soggetto ri-legare la propria storia affettiva in una trama con senso? Come può trasformare la ferita in risorsa – non banalmente “grazie al dolore sono diventato forte”, ma “ho dovuto imparare ad amare me – e dunque l’altro – in modo diverso”?
5. Conclusione
La ferita dei non amati è un concetto che invita al dialogo fra affetto originario, processo di individuazione e vita relazionale adulta. Per il terapeuta, è un invito a considerare non solo ciò che manca (amore, riconoscimento) ma anche ciò che il soggetto costruisce a partire da quel vuoto.
In ultima analisi: il percorso non è solo colmare un vuoto, ma imparare a quell’amore che non ho ricevuto, e farlo diventare amore verso me stesso, quindi verso l’altro. L’amore non condizionato – che Schellenbaum indica come possibile – costituisce il vero antidoto alla ferita che abbiamo ospitato.
Bibliografia
Schellenbaum, P. (1988). Narzißmus und die Liebe des Anderen [Narcisismo e amore dell’altro]. München: Kösel-Verlag.
Schellenbaum, P. (1990). Das Nein in der Liebe [Il No in amore. Dipendenza e autonomia nella vita di coppia]. München: Kösel-Verlag; trad. it. (2001), Milano: Red Edizioni.
Schellenbaum, P. (1994). Die Wunde der Nichtgeliebten [La ferita dei non amati]. München: Kösel-Verlag; trad. it. (2015), Milano: Red Edizioni.
Schellenbaum, P. (2005). La guarigione dell’anima ferita. Trasformare le energie bloccate in risorse vitali. Milano: Red Edizioni.

La scomparsa silenziosa: crisi demografica e smarrimento culturale dell’Italia1. Un Paese che smette di generareL’Italia...
28/10/2025

La scomparsa silenziosa: crisi demografica e smarrimento culturale dell’Italia

1. Un Paese che smette di generare

L’Italia sta vivendo una delle crisi demografiche più profonde della sua storia. Con un tasso di fecondità tra i più bassi al mondo (1,2 figli per donna secondo ISTAT, 2024) e un’età media in costante aumento, il nostro Paese si avvia verso una progressiva rarefazione della popolazione. Tuttavia, ridurre questo fenomeno a una semplice questione economica o di politiche familiari sarebbe un errore.
La denatalità è il sintomo di una crisi di senso, non solo di risorse. È il riflesso di una cultura che ha smarrito il significato della generazione come gesto simbolico, come atto di fiducia nel futuro.

2. Dall’individuo alla solitudine: la cultura del sé

Negli ultimi decenni, la società occidentale ha attraversato una trasformazione profonda: la progressiva sostituzione del legame con l’autonomia, del “noi” con l’“io”. Come osserva Christopher Lasch ne La cultura del narcisismo (1979), l’individuo postmoderno è spinto a investire tutte le proprie energie nella realizzazione personale, in un processo continuo di autoaffermazione che si nutre di riconoscimento ma teme ogni vincolo.
Questo modello culturale, apparentemente liberatorio, ha finito per impoverire l’esperienza relazionale. La generazione, sia biologica che simbolica, implica un atto di donazione e di responsabilità verso l’altro. Quando il soggetto è educato a concepirsi come progetto chiuso, “autonomo” e “autosufficiente”, la generatività perde significato.

Erik Erikson aveva individuato la “generatività” come compito centrale dell’età adulta: la capacità di prendersi cura di qualcuno o di qualcosa che continuerà dopo di noi (Erikson, 1950). In assenza di questa dimensione, subentra la stagnazione: una chiusura narcisistica che impoverisce la vitalità psichica e collettiva.

3. La civiltà del provvisorio e la dissoluzione del legame

Zygmunt Bauman ha definito la nostra epoca come una modernità liquida (Bauman, 2000), in cui tutto — relazioni, valori, identità — è sottoposto alla logica della fluidità e della reversibilità. L’amore stesso, in questa prospettiva, diventa “liquido”: fragile, temporaneo, incapace di costruire continuità.
In una simile cornice, anche la maternità e la paternità vengono vissute come rischi o come limiti alla libertà individuale. La libertà, però, priva di legame e di responsabilità, degenera in isolamento e perdita di significato. È quella che Byung-Chul Han descrive come la “società della stanchezza”, dove l’individuo, sovraccarico di libertà e prestazione, si consuma nella solitudine (Han, 2010).

