Daniela Sapio - Una Psicoterapeuta al tuo fianco

Daniela Sapio - Una Psicoterapeuta al tuo fianco Informazioni di contatto, mappa e indicazioni stradali, modulo di contatto, orari di apertura, servizi, valutazioni, foto, video e annunci di Daniela Sapio - Una Psicoterapeuta al tuo fianco, Psicologo, Via Firenze, 13, Prato.

Psicologa clinica e della salute, iscritta all'Albo degli Psicologi della Toscana (n. 8388)
Psicologa forense
Psicoterapeuta ad indirizzo Umanistico e Bioenergetico
Psicodiagnosta
Tutor dell'apprendimento specializzata in DSA e BES

Ultimo giorno per iscriversi! Basta un passo diverso dal solito per svoltare 😉
03/11/2025

Ultimo giorno per iscriversi!
Basta un passo diverso dal solito per svoltare 😉

11/10/2025

La salute mentale è una ricchezza che non dovremmo mai dare per scontata. Noi la mettiamo al centro della nostra missione.

09/09/2025

Bentrovati! Riparte oggi, fino a Luglio 2026, la rubrica "𝑪𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑒 𝑺𝑖𝑔𝑛𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎 𝑷𝑟𝑒𝑣𝑒𝑛𝑖𝑟𝑒", con la sua terza edizione, in cui Psicologi, Avvocati, Educatori e Mediatori Familiari tratteranno temi circa la Psicologia. Ogni 2° e 4° Martedì di ciascun mese, pubblicheremo su questa pagina un articolo specialistico scritto da uno dei nostri professionisti.

Iniziamo la rinnovata rubrica con l’articolo scritto dal 𝑫𝒐𝒕𝒕. 𝑳𝒆𝒐𝒏𝒂𝒓𝒅𝒐 𝑪𝒂𝒑𝒐𝒏𝒊, psicologo psicoterapeuta, dal titolo 𝐏𝐒𝐈𝐂𝐎𝐋𝐎𝐆𝐈𝐀 𝐃𝐄𝐋 “𝐑𝐈𝐄𝐍𝐓𝐑𝐎” 𝐃𝐀𝐋𝐋𝐄 𝐅𝐄𝐑𝐈𝐄. 𝐓𝐫𝐚 𝐭𝐨𝐫𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨𝐧𝐢 𝐞𝐬𝐭𝐢𝐯𝐢 𝐞 𝐭𝐨𝐫𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐢𝐨𝐫𝐢… in cui verrà spiegata l’importanza del riposo e i diversi modi di percepire le vacanze, e il rientro dalle vacanze.

