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19/02/2019

Monreale anni ’60, Ristorante “La Botte”. Il banchetto organizzato per il principe Paolo di Castelcicala volge al termine.
È l’ora del dessert.
I fratelli e Maestri Chef Salvatore e Francesco Paolo Cascino presentano per la prima volta “Alì Pascià” il semifreddo alle mandorle con cioccolata calda che dà lì in poi diverrà il fine pasto per eccellenza nei banchetti e nei festeggiamenti più importanti.

Il nome (riferito al noto personaggio storico) prende spunto dall’originale decorazione che accompagna il semifreddo alla sua presentazione: un turbante da sultano realizzato con il croccante di mandorle di Avola caramellate.

Genericamente conosciuto come parfait alle mandorle con cioccolata calda, l’Alì Pascià è probabilmente tra i dolci più copiati e diffusi della storia della cucina … da Liverpool a Ragusa, da Lione a Mosca, fino a Dallas e Tokyo, passando per le navi da crociera…in un viaggio costante… questo dolce ha deliziato negli anni un’infinità di palati. La sua solo apparente semplicità, spiega bene come mai tutti gli altri sono diversi dall'originale.

I semifreddi facevano già parte della cucina classica e furono gli Chef Cascino a portarli in Sicilia e probabilmente nel meridione.
Il primo gusto che realizzarono negli anni ‘40, personalizzando la ricetta, fu di caffè (al ristorante Extrabar Olympia di piazza Politeama a Palermo).
Per la preparazione dell’Ali Pascià si variarono alcuni procedimenti ed ingredienti e si aggiunse un tocco di sicilianità con le mandorle di Avola caramellate, versando poi sul semifreddo dell’ottima cioccolata calda.

I Maestri Salvatore e F.sco Paolo Cascino (scomparso nel 1989) unico Chef di cucina contemporaneo a cui siano stati intitolati un Club di Chef, una via e un Istituto Professionale Alberghiero di Stato (Palermo) oltre ad un concorso gastronomico a livello europeo, hanno forgiato intere generazioni di giovani indirizzandoli, con passione, verso l’Arte Culinaria.

11/02/2019

Si Narra che in questo lembo della Sicilia orientale vivesse una splendida ninfa chiamata Galatea, figlia di Nettuno.

La giovane era innamorata del pastorello Aci, con cui soleva amoreggiare lungo una spiaggia della costa.

Ogni giorno, al tramonto, i due si separavano, con la promessa di ritrovarsi all’indomani.
Un giorno, il ciclope Polifemo, innamorato di Galatea, vide i due innamorati che si intrattenevano sulla riva del mare.

Accecato dalla rabbia prese un masso gigantesco e lo lanciò contro Aci, uccidendolo. Il masso continuò la sua corsa e finì in mare, dando origine all’attuale isola di Lachea.
Distrutta dal dolore, Galatea pianse tutte le lacrime del mondo, al punto che gli Dei ebbero pietà di lei. Trasformarono Aci in un fiume, e la ninfa in schiuma del mare, cosicchè i due innamorati potessero abbracciarsi per l’eternità.

Il fiume Aci sgorga dall'Etna e scorre in gran parte sotterraneo, gettandosi in mare proprio in quel tratto di costa in cui s’incontravano i due innamorati. Qui, a testimonianza di quel tragico amore, c’è una sorgente d’acqua dolce dal caratteristico colore rossastro che i siciliani chiamano “u sangu di Jaci”, il sangue di Aci.

29/01/2019

In Sicilia i carciofi furono introdotti dai greci che li chiamarono cynara.

Al loro arrivo gli arabi trovarono innumerevoli piantaggioni di carciofi selvatici. Gli diedero il nome di karasciuff.

Noi siciliani li chiamiamo “cacoccioli” (a Palermo “cacuocciuli”). I francesi erano ghiotti di carciofi , a Palermo ne trovarono tanti soprattutto in alcuni terreni vicini alla città. Chiamarono quel luogo Les Chardon, dove oggi si trova il carcere dell’Ucciardone.

Una leggenda greca racconta che Zeus un giorno si innamorò della ninfa Cynara.

