27/02/2019
Il LETTO di PROCUSTE e la PSICOTERAPIA
Cari amici, è da tempo che non scrivo sulla mia pagina. Vorrei riprendere il filo raccontandovi questa storia, che vi aiuterà a comprendere il modo in cui lavoro e quali sono i miei valori di base.
Buona lettura!
Procuste è il soprannome di un brigante greco di nome Damaste,
abitante del Monte Coridallo, lungo la via sacra che unisce Eleusi e Atene.
Procuste offriva ospitalità ai viandanti, in particolare concedeva una cena generosa seguita da un riposo su un letto che egli desiderava perfettamente conforme all’altezza e alla struttura dell’ospite.
Durante la notte, quando i malcapitati dormivano, ne approfittava per imbavagliarli e legarli.
Se la vittima era più alta e piedi, mani e testa le sporgevano dal letto, procedeva a tagliarli.
Se la persona era più bassa, la stirava, rompendole le ossa per far quadrare le misure.
"Ok...ma cosa ha a che fare questa storia con la psicoterapia?"
Faccio riferimento agli insegnamenti di un sapiente maestro dell'Analisi Transazionale, Pio Scilligo (1928-2009).
Raccontava sempre ai giovani psicologi e psicoterapeuti in formazione la storia di Procuste come monito per non cadere nella trappola di lavorare in modo automatico, dogmatico, eccessivamente schematico con i pazienti. Il messaggio che le parole di Scilligo mi hanno trasmesso era quello di diventare molto competenti, imparare teorie, tecniche, integrare i vari approcci diventandone padroni e al tempo stesso ci invitava a rimanerne liberi, quasi incontaminati, lasciandoci occhi, cuore e mente aperti ad accogliere senza preconcetti quanto l'altro ci sta comunicando.
Il rischio in cui noi terapeuti incorriamo, se rimaniamo sempre troppo aderenti alle teorie studiate, è quello di voler vedere ciò che conosciamo, interpretando i comportamenti del paziente incasellandoli nei nostri schemi precostituiti, cioè "mettendo le persone sul Letto di Procuste". La conseguenza deleteria di questo atteggiamento, se non verifichiamo con lui le nostre ipotesi, è che il paziente può non sentirsi rispecchiato, compreso empaticamente e rispettato nel suo essere unico e speciale, percependosi quindi tagliato o stiracchiato fino a rompersi le ossa.
Porto con me questa metafora nella pratica clinica con le persone, cercando un continuo, difficile equilibrio tra il tenere a mente le competenze teorico/pratiche, necessarie per svolgere questo lavoro in modo professionale ed etico, e il rimanere un "po' me stessa" nella relazione terapeutica, accogliendo con umanità, spontaneità e genuinità ciò che l'altro mi sta donando, spesso con notevole sofferenza. L'obiettivo è quello di favorire un'atmosfera di fiducia e collaborazione, indispensabili nel processo terapeutico.