Buona lettura 🙂


𝐶𝑒𝑟𝑐𝑜 𝑙’𝑒𝑠𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑙’𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑒 𝑎𝑙𝑙’𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑣𝑣𝑖𝑠𝑜 𝑒𝑐𝑐𝑜𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑎, scriveva Paolo Conte nel brano portato poi al successo da Adriano Celentano, la celeberrima 𝐴𝑧𝑧𝑢𝑟𝑟𝑜: una canzone apparentemente allegra e spensierata, ma che nel testo racchiude altresì molte note malinconiche e un racconto quasi struggente, dove la disperazione per l’abbandono si alterna alla speranza, al coraggio di riprendersi quello che è perduto, alla lotta per i propri desideri, anche se spesso i nostri treni vanno all’incontrario! Perché l’estate è un po’ così, tanto attesa da molti ma poi non sempre allineata alle nostre aspettative e comunque fonte di emozioni di tante tonalità, non solo quelle solari e piacevoli, ma anche quelle un po’ “stonate”.
Uno dei motivi per cui questa stagione è così agognata è perché in questo periodo dell’anno sono concentrate le settimane di ferie dal lavoro o comunque di stacco dallo studio, e quindi destinate al relax, al divertimento e alle vacanze da qualche parte. Il periodo delle vacanze offre l’opportunità di allontanarsi dalla routine quotidiana caratterizzata da impegni, appuntamenti, traffico, ritardi, incastri e da responsabilità lavorative. 𝐑𝐢𝐭𝐚𝐠𝐥𝐢𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐮𝐧 𝐩𝐞𝐫𝐢𝐨𝐝𝐨 𝐝𝐢 𝐯𝐚𝐜𝐚𝐧𝐳𝐚, 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐛𝐫𝐞𝐯𝐞, 𝐩𝐞𝐫𝐦𝐞𝐭𝐭𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐭𝐢𝐯𝐚 𝐫𝐢𝐝𝐮𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐭𝐫𝐞𝐬𝐬: la diminuzione del carico lavorativo e l’aumento del tempo libero, infatti, contribuiscono a migliorare l’umore e a ridurre l’ansia. Il tempo libero viene impiegato per dedicarsi ad hobby, lettura, riposo, ma anche a sport e attività all’aperto che, non solo hanno effetti benefici sulla salute fisica, ma anche sul benessere psicologico. Anche la maggior esposizione alla luce solare, infatti, è collegata alla produzione nel corpo di vitamina D e all’aumento dei livelli di serotonina, che regola l’umore. Durante le vacanze, inoltre, si tende a trascorrere più tempo con amici e familiari: l’aumento delle interazioni sociali può migliorare il supporto emotivo e la connessione sociale. Tutti questi fattori possono contribuire a una sensazione generale di benessere psicologico, rendendo l’estate una stagione più leggera e piacevole.
𝐍𝐨𝐧 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐨̀, 𝐝𝐢𝐜𝐞𝐯𝐚𝐦𝐨, 𝐯𝐢𝐯𝐨𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐩𝐢𝐚𝐜𝐞𝐫𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐦𝐨𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐚𝐧𝐧𝐨, anzi qualcuno potrebbe benissimo prendere in prestito le parole della canzone di Bruno Martini degli anni ’60 e intonare 𝑂𝑑𝑖𝑜 𝑙'𝑒𝑠𝑡𝑎𝑡𝑒. Certamente l’estate, soprattutto anche a causa dell’aumento delle temperature, ci mette a dura prova a livello fisico perché il nostro corpo inizia ad accumulare calore: questo, oltre a farci sentire oppressi fisicamente, può avere altri sintomi come affaticamento, stanchezza, irritabilità, difficoltà di concentrazione, problemi del sonno e disidratazione. Ma non è l’unico aspetto che può mettere in difficoltà: non tutti ad esempio si possono permettere una vacanza, che sia per motivi economici, lavorativi, famigliari o medici, e allo stesso tempo non tutti hanno una rete intorno che si possa attivare quando le città si svuotano. L’estate poi porta con sé una maggiore esposizione del proprio corpo, a causa dell’abbigliamento leggero e dei costumi da bagno e questo acuisce tutte quelle problematiche legate all’immagine corporea. Infine, i viaggi, le attività ricreative, gli eventi sociali possono comportare spese aggiuntive, che portano ad un aumento della preoccupazione per il denaro e influenzare negativamente l’umore.
Comunque a un certo punto, sia per gli amanti dell’estate che per i detrattori, arriva per tutti lui: 𝐬𝐞𝐭𝐭𝐞𝐦𝐛𝐫𝐞. Con tutto quello che significa. Per me, che ho vissuto l’infanzia negli anni ottanta, riecheggia subito la canzone tormentone dei Righeira 𝐿’𝑒𝑠𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑒𝑛𝑑𝑜 (𝑒 𝑢𝑛 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑠𝑒 𝑛𝑒 𝑣𝑎!), ma ancor di più si riaffaccia alla mente una delle scene finali del mitico Sapore di mare di Carlo Vanzina (1983), dove una giovanissima Isabella Ferrari pedala malinconica nella passeggiata di Viareggio ormai a fine stagione, con gli stabilimenti che chiudono gli ombrelloni dopo l’acquazzone che ha decretato la fina dell’estate (con in sottofondo la struggente 𝑅𝑖𝑡𝑜𝑟𝑛𝑒𝑟𝑎𝑖 di Bruno Lauzi).
Settembre, la fine dell’estate e delle vacanze, ci riportano a livello psicologico ad un momento piuttosto delicato per ciascuno di noi, tanto da ipotizzare l’esistenza di una 𝐬𝐢𝐧𝐝𝐫𝐨𝐦𝐞 𝐝𝐚 𝐫𝐢𝐞𝐧𝐭𝐫𝐨. Non si tratta di una vera e propria patologia medica o psichiatrica, tuttavia è composta da una serie di sintomi che hanno effetti sulla vita quotidiana di chi ne soffre, quali: una generale sensazione di malessere, irritabilità, difficoltà di concentrazione, insonnia o ipersonnia, senso di nostalgia, mancanza di piacere, senso di solitudine, mancanza di forza ed energie e difficoltà gastrointestinali.
Le 𝐜𝐚𝐮𝐬𝐞 della Sindrome da Rientro possono essere molteplici:
– difficoltà nel riprendere la normale routine, dopo averla cambiata nelle vacanze
– il solo pensiero di dover tornare al lavoro o alla scuola può generare stress e ansia, influenzando negativamente l’umore prima ancora che il rientro effettivo avvenga
– dopo un periodo di relax e divertimento, può mettere in crisi il confronto con la realtà quotidiana, spesso meno piacevole
– le vacanze possono anche presentare un momento di riflessione sulla propria vita, e tornare alla routine può portare con sé un senso di insoddisfazione se si realizza che qualcosa non va come si vorrebbe.

