28/10/2025
La cattiveria non nasce dal nulla.
Non è un accidente morale, ma un processo psichico.
È la risposta distorta a una ferita primaria:
l’impossibilità di tollerare il dolore della propria mancanza.
Quando un individuo sperimenta un vuoto affettivo che non riesce a elaborare,
la psiche può imboccare due vie:
la via del dolore o la via del dominio.
Chi sceglie la prima attraversa la mancanza e cresce;
chi sceglie la seconda la nega e costruisce un potere contro di essa.
La cattiveria è dunque la difesa estrema contro il dolore.
Nasce quando la sofferenza non viene sentita, ma convertita in controllo.
È la forma più raffinata di anestesia emotiva:
non sento il mio dolore, quindi faccio sentire il tuo.
L’atto cattivo è un tentativo di sopravvivere all’umiliazione,
distruggendo ciò che la ricorda.
In termini psicodinamici, il sadismo è la risposta regressiva all’impotenza.
Quando l’Io è fragile e non riesce a contenere l’angoscia,
trasforma la paura in piacere attraverso l’aggressione.
È un ribaltamento della passività in potenza.
Nel sadico, la distruzione dell’altro è vissuta come prova di esistenza:
“Io ci sono perché ti faccio male.”
Questo meccanismo si sviluppa spesso in infanzie dove l’amore è stato ambivalente:
presente e ferente, affettuoso e umiliante insieme.
Il bambino che ama chi lo ferisce impara che il dolore è parte dell’amore,
e nell’età adulta può ripetere questo copione da entrambi i lati —
come vittima o come carnefice.
L’invidia, invece, è la radice più antica della cattiveria.
È l’incapacità di tollerare che l’altro possieda ciò che io non ho.
Non è gelosia, ma desiderio di distruzione.
L’invidioso non vuole avere ciò che l’altro ha,
vuole che l’altro non lo abbia più.
E nel toglierglielo, prova sollievo.
In questo si rivela la natura profonda del male:
non la rabbia, ma il piacere nella distruzione.
Un piacere perverso, che non nasce dal corpo ma dal potere.
È il godimento freddo dell’Io che si crede invincibile,
che non ama ma possiede,
che non riconosce l’altro come soggetto,
ma lo riduce a oggetto della propria pulsione.
La cattiveria è la gioia dell’assenza d’empatia.
È la festa del vuoto.
Nella psiche di chi fa del male c’è sempre un punto cieco:
l’impossibilità di vedere l’altro come persona viva.
L’altro diventa strumento, bersaglio, superficie di proiezione.
Lì, la coscienza è anestetizzata.
Non c’è colpa, né rimorso.
C’è solo l’autogiustificazione:
“Me lo ha chiesto lui. Se l’è cercata. È per il suo bene.”
Ecco il cuore oscuro della cattiveria:
la lucidità senza empatia,
l’intelligenza priva di sentimento,
la parola usata come lama,
l’amore trasformato in arma di potere.
Ma nessuno può restare in quella posizione senza pagare un prezzo.
Chi vive di cattiveria si svuota lentamente.
L’Io si erge come torre, ma la torre è vuota.
E alla fine, crolla su se stessa.
Il male non vince mai: semplicemente, si consuma da solo.
Dr. Carlo D’Angelo