Volto luminoso, pelle rosata e occhi verdi dalle rarissime sfumature viola. Un corpo snello e proporzionato ed un portamento elegante e flessuoso. I suoi lunghi capelli erano color cenere e proprio per questo le era stato dato il nome di Cynara (che significava, appunto, cenere). Pur avendo un animo buono e un cuore gentile Cynara era una fanciulla orgogliosa e volubile. Così quando Zeus cominciò a farle la corte, lei lo rifiutò.
Inaccettabile che una ninfa rifiutasse il corteggiamento del re degli dei che, in un moto d'ira, decise di trasformarla in un vegetale che in qualche modo le somigliasse.

Avrebbe dovuto essere verde, spinoso e rigido all'esterno, come era stato il carattere orgoglioso e volubile di Cynara, ma dentro doveva custodire un cuore tenero e dolce, come l'animo della ragazza, e doveva avere un color viola, come i suoi occhi.

Nacque così il ca****fo.

28/01/2019

Castello di Pietrarossa Qalat-An-Nissa (Caltanissetta) anno 900 d.C.

I guerrieri arabi riposano nelle sale del castello dopo l’ennesima battaglia. Il banchetto è fastoso, accompagnato da canti e balli di bellissime donne.

Alcuni di loro chiedono alle concubine dell’emiro di preparare qualcosa di speciale, un piccolo pezzo di paradiso da poter custodire nel bagaglio, una porzione di sogno da portare con sé per rivivere, in qualunque luogo e in qualunque tempo, la magia dell’incanto delle notti a Pietrarossa.

La sfida è difficile, quasi impossibile.

Le donne prendono i frutti della straordinaria Sicilia: mandorle, pistacchi e il miele più dolce e puro. Sul fuoco lento, in un paiolo di rame, cominciano a mescolare tutto.
La sera, al termine del banchetto, portano in tavola un dolce che nessuno aveva mai visto prima: croccante e friabile, gustoso e duraturo, morbido e compatto, leggero e ricco.
È nata la Cubaita.

I guerrieri se ne riempino le bisacce e, andati via dal castello di Pietrarossa, lo fanno conoscere al mondo.

Così Andrea Camilleri sulla cubaita:

La cubaita è semplice e forte, un dolce da guerrieri, lo devi lasciare ad ammorbidirsi un pochino tra lingua e palato, devi quasi persuaderlo con amorevolezza ad essere mangiato.

Ti obbliga a una sua particolare concezione del tempo, ha bisogno di tempi lunghi del viaggio per mare o per treno, non si concilia con l’aereo, con la fretta.
Ti invita alla meditazione ruminante.

Rende più dolce e sopportabile l’introspezione che non sempre è un esercizio piacevole.
Alla dolcezza del miele mischia l’”amarostico” delle mandorle tostate e il ricordo del verde attraverso il pistacchio. Diventa così una sorta di filosofia.

12/01/2019

Il destino di Lorenzo, unico figlio maschio dopo tre femmine, era quello di pascolare le pecore dell’azienda del padre. Ma lui non amava fare il pastore.
Mentre le sue pecore pascolavano, cominciò a manipolare la creta raccolta dalla terra umida, a scoprire la friabilità della pietra calcarea, ad imparare a lavorare il legno.
La sua prima personale, nella Biblioteca comunale del paese, fu un grande successo. Lorenzo diventò uno scultore di talento e anche il padre accettò la scelta del figlio di abbandonare la pastorizia.

Ma, sul punto di morte, il padre chiese a Lorenzo di non far morire insieme a lui il lavoro di una vita, di non abbandonare quello che lui aveva creato: Lorenzo accettò.
Così, Lorenzo Reina nasce pastore, diventa scultore, torna pastore, diventa pastore scultore.

Passando da Santo Stefano Quisquina e imboccando il bivio per Castronovo di Sicilia è possibile raggiungere l’azienda Rocca Reina. Qui Lorenzo alleva asini da latte, si dedica alla coltura biologica e mostra ai ragazzi delle scuole come si fa il pane o la ricotta alla vecchia maniera. Oppure come si fa una scultura. Come si crea arte.
In cima ad un’altura, a picco sullo strapiombo, circondato da un muro di pietra viva che sembra abbracciarlo si trova il Teatro Andromeda: un meraviglioso teatro greco opera di Lorenzo.
Per accedere al teatro si apre una porta, il cui meccanismo determina la rotazione della stessa intorno al suo asse: un richiamo al moto della terra, all’alternarsi del giorno e della notte. Quando la porta è chiusa da un lato batte il sole, dall’altro c’è l’ombra.
Una volta entrati, la sensazione è di essere immersi nel paesaggio nella sua immediatezza.
Apparentemente distribuiti in modo disordinato, i 108 posti a sedere, in realtà ricalcano i diversi punti della costellazione di Andromeda cui la nostra galassia potrebbe giungere tra circa miliardi di anni: verità scientifica così lontana che solo in questo luogo magico potrebbe compiersi.
La scena è di forma ellittica ed è formata da 365 tasselli, tanti quanti sono i giorni dell’anno.