𝐀𝐥𝐜𝐮𝐧𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐢𝐠𝐥𝐢 per attenuare le difficoltà del rientro includono:
– prevedere uno stacco tra le vacanze e il ritorno al lavoro (una volta a casa è possibile riorganizzare i propri orari in modo da essere pronti per il rientro a scuola o al lavoro)
– se possibile pianificare le prime giornate lavorative in modo da non sovraccaricarsi di impegni
– finché il tempo lo permette integrare nella routine quotidiana alcune attività che si facevano in vacanza, come passeggiare all’aria aperta o l’attività fisica in generale
– riprendere una dieta equilibrata dopo gli eccessi delle vacanze
– il sonno regolare può aiutare a stabilizzare il ritmo circadiano e ridurre la stanchezza
– mantenere i contatti con amici e familiari, e condividere le proprie esperienze
– anche la semplice partecipazione a eventi sociali o la pianificazione di piccoli momenti di svago possono aiutare a ridurre i sintomi.
Se i sintomi della Sindrome da Rientro persistono per più di qualche settimana dalla ripresa della routine lavorativa o scolastica, oppure se diventano così intensi da interferire significativamente con la vita quotidiana converrebbe 𝐫𝐢𝐜𝐞𝐫𝐜𝐚𝐫𝐞 𝐥’𝐚𝐢𝐮𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧𝐨 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐨 per individuare le cause del disagio, elaborarle e sviluppare strategie per superarlo.

Tornando al nostro bistrattato settembre, bisogna anche considerare che invece per tanti è un mese vissuto molto piacevolmente. In primis perché la ripartenza può portare un rinnovato entusiasmo (riposati e carichi di nuova energia) e si può aprire una fase progettuale dove si organizzano cose nuove o si pianificano cambiamenti nelle proprie routine (magari frutto di prese di coscienza fatte durante il break estivo). Per alcuni poi, tornare alle proprie abitudini quotidiane, anche se faticose, è molto rassicurante e placa alcune ansie.
Esiste poi un’altra categoria che non disdegna affatto settembre: quelli che hanno programmato le loro vacanze proprio in questo mese! Sono infatti sempre di più quelli che preferiscono questo periodo dell’anno per organizzare le ferie, perché il caldo da un po’ di tregua, perché c’è meno caos nelle località turistiche e si possono ottenere prezzi più bassi. Più in generale, si è diffuso un modo di vivere le vacanze non solo ad agosto ma in maniera più dilazionata durante tutto l’arco dell’anno. Perché diciamocelo, ogni stagione alla fine è buona per staccare un po’ e rilassarsi…e in fondo chi non vorrebbe trovarsi, come cantava Irene Grandi qualche anno fa, 𝐼𝑛 𝑣𝑎𝑐𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 (𝑡𝑟𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑒𝑠𝑎 𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎…)!

