03/10/2025
🔴🔴 La vicenda della Sumud Flotilla fermata da Israele in acque internazionali è un gesto che svela, ancora una volta, il modo in cui il potere si arroga il diritto di cancellare il diritto. Delle barche che portano aiuti diventano “minaccia”, un convoglio civile che porta aiuti umanitari viene trattato come un bersaglio da neutralizzare. E tutto questo non accade in un vuoto giuridico: accade mentre la Corte Internazionale di Giustizia parla esplicitamente di rischio genocidio, mentre organizzazioni come Amnesty e Human Rights Watch documentano distruzioni sistematiche e assedio deliberato.
Ciò che accade a Gaza non è una “crisi umanitaria” o un “conflitto complicato”: è un genocidio, compiuto da Israele sotto gli occhi del mondo, con la fame usata come arma, i civili trasformati in bersagli, un intero popolo condannato alla cancellazione.
È qui che si consuma il dramma più grave: le istituzioni scelgono di non vedere. Non si tratta di ignoranza, ma di rimozione consapevole. Non nominano il crimine perché sanno che dovrebbero guardarsi allo specchio, chiedersi perché, di fronte a bambini che muoiono di fame o sotto le bombe, il proprio Paese continua a intrattenere rapporti militari ed economici con chi li assedia. L’Italia è emblematica in questa ipocrisia: proclama la necessità di aiuti umanitari, ma permette la prosecuzione dei contratti di armamenti con Israele; dichiara “equilibrio” diplomatico, ma riduce al silenzio la vicenda della Flottilla; rivendica l’ordine pubblico contro chi manifesta, mentre resta cieca davanti al crimine più grave che un popolo possa subire: l’annientamento deliberato.
La società civile italiana, invece, ha deciso di vedere. Lo dimostrano le manifestazioni, i blocchi dei porti, la richiesta di embargo sulle armi. E lo dimostra con forza lo sciopero generale di oggi: un atto che spezza la routine quotidiana e afferma che non possiamo accettare l’indifferenza istituzionale. Fermarsi oggi significa rifiutare il cinismo, rompere la complicità, restituire alla politica quella coscienza morale che le istituzioni hanno tradito. È un atto di resistenza e di solidarietà che ribalta il silenzio: se i governi non vogliono vedere, tocca ai cittadini ricordare loro che la verità non può essere oscurata.
Israele sembra intrappolato in una dinamica che Freud avrebbe chiamato “coazione a ripetere”: il trauma di un popolo perseguitato, anziché trasformarsi in memoria capace di generare empatia, viene convertito in arma di dominio. La vittima di ieri si identifica con l’aggressore e finisce per esercitare sugli altri la stessa logica di annientamento da cui è stata ferita. È un paradosso tragico, ma reale: la ferita non elaborata diventa motore di violenza.
E il resto del mondo? Dissociato. Una parte proclama i diritti umani, l’altra tollera la loro violazione. È la schizofrenia dell’Occidente: difendere l’ordine internazionale quando conviene, sospenderlo quando mette in discussione gli alleati strategici. Questo doppio linguaggio penetra anche dentro di noi, ci abitua al cinismo, ci fa accettare che la vita di alcuni valga meno di quella di altri. È qui la vera sconfitta: nell’anestesia morale che ci fa percepire il genocidio come un “effetto collaterale”, la fame come un “strumento bellico”, l’annientamento di un popolo come un “danno collaterale”.
La Flottilla fermata non è solo la fine di un viaggio: è il simbolo di un’umanità bloccata. Bloccata dalla paura di nominare il crimine per quello che è, bloccata dall’ipocrisia dei governi che predicano pace ma commerciano armi, bloccata dall’incapacità di riconoscere nell’altro la propria stessa fragilità. E mentre si fermano le navi, si ferma anche la possibilità di credere che il diritto internazionale non sia soltanto carta straccia.
In fondo, la domanda che ci resta è semplice e bruciante: quanto ancora possiamo negare di vedere, prima che il silenzio diventi la nostra vera condanna?
AF