03/01/2019

Cnosso (Creta), un po’ di tempo fa … Quando Minosse scoprì che Teseo era riuscito nell’impresa di uccidere il Minotauro e di uscire dal labirinto grazie all'aiuto di Dedalo, imprigionò quest’ultimo e suo figlio Icaro all’interno dello stesso labirinto.
"Possono precludermi il mare e la terra, disse Dedalo, ma il cielo è certamente libero: costruirò due paia di ali per fuggire”
“… dispose secondo un dato ordine delle penne, con del filo fermò le parti di mezzo, fissò con la cera le estremità inferiori e le piegò incurvandole lievemente così da imitare i veri uccelli.
Al decollo Dedalo ordinò al figlio: "Tieni la via di mezzo, perché se andrai basso l'onda appesantirà le penne, se troppo in alto, il sole le brucerà ... prendi la strada che io ti mostrerò".
Sorpresa meravigliosa! Il vento lo sosteneva, lo sospingeva veloce: poteva giocarci e farsi trasportare senza fatica. Icaro si sentiva di minuto in minuto più sicuro di sé da poter volare fino a … Non c’era nessun limite… “Ecco perché di tanto in tanto gli uccelli gettano un grido: perché sono felici di volare!”
Dedalo gridò: Attento, figlio! Il vento ci sta portando troppo in alto. È pericoloso!
Se il vento mi porta più in alto, pensò Icaro, vedrò più lontano, vedrò quanto è grande questo mare e… vedrò meglio il sole! Restò dunque nel vento che lo portava veloce verso l’alto. Ma d’un tratto tutto cambiò “… La vicinanza del sole ardente ammorbidì la cera che teneva unite le penne. Icaro agitò le braccia rimaste n**e, e non avendo con che remigare non si sostenne più in aria. Invocando il padre precipitò a capofitto e il suo urlo si spense nelle acque azzurre …”
Dedalo accortosi che il figlio non lo seguiva, ritornò indietro: "Icaro Icaro, dove sei?". Quando vide le penne sparse sulle onde maledisse la sua arte.
Recuperato il corpo, lo seppellì in un'isola vicina che chiamò Icaria in suo onore. Poi riprese a volare fino a Camico in Sicilia, ospite del re Cocalo, e da lì a Cuma dove costruì uno splendido tempio in onore del dio Apollo e ai piedi del quale depose le ali. (Ovidio, Metamorfosi)

21/12/2018

Palermo Porta Sant’Agata all’Albergheria, notte del 10 novembre del 1160. (Rivolta dei Baroni). Matteo Bonello, nobile normanno e signore di Caccamo, con un manipolo di uomini al seguito tende un agguato mortale a Maione da Bari, Primo Ministro di Guglielmo I (detto il Malo). Poco tempo dopo alcuni congiurati penetrano improvvisamente nelle camere del sovrano al Palazzo Reale.
Guglielmo, atterrito, tenta invano di scappare. Trattenuto si dichiara pronto ad abdicare a favore del figlio Ruggero.

Chiuso il sovrano nelle sue stanze, i congiurati portano il piccolo Ruggero in groppa ad un cavallo per le vie della città.
Il popolo, spaventato della sommossa, si schiera con il Re liberandolo e riportandolo al potere. Matteo Bonello e i suoi seguaci sono costretti a rifugiarsi nel castello di Caccamo.

La vendetta di Guglielmo I non si fa attendere. Il Re invia un esercito contro i ribelli asserragliati a Caccamo. Ma il castello risulta inespugnabile.
Quello che non riuscì a fare con la forza, il re ottenne con l’inganno: fece credere al Bonello di averlo perdonato e durante una giornata a corte lo fece arrestare. Rinchiuso a palazzo, fu torturato sino alla morte.
Da allora il fantasma di Matteo Bonello si aggira inquieto per il castello in cerca di pace eterna! Chi lo avrebbe visto descrive un essere vestito con abiti d’epoca, pantaloni e giacca di cuoio, che si muove trascinandosi lentamente col volto sfigurato, barbottando i nomi di coloro i quali lo tradirono e torturarono.

