23/11/2025
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✝️CRISTIANESIMO✝️
🎙Audioletture
🔸️Beata te che ha creduto
di Carlo Carretto
🤱DIO MIO, FIGLIO MIO
Durante l'Avvento mi trovavo sulle dune chiare e calde
di Beni Abbes, la stupenda oasi sahariana.
Avevo deciso di prepararmi al Natale in solitudine e
avevo scelto come luogo il pozzo di Ouarourout dove l'acqua era abbondante e una piccola grotta naturale poteva servire da ca****la.
Partii dopo la festa dell'Immacolata con un tempo bellissimo e con una gran voglia di solitudine.
Ma... il tempo non tardò a cambiare e il deserto divenne livido e freddo per la bruma alta che copriva il sole.
Anche la solitudine diventò difficile perché mi aveva scoperto Alì, figlio di Mohamed Assanì, un vero amico che pascolava le sue undici pecore nei paraggi e che era assetato di compagnia e di conversazione.
Sembrava che lo facesse apposta, ma non sapeva più trovare per le sue bestie pascoli più adatti e più ricchi di Ouarourout.
Mi girava attorno, da lontano s'intende, perché sapeva
che quando ero in preghiera doveva... star lontano e non
disturbarmi.
Il pozzo era comune e quindi era giustificato ad avvicinarsi quando andavo ad attingere acqua.
Naturalmente ne approfittava per invitarmi al tè che
preparava lui dopo aver preso tutto l'occorrente nella mia tenda.
Alì faceva bene il tè e amava prenderlo con me accompagnandolo con pane ch'io avevo cotto sotto la cenere.
Poi partiva al pascolo e per tutta la giornata s'accontentava di guardarmi da lontano cercando nella sabbia
piccoli fossili e reperti archeologici come punte di freccendell'età della pietra che poi regolarmente mi vendeva.
Il tempo si fece più cattivo e dovetti rinforzare le corde
che tenevano la tenda, prevedendo la bufera che nel deserto è terribile.
La tempesta si scatenò ben presto. Chi è stato nel deserto sa cos'è la tempesta di sabbia.
Per dirvi ciò che può capitare basta ricordarvi che in pieno giorno dovete accendere i fari della macchina per
vedere la pista, e i vetri e la vernice diventano smerigliati dalla violenza della sabbia.
L'unico mio rifugio diventò la grotta e là pensai di restare giorno e notte non volendo interrompere il ritiro.
Pensando ad Alì che non avevo più visto, mi convinsi che doveva avere capito a tempo le cose e, per non farsi
sorprendere dalla tempesta, aveva certamente raggiunto
l'ovile e la tenda paterna che si trovavano a una dozzina di chilometri da Quarourout, esattamente all'incrocio della strada di Bechar.
Invece!
Me ne stavo pregando nella grotta quando lo vidi irrompere di corsa, agitato all'estremo e col suo bastone di
pastore.
«Vieni, vieni fratel Carlo. Le pecore stanno morendo
nella sabbia: sono perdute... aiutami».
Corsi alla macchina e con lui ci buttammo nel deserto sconvolto dal vento e dalla sabbia che ci accecava.
Non fu facile ritrovare in quell'inferno le pecore. Erano spaventate, indebolite e vagavano qua e là tra le raffiche
di sabbia e di pioggia che aveva incominciato a cadere.
Non avevo mai visto niente di simile ed esperimentai
ancora una volta come nel deserto vita e morte siano così vicine di casa.
Mentre io guidavo la macchina e cercavo di non smarrirmi, Alì si precipitava sulle pecore e ad una ad una le intasava sulla macchina esauste e inebetite dalla paura.
Riuscimmo a portare le pecore nella grotta, unico rifugio possibile per sfuggire a quell'uragano che ci tagliava il respiro.
La piccola grotta fu piena di lana, di belati e di acre odore
di gregge.
Non mi era difficile pensare alla grotta di Betlemme e
cercavo di scaldarmi mettendomi vicino alle pecore più
grosse che, bagnate come me, tremavano nella semioscurità della sera.