Durkheim parlava già a fine Ottocento di anomia per descrivere la perdita del quadro normativo e simbolico che sostiene il vivere insieme (Durkheim, 1897). Oggi l’anomia assume la forma di un vuoto valoriale diffuso: tutto è possibile, ma nulla ha senso duraturo. La natalità crolla non solo perché mancano risorse, ma perché manca una ragione per cui mettere al mondo qualcuno.

4. La colonizzazione economica dell’esistenza

L’ideologia neoliberale, divenuta la matrice culturale dominante, ha trasformato la vita in merce e il soggetto in “imprenditore di sé stesso”. In questo paradigma, l’altro è spesso percepito come concorrente o ostacolo alla realizzazione personale.
Charles Taylor, in Le radici dell’io (1989), mostra come l’individualismo moderno, nato da istanze di libertà e autodeterminazione, si sia progressivamente svuotato della sua dimensione etica e comunitaria. Il risultato è una società di individui isolati, governabili non con la forza ma attraverso il consumo e l’intrattenimento.

Byung-Chul Han ha descritto questo modello come “psicopolitica del neoliberismo” (Han, 2014): una forma di dominio dolce, che trasforma il desiderio in prestazione e la libertà in auto-sfruttamento. In tale contesto, la famiglia, la tradizione e la spiritualità appaiono come residui del passato, incompatibili con la logica del mercato e dell’efficienza.

5. Per una rinascita generativa

La crisi demografica italiana non si risolverà con incentivi economici o politiche nataliste di superficie. È necessaria una ricostruzione simbolica e culturale: una rieducazione alla responsabilità, al legame e alla trasmissione.
McAdams e Ancona (2004) hanno parlato di generative narrative: la capacità di costruire storie di vita orientate al futuro, in cui l’individuo percepisce sé stesso come parte di una catena di senso. In assenza di questa dimensione narrativa, la vita diventa pura esperienza individuale, senza eredità né orizzonte.

Ritrovare la generatività significa riconnettere la libertà con il dono, la realizzazione con la continuità, l’amore con la responsabilità. In un’epoca che celebra l’effimero e l’istantaneo, mettere al mondo un figlio, educarlo, trasmettere valori autentici rappresenta un atto controculturale: un atto di fede nella vita e nel futuro.

6. Conclusione

La scomparsa silenziosa dell’Italia non è soltanto demografica: è una scomparsa dell’anima collettiva, della fiducia nel domani, della memoria condivisa.
Ogni generazione, per esistere, ha bisogno di credere che valga la pena continuare la storia. Finché la nostra cultura non ritroverà questo sguardo lungo — il senso della continuità, del sacrificio, del legame — nessuna politica potrà invertire la rotta.
L’antidoto alla dissoluzione non è un ritorno nostalgico al passato, ma un nuovo umanesimo del legame, capace di restituire senso e profondità all’essere nel mondo.

Bibliografia

Bauman, Z. (2000). Liquid Modernity. Polity Press.

Durkheim, É. (1897). Le Su***de: Étude de sociologie. Félix Alcan.

Erikson, E. H. (1950). Childhood and Society. Norton.

Han, B.-C. (2010). Müdigkeitsgesellschaft [La società della stanchezza]. Matthes & Seitz.

Han, B.-C. (2014). Psychopolitik: Neoliberalismus und die neuen Machttechniken. Matthes & Seitz.

ISTAT (2024). Rapporto annuale sulla situazione del Paese. Roma.

Lasch, C. (1979). The Culture of Narcissism. Norton.

McAdams, D. P., & Ancona, L. (2004). Narrative identity and generativity: A psychological perspective. Journal of Personality, 72(3), 437–459.

Taylor, C. (1989). Sources of the Self: The Making of the Modern Identity. Harvard University Press.

