26/09/2025
🕊️🔵 La pace non è una condizione statica né un’etichetta che si può appiccicare su eventi, governi, o confini: è una dinamica fragile, fatta di scelte consapevoli, di responsabilità morali, di coraggio. Spesso la pensiamo come un faro distante, luminoso ma quasi intangibile: la desideriamo, la invochiamo, la speriamo, ma fatichiamo a comprenderne il prezzo, la forma, la vita interiore che richiede.
Nel momento in cui uno Stato (e con esso una collettività) osserva ingiustizie, violenze, sofferenze e decide di “non esporsi”, cade in una trappola psicologica deleteria: quella del silenzio. Il silenzio può sembrare difensivo, prudente, diplomatico. Ma all’interno del tessuto etico, restare fermi equivale, pur senza sparare un colpo, a dare il proprio consenso tacito. Significa chiudere le porte all’empatia, irrigidire il cuore pubblico, evitare il conflitto per mantenere un equilibrio apparente che però è costruito sulla negazione della sofferenza altrui.
La questione di Gaza, oggi, pone una sfida profonda: quanto siamo disposti a permettere che il timore del dissenso, della divisione interna, del prezzo diplomatico, prevalga sulla necessità di farsi carico della coscienza collettiva? Il governo italiano ha responsabilità che vanno ben oltre la mera diplomazia formale: ha la responsabilità del riconoscimento del dolore, dell’umanità. Quando ignora, minimizza, si astiene, non solo evita il conflitto pubblico, ma coltiva dentro di sé una forma di anestesia morale.
Viene naturale chiedersi: cosa impedisce di parlare? Paura delle conseguenze, del giudizio internazionale, della perdita di consenso interno. Ma anche una forma di identificazione con il potere: “Se io governo, meglio non esporsi troppo, non prendere posizioni nette, per non inimicarsi”. È la paura del danno personale e politico che prevale sulla voce dell’etica comune. Eppure, la pace reale, quella che si può costruire, ha bisogno che si rompa il silenzio: che si nomino le ingiustizie, che si guardi la realtà negli occhi, che la compassione diventi politica.
Esporsi non significa solo fare dichiarazioni: significa alimentare nel tessuto sociale l’idea che la pace non è complicità con il meno peggio, ma lotta attiva contro il male che si può riconoscere. Significa che il dibattito, la manifestazione, la critica non sono segni di debolezza, ma di salute democratica. Significa dare dignità alla ferita che l’altro porta, non chiuderla sotto il tappeto del quieto vivere.
Restare in silenzio oggi vuol dire colludere; è una forma di tradimento verso la propria umanità, verso quella degli altri. Perché la pace non è semplicemente assenza di guerra, è presenza di verità, presenza di cura, presenza di azione. E se è vero che ogni parola può essere insufficiente, è altrettanto vero che il loro non-detto è veleno che avvelena le relazioni fra cittadini, fra istituzioni, fra coscienze. Solo chi parla può sperare di cambiare; e cambiare, a volte, è l’atto più pacifico che esista.
𝐋𝐚 𝐩𝐚𝐜𝐞 𝐜𝐫𝐞𝐬𝐜𝐞 𝐝𝐨𝐯𝐞 𝐢𝐥 𝐜𝐮𝐨𝐫𝐞 𝐨𝐬𝐚 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐧𝐨𝐬𝐜𝐞𝐫𝐞 𝐥’𝐚𝐥𝐭𝐫𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐞́.
AF