Tolsi l'Eucaristia dal tabernacolo e mi appesi la teca al collo sotto il bournous.
Naturalmente non riuscimmo ad accendere il fuoco per la cena e dovemmo accontentarci di mangiare pane e sardine in scatola.
Ma ad Alì le sardine piacevano.
Io avevo voglia di pregare e capii subito che in fondo non
m'era andata male con tutto quel trambusto.
Forse avrei potuto trascorrere una notte un po' speciale.
Era vicino il Natale.
Ero in una grotta con un pastore. Avevo freddo.
C'erano le pecore e puzza di sterco.
Non mancava proprio niente.
L'Eucaristia che avevo appesa al collo m'impegnava a
pensare a Gesù presente sotto il segno del pane, così simile al segno di Betlemme, terra del pane.
Scendeva la notte. Fuori la tempesta continuava a imperversare sul deserto.
Oramai nella grotta tutto era silenzio.
Le pecore riempivano lo spazio disponibile.
Alì dormiva avvolto nel suo bournous con la testa appoggiata sulla spalla di una grossa pecora. Ai piedi aveva due agnellini.
Io pregavo ripetendo a memoria il vangelo di Luca: «Ora,
mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito,
lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia perché
non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,6).
Tacqui e rimasi in attesa.
Maria diventò la mia preghiera e me la sentii vicina, vicina.
Gesù era nell’Eucaristia proprio lì, coperto dal mantello.
Tutta la mia fede, la mia speranza, il mio amore erano in.un punto.
Non avevo più bisogno di meditare: bastava contemplare in silenzio. Avevo tutta la notte a disposizione e
l'alba era ancora lontana.
Sognavo? Vegliavo?
Non lo so. Il tutto era una cosa sola.
Del resto che differenza c'è tra il sogno e la realtà quando
il sogno riguarda la venuta di Dio sulla terra e la realtà è
una grotta come quella descritta dagli evangelisti?
Credere che Dio si è fatto uomo è il più grande sogno per l'uomo. Si direbbe che il desiderio di unire la terra al cielo fu tale che il Natale diventò la realizzazione di quel
desiderio.
Insomma il Natale, la venuta di Dio sulla terra, l'ho desiderata io e l'ho sognata o è un fatto straordinario come
un sogno che si è avverato?
Penso l'uno e l'altro, tanto è cosa straordinaria; certamente la venuta ha anticipato il sogno perché nessuno di noi sarebbe stato capace di fare un sogno così unico e bello.
Che ne dici tu, Maria, tu che sei la più interessata? Non ti
pareva un sogno l'avere un figlio di quel genere?
Ti pareva cosa reale? Averlo generato nella carne era niente in confronto della fatica di generarlo nella fede.
Vedere un bimbo, il tuo bimbo, era facile, ma credere, credere mentre gli facevi fare la p**ì, in un angolo, che
proprio lui, il tuo bimbo, era il Figlio di Dio, non era cosa facile.
La fede era certamente oscura, dolorosa anche per te, non solo per noi tuoi fratelli su questa terra di viventi.
Io ho qui sotto il mantello, appesa al collo, la teca contenente l'Eucaristia. E un piccolo pezzo di pane consacrato dalla fede della Chiesa, lo porto con me, lo amo, lo adoro, ma... non è facile credere!
Non è così, Maria?
Non è così anche per te?
Non c'è fatica più grande sulla terra della fatica di credere, sperare, amare: tu lo sai.
Aveva ragione tua cugina Elisabetta a dirti: «Beata te che
hai creduto!»
Sì, Maria, beata te che hai creduto.
Beata te che mi aiuti a credere, beata te che hai avuto la forza di accettare tutto il mistero della Natività e di avere
avuto il coraggio di prestare il tuo corpo a un simile avvenimento che non ha limiti nella sua grandiosità e nella
sua inverosimile piccolezza.
Nell'incarnazione gli estremi si sono toccati e l'infinitamente lontano si è fatto l'infinitamente vicino, e l'infinitamente potente si è fatto l'infinitamente povero.
Maria, capisci cosa hai fatto? Sei riuscita a star ferma sotto il peso di un mistero senza confini.