L’odio e il desiderio di vendetta gli impediscono di raggiungere la pace eterna e quindi continua a vagare inquieto nel maniero.

Caccamo è un antico Borgo Medievale, a circa 45 Km da Palermo, dove cultura, storia, arte, artigianato, tradizioni e gastronomia fanno di questa cittadina uno scrigno di preziosità.

19/12/2018

La bellissima ninfa Scilla (figlia di Fosco e Craetis), amava passeggiare lungo le spiagge di Zancle (Messina) e fare il bagno nelle limpide acque del mar Tirreno.

Una sera, incontrò il dio marino Glauco, ex pescatore per metà pesce, che si innamorò perdutamente di lei.
Ma la bellezza di Scilla era pari alla sua vanità, tanto da non concedersi a nessuno dei suoi corteggiatori. Glauco disperato per il rifiuto, ricorse in aiuto alla maga Circe, a sua volta interessata alle attenzioni di Glauco.

La maga, offesa e indispettita, architetta una contromossa per danneggiare la sua rivale: invece di una pozione d’amore, ne fa un’altra che versa nello specchio d’acqua dove la ninfa si getta abitualmente.
Non appena l’ignara Scilla si immerge vede trasformarsi il suo corpo in un orrendo mostro: un essere con 12 potenti zampe e 6 teste di orribili cani, dotate di immense fauci e tre file di denti aguzzi. “Scilla ivi alberga, che moleste grida / Di mandar non ristà. La costei voce / Altro non par che un guaiolar perenne / Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce / Mostro, e sino a un dio, che a lei si fesse, / Non mirerebbe in lei senza ribrezzo, / Dodici ha piedi, anteriori tutti, / Sei lunghissimi colli e su ciascuno / Spaventosa una testa, e nelle bocche / Di spessi denti un triplicato giro, / E la morte più amara di ogni dente.” (Odissea, XII)

Per la vergogna, la ninfa ormai mostro, decise di nascondersi in un antro dove la costa calabra si protende verso la Sicilia. Da lì scaricava tutto il suo rancore nei confronti dei naviganti che imprudentemente le passavano vicino.
Solo Ulisse scampò alla sua ira, facendosi legare dai suoi compagni all’albero della nave con tappi di cera alle orecchie per non sentire il fatidico canto delle sirene che lo avrebbero portato dritto nelle fauci del mostro. Foto: (Massimo Collini)

17/12/2018

Anapia e Afinomo stavano lavorando nel loro campo ai piedi dell'Etna quando ... Un nuvolone di fumo densissimo oscurò il cielo. Il sole divenne sanguigno e un boato fece sussultare le pendici screpolate dell’Etna.
Contadini e pastori si precipitavano giù a valle trascinando con sé le poche e misere masserizie e spingendosi innanzi i bovi mugghianti, le pecore impazzite e i cani che ululavano, in un inferno di ceneri infuocate, di scosse paurose e di bagliori cupi e accecanti.

Anfinomo a Anapia, invece, con l’ansia nel petto in tumulto, sfuggivano come due nibbi alle mani che cercavano di agguantarli, e salivano, salivano disperatamente incontro alla morte e contro la natura spietata.
Tornate, tornate indietro! Disgraziati… la montagna sta divampando! La sciara è entrata come serpente nelle nostre case! È il giudizio di Dio, è la morte…
Raggiunta la loro capanna videro i loro vecchi genitori accostati ad un angolo, abbracciati e rassegnati a morire.

Padre, madre! Che non sentite? Siamo qui, i vostri figli, Anfinomo, Anapia…
Il torrente di lava stava già per investire la capanna. I fratelli pii si caricarono sulle spalle i loro genitori, e giù, anch’essi verso la valle lontana.

Ebbe inizio una gara tremenda tra l’impeto della natura e la fragile forza degli uomini. Vinse la natura e il torrente raggiunse i fratelli.

In quell'istante il “fiume rosso” si divise in due, lasciando così immuni i fratelli e i rispettivi genitori, per poi ricongiungersi.
Il fenomeno stupì i catanesi che soprannominarono i giovani “fratelli pii”, ed il luogo che essi avevano attraversato “Campi pii”. Questa leggenda è forgiata nel bronzo di uno dei quattro candelabri della centralissima piazza Università a Catania.

