14/11/2025
UN MAGNIFICO FALLIMENTO, UN ORRIDO SUCCESSO.
Accostarsi alle tragedie umane è sempre un atto temerario, che ci pone "alla berlina" nei confronti del "pensiero comune". Pur consapevole di questa triste "regola del vivere" (e della comunicazione) non posso tacere le mie considerazioni circa questo fatto straziante. Lo strazio, per me, risiede nel senso di "liberazione" che alcuni avranno provato immedesimandosi nella ragazza uccisa, o nel pensare a coloro, fra i parenti, che le erano "vicini", oppure, come ho letto in un post, in chi rievoca le proprie ferite aperte e inguaribili, fatte di tradimenti, abbandoni, ingiustizie, menzogne subite e quant'altro. Lo strazio ha a che vedere col massacro di "un'anima" che, in questo caso, si palesa solo con la morte indotta. L'unica violenza sul corpo registrabile è quella vicenda orribile. Non che le violenze fisiche siano sempre riconosciute o addirittura denunciate, per ca**tà! Ma in questo caso pare quasi paradossale che l'unica violenza fisica manifesta sia stato il "pietoso e umano atto medico" che ha tolto la vita a una ragazza.
E qui inizio a parlare al vuoto o quasi o, perlomeno, a quei pochi che riescono ancora a sintonizzarsi su "radio-anima".
A quei pochissimi rivelo quanto segue: la "depressione" non esiste, è solo un termine usato da psichiatri e psicologi per "diagnosticare" una (a volte terribile) tristezza. Ma la tragedia (della stupidità umana) vuole che la Verità non emerga, perchè questa semplice constatazione cambierebbe il senso delle nostre vite.
La cosiddetta "depressione" non è che una tristezza cui nessuno riesce, o vuole, dare "senso". Men che meno chi ne soffre. Se, ad esempio, perdo una persona cara è "normale" che sia triste, dato che vi è una causa evidente alla mia sofferenza. Un momento, però! Solo se la mia tristezza dura il "giusto". E cosa o chi definisce questo "giusto" periodo di tempo in cui posso essere infelice senza essere "ammalato"?
È presto detto: c'è lo dice il DSM, la bibbia statunitense che decide chi è normale e chi no (ma tu guarda che.. coincidenze!). Nel caso specifico fino a pochi anni fa eri ancora "normale" se avendo perso, putacaso, una figlia, per un intero anno fossi rimasto sprofondato nel dolore, nell'infelicità, nella tristezza (se si vuole: nella depressione) più orribile. Beh, no! Il tempo passa e ci evolviamo! Vuoi stare a perdere un intero anno per una cosa così?! Cioè, questa cosa della depressione magari ti fa stare a casa dal lavoro per dei mesi e fino a un anno? Ma manco fossi una donna gravida! Quelle lì che bisogna pagarle anche se non lavorano solo perché fanno figli! E adesso anche tu!? Che magari sei anche uomo e hai un buon lavoro! Il capufficio è già lì che si nutre di tavor da anni, cosa aspetti a tornare al lavoro belle che impasticcato!
Così, ora, nel DSM più recente il periodo "sano" di sofferenza depressiva da lutto è stato dimezzato a 6 mesi. Dopo ti prendi gli psicofarmaci e torni a produrre senza rompere i co****ni.
Si, perché, per utilizzare questo prezioso sofisma, il punto è che non devi rompere i co****ni.
Ci fanno credere che esista un primato della biochimica per cui "certe problematiche.. eeeh (sospiro finto-affranto e sguardo rivolto al cielo) non possono che essere "genetiche", "neurofisiologiche, biochimiche.. Quindi: diagnosticabili, curabili con farmaci, ma NON guaribili! Per ca**tà, che poi la farmacopea si arrabbia. Perché la "farmacopea" è uno dei mostri mitologici che dimorano attualmente nel mondo e vengono nutriti, esattamente come si faceva millenni fa, da schiere di vittime sacrificali.
Ma tornando alla ragazza "suicidata" dal sistema: sappiate, almeno voi tre (son sempre ottimista!) che avete letto questo testo, che vi sono molti responsabili in questa vicenda. Per quanto sia il tabù più taciuto anche dagli psicologi, sappiate che certamente esiste una responsabilità delle figure genitoriali, qualunque sia stato l'iter in terra di questa ragazza, e poi sono venuti gli insegnanti, i medici, i conoscenti e chiunque altro abbia partecipato alla orrida collusione tesa a negare, rimuovere, ignorare, le cause prime, i comportamenti abbandonici, gli atti e le mancanze che hanno prodotto in questa povera anima straziata, come unica possibilità, il desiderio di farla finita. Aggiungo solo che questa censura mostruosa, che ci impedisce di riconoscere le ferite subite, finisce per instaurarsi e risiedere stabilmente in noi stessi, chiudendo così, il cerchio della disperazione e uccidendo la speranza. Ma questo perché, paradossalmente, avendo bisogno di amore, le persone ferite cercano di adeguarsi a chi gli vive accanto e attorno e ignora il loro dolore, o meglio, lo elude come ha imparato a fare col proprio. Così, chi aveva disperatamente bisogno di amore, si è probabilmente sentita dire che c'era qualcosa di sbagliato in lei, di disfunzionale. Che certo non era colpa dei genitori o della santa società! E quel ch'è peggio è che la voce ormai veniva dalla sua testa, come ogni pensiero fabbricato dalla mente collettiva, e a quel punto cosa rimaneva da fare se non togliersi di mezzo? Così da alleviare il proprio incontenibile e incompreso dolore, col "benevolo" aiuto di un "medico-boia", tanto "sensibile" da prestarsi ad eliminare le sofferenze del mondo diminuendone, nel contempo, l'eccesso di abitanti.
Finché non avremo il coraggio di affrontare la verità che ci ha voluto vittime di soprusi fin da piccolissimi e non ci consentiremo di riconoscercelo, nonostante il tabù invalicabile che ci imprigiona, non riusciremo a dare un nome al nostro dolore. E dare un nome al proprio dolore è il primo passo per la consapevolezza, e la possibilità di trovare nuovi alleati nella vita, diversi da quelli che, per poter continuare a non "vedere" loro stessi, non sono in grado di percepire nemmeno la nostra anima.
Siska De Ruyssche, 26 anni, ha scelto l’eutanasia domenica scorsa in Belgio, dove è legale dal 2002, per porre fine a una depressione profonda e resistente alle cure. «Mi sento finalmente in pace, perché so che tutto finirà», aveva detto. Era circondata da familiari e amici. Aveva vissuto storie d’amore, era diventata zia e, pochi mesi fa, aveva viaggiato in Thailandia. Sui social appariva serena, ma anche «vestirsi o alzarsi dal letto era diventato impossibile». Raccontava la sua storia per mostrare quanto le malattie mentali siano devastanti. «Sono stata in isolamento, legata a un lettino» e aveva visto personale sanitario reagire con stanchezza. Denunciava un sistema dove «procedure e liste d’attesa possono diventare parte della sofferenza». Bullizzata fin da bambina, a 14 anni il primo tentativo di suicidio, poi molti altri. Nonostante momenti felici, la depressione non l’ha mai lasciata. Dopo molte terapie, chiedeva: «Quanto ancora avrei dovuto tentare?». Alla recente diagnosi di disturbo depressivo grave, disturbo dell’attaccamento e PTSD, disse che con l’autorizzazione all’eutanasia «i pezzi del puzzle andavano a posto».