Sei riuscita a non tremare davanti alla luce dell'Eterno
che cercava il tuo ventre come casa per riscaldarsi.
Sei riuscita a non morire di paura davanti al ghigno di Satana che ti diceva che era cosa impossibile che la
trascendenza di Dio potesse incarnarsi nella sporcizia dell'umanità.
Che coraggio, Maria!
Solo la tua umiltà poteva aiutarti a sopportare simile
urto di luce e di tenebra.
Fino a ieri ero abituato a dire: «Padre nostro, che sei nei cieli». Intendiamoci bene: non è così facile neanche questo.
Credere che Dio creatore, potenza infinita, sia padre e un
padre d'amore è già il frutto di un lungo cammino nella
fede.
Nel passato sotto i colpi di tuono e tra il fuoco dei lampi era più facile pensare a un Dio “padrino", cioè a un Dio che t'incuteva paura.
Non per nulla la preoccupazione dell'inferno e delle pene
eterne ha perseguitato le notti di noi peccatori.
È quasi naturale aver paura di un Dio creatore.
Un Dio incomunicabile, giustiziere, unico.
Davanti a lui così potente non rimane altra cosa che buttarsi a terra in ginocchio.
L'unicità e la trascendenza di Dio sono la prima fonte del
terrore. A leggere l'Antico Testamento ne senti l'eco profonda e avverti il cammino che il popolo di Dio fa nel suo
lungo esodo dalla schiavitù alla Terra Promessa.
C'è qua e là la voce del profeta che annuncia già l'amore: «Può una
madre dimenticare il figlio? Può una donna abbandonare
il frutto del suo seno? E se anche questa lo dimenticasse,
io non mi dimenticherò di voi» (Is 49,15).
Ma c'è anche quella del legislatore che dice: «Dio non
lascia senza punizione e castiga la colpa dei padri nei figli, e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazio-
ne» (Es 34,7).
Leggete il Levitico, i Numeri e soprattutto il Deuteronomio e vi convincerete se non è vero che il «timore di Dio è l'inizio della sapienza».
Ma stanotte sono qui e non penso più né al Levitico, né al
Deuteronomio.
Sono qui in una stalla accanto a Maria e mi immergo nel Vangelo e il Vangelo mi dice: «Maria diede alla luce il suo figlio primogenito» (Lc 2,7).
La trascendenza è divenuta incarnazione, la paura si è fatta dolcezza, l'incomunicabilità abbraccio.
Il lontano si è fatto vicino, Dio divenne figlio.
Capite quale rovesciamento si è compiuto? Per la prima
volta una donna poté dire in tutta verità: «Dio mio, figlio mio».
Ora non ho più paura. Se Dio è quel bimbo messo lì sulla paglia della grotta, Dio non mi fa più paura.
E se anch'io posso sussurrare accanto a Maria: «Dio mio,
figlio mio», il paradiso è entrato a casa mia, recandomi veramente la pace.
Posso aver paura di mio padre, specie quando non lo conosco ancora, ma di mio figlio no.
Di un figlio che mi prendo in braccio, che mi struscio
sulla pelle assetata di lui, un figlio che chiede a me protezione e calore, no.
Non ho paura.
Non ho paura.
Non ho più paura.
La pace che è assenza di paura è ora con me.
Ora l'unica fatica che mi rimane è credere.
E credere è come generare. Nella fede continuo a generare Gesù come figlio.
Maria fece così. Certo le fu più facile generare Gesù nella carne: le bastarono nove mesi.
A generare Gesù nella fede dovette impegnare tutta la vita da Betlemme al Calvario.
Maria, credo come te che quel bimbo è Dio ed è tuo figlio e lo adoro.
Adoro la sua presenza nella teca che porto sotto il mantello, dove lui è nascosto sotto il segno fragilissimo del
pane, più fragile ancora della carne.
Sento te, Maria, che di tanto in tanto ripeti, come a Betlemme: «Dio mio, figlio mio».
Ed io ti rispondo: «Dio mio, figlio mio».
È il rosario di stasera.
Come allora.
Il fiato degli animali scalda la grotta come allora.
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