P.S.: Per chi è troppo nostalgico dell’estate e sente di non farcela ad affrontare 𝑙’𝑖𝑛𝑣𝑒𝑟𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑠𝑐𝑜𝑛𝑡𝑒𝑛𝑡𝑜 (come direbbe Shakespeare), non resta che aggrapparsi all’idea che tra poche settimane arriverà puntuale il Natale (e gli Wham!) e potremo tutti cantare 𝐿𝑎𝑠𝑡 𝐶ℎ𝑟𝑖𝑠𝑡𝑚𝑎𝑠, 𝐼 𝑔𝑎𝑣𝑒 𝑦𝑜𝑢 𝑚𝑦 ℎ𝑒𝑎𝑟𝑡…

Grazie per aver letto l’articolo!

07/07/2025

Bentornati! Per questo ventunesimo appuntamento la 𝐃𝐫.𝐬𝐬𝐚 𝐋𝐢𝐬𝐚 𝐁𝐮𝐟𝐟𝐢𝐧𝐢 propone il suo articolo dal titolo 𝐈𝐥 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐫𝐨 𝐝𝐢𝐜𝐨𝐭𝐨𝐦𝐢𝐜𝐨: 𝐪𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐥𝐚 𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐯𝐞𝐝𝐞 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐛𝐢𝐚𝐧𝐜𝐨 𝐞 𝐧𝐞𝐫𝐨, in cui spiega cos’è e cosa comporta questa rigidità mentale.

Buona lettura!


𝑆𝑒 ℎ𝑜 𝑠𝑏𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑎, 𝑠𝑏𝑎𝑔𝑙𝑖𝑒𝑟𝑜̀ 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒. 𝐿𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒 𝑠𝑖 𝑓𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑓𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑜 𝑡𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑓𝑎𝑟𝑙𝑒. 𝑂 𝑝𝑖𝑎𝑐𝑐𝑖𝑜 𝑎 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖, 𝑜𝑝𝑝𝑢𝑟𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑣𝑎𝑙𝑔𝑜 𝑛𝑢𝑙𝑙𝑎.

Se queste frasi ti suonano familiari, è possibile che tu stia ragionando secondo schemi tipici del 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐫𝐨 𝐝𝐢𝐜𝐨𝐭𝐨𝐦𝐢𝐜𝐨 (in inglese, 𝐵𝑙𝑎𝑐𝑘 𝑎𝑛𝑑 𝑊ℎ𝑖𝑡𝑒 𝑇ℎ𝑖𝑛𝑘𝑖𝑛𝑔), una modalità di giudizio che porta a interpretare il mondo, gli eventi e le persone secondo polarità opposte, escludendo vie di mezzo.
Questa tipologia di ragionamento è un vero e proprio bias cognitivo, cioè un errore sistematico nel modo di elaborare le informazioni, che spinge a dividere le esperienze in due categorie mutuamente escludentesi: giusto o sbagliato, successo o fallimento, amore od odio e così via.