Abbiamo smesso di costruire bellezza: l’architettura e la crisi dell’anima occidentaleNegli ultimi decenni le nostre cit...
23/10/2025

Abbiamo smesso di costruire bellezza: l’architettura e la crisi dell’anima occidentale

Negli ultimi decenni le nostre città sembrano aver perso la capacità di emozionare. Camminando tra scuole, banche, ospedali o biblioteche, si ha spesso la sensazione di attraversare spazi neutri, privi di identità, costruiti per la funzione più che per l’esperienza umana. È come se la bellezza — un tempo fondamento dell’abitare — fosse diventata un lusso inutile.

Questa trasformazione non è casuale. A partire dal XX secolo, il pensiero architettonico moderno, con il suo ideale di razionalità e di efficienza, ha progressivamente separato l’estetica dalla funzione. Adolf Loos, già nel 1908, definiva l’ornamento “un crimine” contro la modernità (Loos, Ornament und Verbrechen, 1908), mentre Le Corbusier teorizzava la casa come “macchina per abitare” (Vers une architecture, 1923). L’architettura doveva liberarsi da ogni decorazione per divenire pura forma funzionale.

Negli anni ’60 e ’70 questa tendenza trovò la sua massima espressione nel brutalismo, corrente che esaltava il cemento n**o, la struttura esposta, la durezza delle linee. L’intento era nobile: rendere l’architettura onesta, spogliata di orpelli. Ma l’effetto fu spesso opposto. Gli spazi si fecero freddi, disumani, incapaci di accogliere la fragilità e la complessità emotiva di chi li vive. La città divenne “grigia”, non solo nel colore, ma nello spirito.

La perdita della bellezza non è solo un fatto estetico, ma antropologico e psicologico. Come ricordava Gaston Bachelard, lo spazio abitato non è mai neutro: è “la topografia della nostra intimità” (La poétique de l’espace, 1957). Gli ambienti modellano la nostra esperienza, influenzano i modi di pensare, di sentire, di relazionarci. Quando l’architettura smette di essere simbolica e diventa solo funzionale, l’uomo smarrisce un riflesso del proprio mondo interiore.

La modernità, con la sua fede nella tecnica e nella produttività, ha reso l’efficienza un valore assoluto. Ma ciò che guadagniamo in funzionalità lo perdiamo in senso. Come sottolineava Heidegger, “abitare” non significa semplicemente occupare uno spazio, ma “prendersi cura del mondo” (Bauen Wohnen Denken, 1951). Quando costruiamo senza pensare al significato dell’abitare, smettiamo di prenderci cura di noi stessi.

Oggi, l’omologazione estetica delle città sembra riflettere una più ampia crisi simbolica dell’Occidente: la difficoltà di credere ancora nella bellezza come valore condiviso, come linguaggio comune tra individuo e collettività. Dove tutto è ridotto a funzionalità, la bellezza appare superflua, e con essa svanisce la fiducia nell’umano.

Ritrovare la bellezza, allora, non è un esercizio nostalgico. È un atto di resistenza culturale. Significa restituire all’architettura la sua dimensione poetica e al vivere urbano il suo significato esistenziale. Perché una civiltà che rinuncia alla bellezza smette di credere in sé stessa — e, più profondamente, smette di immaginare il proprio futuro.

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Bibliografia essenziale

Bachelard, G. (1957). La poétique de l’espace. Paris: Presses Universitaires de France.

Heidegger, M. (1951). Bauen, Wohnen, Denken (Costruire, abitare, pensare). In Vorträge und Aufsätze. Pfullingen: Neske.

Loos, A. (1908). Ornament und Verbrechen (Ornamento e delitto). Wien: Neue Freie Presse.

Le Corbusier (1923). Vers une architecture. Paris: G. Crès.

Norberg-Schulz, C. (1979). Genius Loci: Towards a Phenomenology of Architecture. New York: Rizzoli.

Pallasmaa, J. (2005). The Eyes of the Skin: Architecture and the Senses. Chichester: Wiley.

Scruton, R. (2009). Beauty: A Very Short Introduction. Oxford: Oxford University Press.

Sennett, R. (1990). The Conscience of the Eye: The Design and Social Life of Cities. New York: Knopf.

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Telefono

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