08/10/2025
IL NARCISISTA DIFRONTE ALL' INDIFFERENZA.
C’è un momento, in ogni rapporto con un narcisista, in cui tutto tace.
Non più parole, non più sguardi, non più messaggi.
È il momento in cui la vittima, stremata, consapevole, finalmente lucida, sceglie l’assenza.
E proprio lì, nel silenzio, accade qualcosa di tremendo: il castello interiore del narcisista comincia a incrinarsi.
Perché, come scriveva Heinz Kohut nel suo The Analysis of the Self ( 1971 ), il narcisista non possiede un Sé stabile: vive riflesso nello sguardo dell’altro.
È un essere che “si riconosce solo nello specchio della mente altrui”.
Togli lo specchio (cioè l’attenzione, l’ammirazione, anche la rabbia) e l’immagine svanisce.
L’indifferenza non è solo mancanza di reazione: è la dissoluzione dell’ “IO” fittizio che il narcisista ha costruito per esistere.
Otto Kernberg, psicoanalista della scuola oggettuale, sosteneva che dietro la grandiosità narcisistica si cela una struttura profondamente frammentata: un nucleo di rabbia e vergogna, un vuoto intollerabile che viene coperto da comportamenti di dominio, seduzione o superiorità.
Il narcisista non ama, usa.
Non comunica, sfrutta.
Ogni gesto di gentilezza è una moneta di scambio per mantenere il controllo.
Ma quando la persona di cui si nutriva (la fonte primaria del suo “carburante narcisistico”) smette di reagire, quella sicurezza crolla. Subentrano la collera, il disprezzo, la disperazione.
L’indifferenza è la crepa che espone la verità: dietro l’arroganza, non c’è forza, ma fragilità; non un re, ma un bambino spaventato che ha imparato a mascherare la paura con la superiorità.
Elsa Ronningstam, nella sua ricerca sul narcisismo patologico (Harvard Medical School, 2016), parla di un “sistema di regolazione del Sé basato sulla conferma esterna”.
Il narcisista non può tollerare l’idea di non essere visto.
Anche l’odio, purché lo si nomini, lo fa sentire vivo.
L’indifferenza invece lo uccide lentamente, perché lo lascia senza palco, senza pubblico, senza eco.
È per questo che, dopo il tuo silenzio, spesso tenta di riapparire.
Prima con lusinghe, poi con provocazioni, infine con accuse.
È il meccanismo descritto da Kohut e Ronningstam come selfobject transference: la ricerca disperata di una figura che “ rispecchi” e sostenga il Sé.
Ma tu non rispondi più.
E così, ogni parola non detta diventa un colpo assestato al suo impero di illusioni.
Nel vuoto del tuo silenzio, il narcisista si trova davanti a ciò che ha sempre fuggito: se stesso. Un sé che non conosce, che teme, che non sa abitare.
E allora scappa, verso nuove vittime, nuovi specchi, nuovi riflessi.
Perché, come ricordava Christopher Lasch in La cultura del narcisismo (1979), il narcisista è figlio di un mondo che non sa più guardarsi dentro un mondo che preferisce l’immagine alla sostanza, l’eco alla voce, l’ammirazione all’intimità.
Ma per chi si è liberato dal suo gioco, quel silenzio diventa rinascita.
Non è più un muro, è un confine.
È la ricostruzione di un Sé autentico, finalmente indipendente.
In quella quiete ritrovata si sente qualcosa di nuovo: non la vendetta, ma la pace.
La pace che nasce quando non devi più essere lo specchio di nessuno.