Tale bias affonda spesso le sue radici in 𝐞𝐬𝐩𝐞𝐫𝐢𝐞𝐧𝐳𝐞 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐚𝐭𝐞, in cui il giudizio ricevuto era rigido e assoluto. In ambienti del genere, si interiorizza l’idea che il proprio valore dipenda esclusivamente da risultati impeccabili, escludendo la possibilità di sbagliare o di avere incertezze. Anche l’𝐚𝐧𝐬𝐢𝐚 e l’𝐢𝐧𝐬𝐢𝐜𝐮𝐫𝐞𝐳𝐳𝐚 possono rafforzare questa visione rigida: per sentirsi al sicuro, la mente classifica ogni esperienza in bianco o nero, nel tentativo di ridurre la complessità che fatica a gestire.
Proprio perché porta a concettualizzare il mondo agli estremi, viene anche definito 𝒑𝒆𝒏𝒔𝒊𝒆𝒓𝒐 𝒑𝒐𝒍𝒂𝒓𝒊𝒛𝒛𝒂𝒕𝒐. La 𝐩𝐨𝐥𝐚𝐫𝐢𝐳𝐳𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 è, infatti, il tratto distintivo di questa distorsione cognitiva e comporta una visione della realtà estremamente rigida. Adottando una visione polarizzata, diventa difficile riconoscere che le situazioni contengono spesso sia elementi positivi che negativi, che le persone hanno difetti e pregi, che le decisioni che prendiamo hanno conseguenze positive e negative.
Un altro aspetto fondamentale del pensiero dicotomico è la 𝐫𝐢𝐠𝐢𝐝𝐢𝐭𝐚̀ 𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐥𝐞, ovvero la difficoltà a mettere in discussione le proprie convinzioni, anche di fronte a nuove evidenze. Cambiare idea può generare insicurezza e timore di apparire incoerenti. Questo può spingere a ignorare informazioni contrarie alle proprie credenze, ostacolando l’apertura mentale e creando difficoltà relazionali.
Anche la 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐥𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞𝐜𝐜𝐞𝐬𝐬𝐢𝐯𝐚 e l’emotività intensa sono aspetti chiave di questo modo di pensare. La prima è un tentativo (illusorio) di ridurre l’incertezza: dividere le persone in “buone” o “cattive” e gli eventi in “successi” o “disastri” può farci sentire più sicuri, ma allo stesso tempo limita la nostra capacità di comprendere la realtà nella sua complessità. Questo approccio non solo distorce la percezione degli eventi, ma limita anche la capacità di risolvere problemi in modo efficace, rinforzando la tendenza a interpretare ogni esperienza secondo categorie rigide e immutabili.
Parallelamente, l’𝐞𝐦𝐨𝐭𝐢𝐯𝐢𝐭𝐚̀ 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐧𝐬𝐚 emerge proprio perché le esperienze sono interpretate in termini assoluti e ciò non lascia spazio a emozioni intermedie. Facendo un esempio, un errore nel contesto lavorativo potrebbe essere interpretato come un “totale fallimento” e questo portare a emozioni acute come disperazione, senso di colpa, rabbia verso sé stessi e vergogna. L'intensità emotiva è problematica perché può condurre a stress, ansia, comportamenti impulsivi e autodistruttivi.
Infine, anche la tendenza a 𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐜𝐚𝐫𝐞 𝐬𝐞́ 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐢 𝐞 𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐢 𝐢𝐧 𝐦𝐚𝐧𝐢𝐞𝐫𝐚 𝐞𝐬𝐭𝐫𝐞𝐦𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐬𝐞𝐯𝐞𝐫𝐚 è una caratteristica tipica di tale modalità di ragionamento. Il pensiero dicotomico non ammette errori e imperfezioni e conduce ad una costante valutazione delle proprie prestazioni. I giudizi severi su sé stessi alimentano l'insoddisfazione verso di sé e possono indurre l'𝐚𝐮𝐭𝐨𝐬𝐚𝐛𝐨𝐭𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨, un meccanismo spesso inconsapevole che porta, attraverso pensieri e comportamenti, ad ostacolare il raggiungimento dei propri obiettivi e del benessere personale. Anche la critica verso gli altri è rigida: un piccolo errore da parte di una persona cara può essere interpretato come una prova definitiva della sua mancanza di affetto.