Foto: Salvo Orlando; testi tratti da: I Diavoli del Gebel, leggendario dell’Etna (Santo Calì)

10/12/2018

Un giorno una donna p***e suo figlio tra la folla della Vucciria (noto mercato popolare di Palermo). Lo ritrovò che giocava accanto al banco di frutta di un arabo. Aveva in mano una petrociana, e altre due giacevano a terra. La madre riprese il figlio e si girò per andarsene. L’arabo le strinse un braccio, lei si voltò preoccupata. “Paga”. La donna trovò a fatica qualche spicciolo, prese il bambino, le petrociane e se ne tornò a casa.

Non avendo idea di come prepararle si limitò a lavarle, tagliarle a fette e a metterle a bagno in acqua salata.

Si sedette sullo sgabello, davanti alla finestra. Una luce debole traspariva dalle parmiciane. Le parmiciane in Sicilia erano quei listelli di legno intrecciati che componevano le persiane. La donna le guardò e notò che assomigliavano alle fette di petrociane che aveva appena tagliato.
Saltò dallo sgabello in pieno estro creativo. Tagliò a fette un vecchio caciocavallo, spezzò un ciuffo di basilico, fece soffriggere la cipolla con un po’ d’olio, unì la passata di pomodoro e mise a cuocere a fuoco lento.
Nel frattempo asciugò le petrociane e si mise a friggerle aggiungendo un pizzico di sale.
Ricoprì il fondo di una teglia con uno strato di petrociane, condite col pecorino, poi cinque cucchiai di salsa, un po’ di basilico, qualche listarella di formaggio. Un altro strato di petrociane e così proseguì fino a terminare con formaggio, salsa e pecorino. Mise in forno per quarantacinque minuti.
Il bambino attendeva pazientemente il suo pasto e appena sfornate prese una fetta ed assaggiò. “Mamma, è la cosa più buona che abbia mai mangiato. Come si chiama?”. La madre guardò i listelli di legno delle persiane, poi esclamò: «Si chiama parmiciana di petrociane». Col tempo le petrociane presero il nome di melanzane, dall’arabo Al-badingian, cui si aggiunse il prefisso “mela”, frutto per eccellenza. La parmigiana di melanzane arrivò così a imbandire la tavola di ogni famiglia.

05/12/2018

Tra le regine incontrastate della tradizione dolciaria siciliana la “sfincia” ha un’origine antichissima tanto da comparire nella Bibbia e nel Corano. Pare sia l’evoluzione di pani o dolci arabi o persiani fritti nell’olio.
Durante le feste in onore di Demetra (divinità greca delle messi), di Cerere (la corrispondente divinità romana) e di Liber Pater, dio romano della famiglia e della fecondità dell’uomo e della terra venivano offerti alla comunità pani e dolci fritti.
L’origine del nome, spongia in latino o isfang in arabo, è dato dalla sua particolare forma: si presenta come una frittella morbida e dalla forma irregolare, proprio come una vera e propria spugna.
Il termine sfingiari (venditori di sfingi) spunta su un testo scritto per la prima volta nel 1330.

La trasformazione dell’antico dolce arabo nella sfincia fritta si deve alle Suore clarisse del Monastero delle Stimmate di San Francesco (Palermo) che dedicarono il dolce a San Giuseppe, il Santo degli Umili.

Ciascun monastero aveva un piatto, un manicaretto, ch’era come il suo distintivo … Tutti i pasticcieri della città gareggiavano nel comporre ghiottonerie d’ogni maniera, ma chi poteva mai raggiungere la squisitezza dei frutti di pasta dolce di mandorle del Monastero della Martorana, del riso dolce del monastero di S.Salvatore ? … Molti menvan vanto del loro pan di spagna, ma in confronto a quello del monastero della Pietà, qualunque dolciere doveva andarsi a nascondere, o le cosiddette sfincie fradici, composte da uova e panna, del monastero delle Stimmate … (“La vita in Palermo cento e più anni fa” di G. Pitrè)

Quel Monastero ormai non esiste più, essendo stato demolito nel 1875 per fare spazio al Teatro Massimo.
Furono i pasticceri palermitani, ereditari delle ricette delle suore, ad arricchire la frittella con gli ingredienti accessori: la ricotta, le gocce di cioccolato, la granella di pistacchi e frutta candita…. La tradizione vuole che le sfince venissero preparate dalla suocera per la nuora per addolcire i difficili rapporti. @ Palermo, Italy

Indirizzo

Via G. M. Puglia, 2
Palermo
90134

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