24/11/2025
Pensare che un uomo uccida “per un raptus”, che picchi “per gelosia”, che violenti “perché lei aveva la gonna troppo corta” o “perché era uscita da sola”, significa accettare, e quindi normalizzare il modo in cui la mente dell’uomo violento funziona:
una mente che sposta la responsabilità, che confonde il possesso con l’amore, che vive il rifiuto come un affronto da ripristinare con il controllo e la sopraffazione.
Questa dinamica non si manifesta solo nella violenza fisica.
La forma più subdola, lenta e invisibile della violenza maschile è quella psicologica:
svalutazioni quotidiane, manipolazioni, controllo delle relazioni, isolamento, gelosia travestita da cura, gaslighting, colpevolizzazione.
Una violenza che non lascia lividi sulla pelle, ma li imprime nella mente e nel corpo della donna, logorando l’identità, erodendo l’autostima, rendendo la vittima sempre più vulnerabile.
La vera sfida non è nella condotta della donna, ma nel disinnescare i modelli mentali che rendono possibile quella condotta dell’uomo.
Perché nessun aumento di pena, da solo, può cancellare ciò che un individuo è stato educato a credere:
– che una donna “appartenga”;
– che il no sia negoziabile;
– che l’autonomia femminile sia una minaccia;
– che il potere emotivo e fisico dell’uomo sia un di un diritto
Serve un cambiamento culturale radicale, che lavori sulla formazione e sulla consapevolezza emotiva, soprattutto degli uomini e dei ragazzi.
Serve la mobilitazione delle famiglie, delle agenzie educative, degli operatori del diritto e dei media.
Perché la violenza di genere non nasce nel momento in cui esplode:
nasce molto prima, nella mente di chi la agisce e nei modelli che lo autorizzano a farlo.
La violenza contro le donne non è un problema delle donne.
È un problema degli uomini e della società che li forma.
Ed è responsabilità di tutti e tutte cambiarla.
Facciamoci caso.
Dott.ssa Alessandra Politi
Psicologia~Psicoterapeuta