Per queste ragioni, tale distorsione cognitiva è strettamente connessa al perfezionismo e in particolare a quello clinico, che si distingue dal perfezionismo sano orientato al miglioramento personale. Il 𝐩𝐞𝐫𝐟𝐞𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢𝐬𝐦𝐨 𝐩𝐚𝐭𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐨 è definito come la tendenza a basare il proprio valore sul raggiungimento di standard estremamente elevati, spesso irrealistici, accompagnata da un’autocritica intensa quando questi non vengono soddisfatti. Superarlo non è semplice, poiché è necessario interrompere i processi implicati nel suo mantenimento tra cui, oltre al pensiero dicotomico, troviamo: l'eccessiva importanza attribuita al raggiungimento di standard rigidi e autoimposti; l’attenzione selettiva rivolta solo agli aspetti negativi; il doppio standard, per cui si è molto più severi con noi stessi di quanto si sarebbe con gli altri; la tendenza a minimizzare i successi e la catastrofizzazione, che amplia le conseguenze di un errore.

Questi meccanismi mentali trovano oggi un terreno particolarmente fertile nei 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐚, che offrono spesso una rappresentazione distorta e idealizzata della realtà: si tende a mostrare solo i momenti migliori della vita. Non c’è, dunque, spazio per la complessità dell’esperienza umana (o forse non siamo pronti a condividerla). Il flusso costante di immagini perfette e successi porta così a focalizzarsi selettivamente sugli aspetti negativi della propria vita, rafforzando il doppio standard (“gli altri ce la fanno, io no”) e la convinzione che per avere valore sia necessario mostrarsi sempre felici e realizzati. Questo confronto con standard irraggiungibili alimenta la visione “tutto o nulla” e aggrava le modalità di pensiero rigide tipiche del perfezionismo. In questo senso, il confronto sociale non serve più a stimolare la crescita, ma finisce per alimentare insoddisfazione e autosvalutazione. Non sorprende, infatti, che l’uso intensivo dei social media sia associato a maggiori livelli di ansia, insoddisfazione e bassa autostima.

È, pertanto, importante saper riconoscere e modificare questa modalità di pensiero per favorire una maggiore flessibilità mentale e un benessere psicologico più stabile. Fortunatamente, esistono alcune strategie mirate:
𝐂𝐨𝐧𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐨𝐥𝐞𝐳𝐳𝐚: il primo passo è riconoscere la presenza di pensieri rigidi e assoluti;
𝐄𝐬𝐚𝐦𝐞 𝐜𝐫𝐢𝐭𝐢𝐜𝐨: una volta individuati, è utile metterli in discussione chiedendosi, ad esempio: “ci sono prove concrete che confermano questa visione?”, “esistono altre interpretazioni possibili?”;
𝐑𝐢𝐟𝐨𝐫𝐦𝐮𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞: sostituire i pensieri disfunzionali con valutazioni più realistiche. Ad esempio: “se il mio partner mi ha lasciato non è perché non valgo niente, ma per motivi che riguardano entrambi”.

Sfidare il pensiero dicotomico richiede coraggio, ma può cambiare radicalmente il modo in cui percepiamo e affrontiamo il mondo. Scegliere di essere gentili, comprensivi e flessibili può trasformare profondamente il nostro benessere e aiutarci a ritrovare un senso di fiducia in sé e negli altri.

24/06/2025

Bentornati! Per questo ventesimo appuntamento la 𝐃𝐫.𝐬𝐬𝐚 Daniela Sapio - Una Psicoterapeuta al tuo fianco propone il suo articolo dal titolo 𝐕𝐢𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐧𝐨𝐧𝐨𝐬𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐥𝐚 𝐦𝐨𝐫𝐭𝐞: 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐞𝐠𝐢𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐞𝐥𝐚𝐛𝐨𝐫𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐥𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐥𝐢𝐚𝐫𝐞, in cui spiega come affrontare al meglio il lutto.

Buona lettura!


