06/08/2025
E' un po' lungo ma vale veramente la pena di leggerlo sino in fondo
“Il modello del medico di medicina generale per l’erogazione delle cure primarie è superato per la società del 2025”
Ben Hoban è un medico di medicina generale a Exeter. Vincitore del Premio Kieran Sweeney 2025
È difficile per un medico immaginare l’assistenza sanitaria primaria senza i medici di medicina generale, eppure per molti pazienti nel Regno Unito oggi questa è la realtà: la maggior parte degli appuntamenti in medicina generale non avviene più con un medico, ma con operatori sanitari non medici, molti dei quali assunti attraverso l’Additional Roles Reimbursement Scheme.
Anche al di fuori dello studio, farmacie territoriali, ambulatori a libero accesso e il servizio NHS 111 fungono da punti di contatto iniziali con il sistema sanitario, e i servizi di continuità assistenziale coprono ormai una parte maggiore delle ore della settimana rispetto al medico curante. Servizi creati per supportare la medicina generale sembrano ora sul punto di sostituirla.
All’interno della visita, i software di intelligenza artificiale vengono già utilizzati per facilitare l’inserimento dei dati, e non ci vuole molta immaginazione per prevedere un ampliamento del loro ruolo.
Abbiamo raggiunto un punto di svolta oltre il quale la tecnologia e la diversificazione del personale dell’assistenza primaria renderanno obsoleta la medicina generale?
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La medicina moderna si è sviluppata nei laboratori, nelle sale settorie e negli ospedali, come esplorazione scientifica del corpo umano e delle malattie che lo colpiscono.
È quindi fondata sui principi intellettuali dell’oggettività, del riduzionismo e del ragionamento induttivo.
Noi medici aderiamo all’idea che il tutto possa essere compreso tramite l’analisi disinteressata delle sue parti, e che osservando abbastanza casi simili si possano trarre conclusioni generali.
È facile capire come i medici siano diventati esperti in camice bianco di specifici organi, osservando casi anonimi di “questa o quella” patologia nei reparti.
In questa prospettiva, l’individuo con la propria storia personale è largamente irrilevante; le sue preoccupazioni vengono accantonate, insieme ai vestiti con cui è arrivato.
Chi si occupa del paziente – e non è mai il paziente stesso – non ha bisogno di conoscerlo come persona, ma solo di sapere tutto ciò che riguarda le persone in generale, e i mille modi in cui i loro corpi possono malfunzionare. Il suo compito è guardare oltre l’individuo, applicando un processo standardizzato per ottenere un risultato riproducibile.
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Tutti i medici sono quindi, per formazione filosofica, eredi di Vesalio, Semmelweis e Rosalind Franklin, a prescindere da dove lavorino.
Tuttavia, i medici ospedalieri sono rimasti più fedeli a queste radici rispetto ai medici di medicina generale – ed è questa la vera questione.
Storicamente, i medici di famiglia discendono non solo dagli scienziati, ma anche da farmacisti e dagli erboristi.
Lavoriamo a stretto contatto con i pazienti, che arrivano di persona, vestiti, scegliendo quando farsi vedere, piuttosto che venir trasportati in ambulanza, supini e avvolti in coperte, secondo il caso.
Durante una visita ci si siede uno di fronte all’altro, ed è l’agenda del paziente a determinare il tono e l’esito.
Certo, contano anche processo e risultato, ma contano anche scopo e significato.
Da questa prospettiva, ciò che accade in medicina generale è l’antitesi del modello biomedico:
• si valorizza la relazione medico-paziente non come optional, ma come luogo in cui si affronta l’incertezza, si costruisce senso e si prendono decisioni condivise;
• ci si confronta tanto con la visione scientifica e razionale del problema, quanto con quella soggettiva, personale e spesso idiosincratica.
Abbiamo il privilegio di applicare la complessa macchina della sanità ai bisogni unici della persona di fronte a noi — anche se non sempre è una vestibilità perfetta.
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È proprio questa “scarsa vestibilità” a dimostrare i limiti della medicina e la necessità di una medicina generale distinta.
Individuare e trattare le malattie è importante, certo, ma solo finché esse ostacolano la vita concreta delle persone: lavoro, famiglia, relazioni, senso.
E molti pazienti soffrono di problemi che non hanno cause ben definite o che sfuggono alla comprensione medica tradizionale, ma hanno un impatto enorme sulla loro salute.
Un approccio solo medico può esporli a danni iatrogeni, senza offrire molto più che rassicurazioni vaghe.
In medicina generale, invece, riconosciamo che lo scopo dell’assistenza non è solo diagnosticare e curare, ma permettere di vivere.
I MMG sono quindi unicamente attrezzati per considerare le persone oltre alla patologia.