Quando perdi un padre, una madre, un compagno o una compagna, un fratello, una sorella o un figlio, la tua vita cambia per sempre. La scomparsa di un familiare scandisce un “prima” e un “dopo”: il confine tra la tua vita con quella persona e la tua vita senza quella persona. Niente sarà mai più come prima. Cambia il sapore di tutto ciò che ti circonda: persone, oggetti, abitudini, luoghi; tutto, in te, risente e assorbe gli effetti di un cambiamento inesorabile: il corpo, le emozioni, le cognizioni, i comportamenti.

La perdita di una persona cara è una delle esperienze più dolorose e universali dell’esistenza umana. Nessuno è immune al lutto, eppure ognuno lo vive in un modo unico, intimo, personale. La psicologia ha cercato di dare un senso a questo percorso complesso, sviluppando modelli che ci aiutano a comprendere meglio cosa accade dentro di noi quando affrontiamo una perdita significativa.

𝐋𝐞 𝐟𝐚𝐬𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐥𝐮𝐭𝐭𝐨: 𝐢𝐥 𝐦𝐨𝐝𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐝𝐢 𝐊𝐮̈𝐛𝐥𝐞𝐫-𝐑𝐨𝐬𝐬

Uno dei modelli più noti è quello proposto dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Inizialmente pensato per descrivere le reazioni dei pazienti terminali, è stato successivamente applicato a chiunque affronti una grande perdita. Le sue cinque fasi non rappresentano un percorso lineare, ma piuttosto delle possibili tappe, che possono alternarsi, ripetersi o coesistere.

1. 𝐍𝐞𝐠𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 – Una difesa naturale che protegge dallo shock iniziale. Il dolore è così grande da risultare inaccettabile: la mente prende tempo per iniziare a comprendere.

2. 𝐑𝐚𝐛𝐛𝐢𝐚 – “Perché è successo?” La rabbia può essere rivolta verso altri, verso sé stessi o anche verso la persona che se ne è andata. È un’emozione che esprime la frustrazione e il senso di ingiustizia.

3. Contrattazione – “Se solo avessi fatto…” È il tentativo di trovare spiegazioni o soluzioni impossibili, nel tentativo di riprendere il controllo.

4. Depressione – Quando la perdita si fa reale e definitiva, può subentrare un senso profondo di tristezza, solitudine, vuoto. Non si tratta di una patologia, ma di una fase fisiologica.

5. 𝐀𝐜𝐜𝐞𝐭𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 – Non significa “stare bene”, ma convivere con l’assenza, riorganizzando la propria vita alla luce del cambiamento. È il momento in cui il dolore inizia a trasformarsi.

𝐈𝐥 𝐥𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐬𝐢 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐝𝐚𝐯𝐯𝐞𝐫𝐨 𝐬𝐮𝐩𝐞𝐫𝐚𝐫𝐞?

Superare la perdita di una persona cara non vuol dire smettere di provare dolore per quella perdita, né dimenticare: non svaniscono né i ricordi di e con la persona scomparsa, né il ricordo dei momenti dolorosi connessi alla perdita (ad esempio, la diagnosi in caso di morte per malattia, il momento in cui abbiamo ricevuto la notizia della morte, l’ultimo respiro, le ultime parole, il funerale, la salma ecc). Superare il lutto vuol dire integrare l’esperienza dolorosa della perdita nella nostra coscienza e nella nostra vita, senza perpetuarne l’impatto disgregante e traumatizzante. Significa divenire consapevoli del fatto che quell’evento ha cambiato le nostre vite e non si può pensare alla nostra perdita senza sentire dolore e mancanza; tuttavia, il dolore e la mancanza, in un lutto elaborato, non avvolgono l’intera esistenza della persona sopravvissuta, ma al contrario le lasciano la possibilità di continuare a vivere respirando a pieni polmoni. La disperazione iniziale lascia il posto a un tipo di dolore meno intenso e meno acuto; i ricordi diventano via via più dolci; la rabbia per la perdita lascia il posto alla gratitudine per aver avuto quella persona nella propria vita.