Abbiamo la libertà di frenare la macchina medica quando non serve, e anche di offrire aiuto e cura dove la medicina non ha risposte facili.
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La medicina generale funziona anche come filtro tra le persone e la medicina, non solo tra cure primarie e secondarie.
Inviare un paziente in specialistica serve non solo ad “aumentare il livello di cura”, ma anche a ridurre l’incertezza fino a renderla gestibile nel territorio.
Il paziente non viene dimesso solo perché è guarito, ma perché, sotto una certa soglia di gravità, i suoi bisogni sono meglio soddisfatti vicino a casa e da qualcuno che lo conosce.
Serve un sistema sanitario equilibrato, capace di operare sia in modalità scientifica che relazionale.
Senza la medicina generale, l’assistenza primaria diventerebbe solo un’ospedalizzazione sul territorio.
Certo, potremmo avere più confidenza con una mano che con l’altra, ma vogliamo davvero sacrificare l’equilibrio per avere due mani destre o due mani sinistre?
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È qui che i proposti “tre passaggi” verso un’assistenza digitale, territoriale e preventiva trovano difficoltà.
Usiamo la tecnologia ovunque, ed è giusto usarla anche nella sanità. Ma c’è il rischio che, nel farlo, deformiamo il processo che volevamo semplificare.
È comodo ordinare la pizza con un’app, ma così si riduce la varietà di scelta, si mangia più pizza del necessario, e chi non ha internet non mangia pizza affatto.
Allo stesso modo, trasferire le cure dall’ospedale al territorio sembra corretto, ma spesso presuppone che l’ospedale sia il modello da replicare altrove.
In realtà, un territorio ben strutturato avrebbe meno bisogno degli ospedali fin dall’inizio.
Infine, la frase “meglio prevenire che curare” è una verità apparente che nasconde valori e assunzioni.
Durante la pandemia da Covid-19, alcune misure preventive sono state molto, molto peggiori della malattia stessa.
Curare l’intera popolazione over 50 con statine può costare meno che affrontare le complicanze cardiovascolari, ma è davvero l’approccio migliore?
Se la salute segue un gradiente sociale, la prevenzione non dovrebbe includere anche il miglioramento delle condizioni di vita e l’accesso alle cure primarie per i più vulnerabili?
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La medicina generale non è un lusso che non possiamo permetterci,
ma un bene essenziale quotidiano —
senza il quale finiamo per affidarci ad alternative meno appropriate e più costose.
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Stiamo offrendo sempre più appuntamenti, ma i pazienti sentono di ricevere sempre meno.
Ascoltare è diventato un lusso, e la continuità personale delle cure viene razionata.
Il problema dell’assistenza primaria non è solo la carenza di risorse, ma anche la perdita di equilibrio.
Potrà sembrare autoreferenziale invocare lo spirito dell’esperto generalista, dell’approccio alla persona, quando molti pazienti non riescono nemmeno ad accedere al minimo.
Ma c’è una grande differenza tra ciò che è “di base” e ciò che è “fondamentale”.
La medicina generale non è superata perché inadatta, ma perché è stata ostacolata nel funzionare secondo i suoi punti di forza.
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Alla domanda iniziale, quindi, rispondo:
sì, il modello del medico di famiglia appare superato,
ma solo perché gli è stato legato un braccio dietro la schiena, in nome di una falsa idea di progresso.
La soluzione non è abbandonarlo, ma liberarlo.
È ora di riscoprire un sistema sanitario più equilibrato,
fondato sulla scienza e sull’umanità,
che abbia come obiettivo non solo la guarigione,
ma una vita vissuta bene.
Dovremmo aspirare a offrire più di semplice medicina,
non semplicemente più medicina.
La medicina generale può farlo, se glielo permettiamo.
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📝 Nota sul Premio Kieran Sweeney
Il Professor Kieran Sweeney era un medico di medicina generale a Exeter, morto nel 2009 di mesotelioma, a 58 anni.
Applicava idee provenienti da filosofia, arti, matematica, economia e scienze sociali alla cura dei pazienti e ai processi sanitari.
Era anche un abile scrittore medico.
La Tamar Faculty del Royal College of General Practitioners onora la sua memoria con un premio nazionale al miglior elaborato originale scritto da un medico di medicina generale, in risposta al quesito proposto.
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https://bjgplife.com/kieran-sweeney-prize-winner-2025-the-gp-model-for-delivery-of-primary-care-is-outdated-for-the-society-in-2025/?fbclid=IwQ0xDSwL_LehleHRuA2FlbQIxMQABHiIt-4gnqc9UrkTsKOkUH28z36JZ5np9NtKTpLhfanQem3Qr18rAvjzWwvDF_aem_b1Z4CW3jFGYRAtp7u84v3Q