𝐐𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐢𝐥 𝐝𝐨𝐥𝐨𝐫𝐞 𝐬𝐢 𝐭𝐫𝐚𝐬𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚 𝐢𝐧 𝐬𝐨𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐩𝐚𝐭𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐚

Per quanto sia naturale, il lutto non sempre evolve verso un’elaborazione sana. In alcuni casi, può sfociare in un lutto complicato, oggi riconosciuto anche dal DSM-5-TR come 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐮𝐫𝐛𝐨 𝐝𝐚 𝐥𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐥𝐮𝐧𝐠𝐚𝐭𝐨. Questa condizione si manifesta quando, a distanza di molti mesi, il dolore resta acuto e pervasivo, impedendo alla persona di riprendere una vita funzionale.
Tra i sintomi possibili: pensieri intrusivi e persistenti sulla persona deceduta, incapacità di accettare la morte, senso di colpa, inutilità, o rabbia incontrollata, ritiro sociale, apatia, disturbi del sonno, dell’alimentazione o della concentrazione, sintomi depressivi o ansiosi.
In alcuni casi, il lutto può innescare disturbi depressivi, disturbi d’ansia, Disturbo da stress post-traumatico (soprattutto in caso di lutti traumatici, improvvisi o violenti), o portare a comportamenti a rischio.

𝐏𝐢𝐜𝐜𝐨𝐥𝐞 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐞𝐠𝐢𝐞 𝐪𝐮𝐨𝐭𝐢𝐝𝐢𝐚𝐧𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐚𝐭𝐭𝐫𝐚𝐯𝐞𝐫𝐬𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐝𝐨𝐥𝐨𝐫𝐞

Molto diffusa, ma erronea, è la convinzione che il tempo da solo basti a far guarire tutte le ferite. Il tempo è necessario, ma serve a elaborare il dolore solo se ti dai da fare, solo se ti impegni a vivere - non a sopravvivere - e chiedi aiuto.

E’ importante anche sapere che non esiste un unico modo (e non esistono modi giusti e sbagliati) di vivere il dolore della perdita: per esempio, alcune persone trovano conforto nell’andare a trovare i propri cari al cimitero o nei luoghi che frequentavano insieme; altri hanno bisogno invece di starci lontani. Non giudicare mai chi sta attraversando un lutto: piuttosto, chiedigli come puoi essere d’aiuto e sii pronto a sentire di non sapere qual è la cosa giusta da fare e da dire: è normale.

Qualunque sia il modo che senti più naturale per vivere il tuo dolore, cerca di viverlo e attraversarlo, perché solo attraversandolo, ne uscirai. Se invece cercherai di reprimerlo, di ammutolirlo, di scacciarlo, esso graverà su di te e sulla tua vita.

Qui di seguito ho elencato delle strategie semplici ma efficaci per attraversare, con il proprio tempo, il dolore:

1. Darsi il permesso di soffrire, senza fretta, senza forzature. Ogni emozione ha il diritto di esistere;
2. Prendersi una pausa dal lavoro e dagli impegni, che duri tutto il tempo che si sente necessario;
3. Mantenere una routine minima, anche semplice: dà struttura alle giornate e aiuta a non sentirsi disorientati;
4. Scrivere pensieri o lettere alla persona cara: aiuta a esprimere ciò che resta dentro;
5. Avere cura del proprio corpo, attraverso il sonno, l’alimentazione e i bisogni primari;
6. Cercare un contatto umano, anche solo con una persona fidata. L’isolamento prolungato può accentuare il dolore;
7. Creare rituali personali, come accendere una candela o visitare un luogo significativo, per mantenere un legame simbolico con chi non c’è più;
8. Parlare della persona che ci ha lasciati, ricordarla, raccontarla;
9. Piangere, liberando tutte le lacrime che aspettano di uscire, prima che si cristallizzino;
10. Passare del tempo con la famiglia riunita;
11. Chiedere aiuto.

𝐒𝐭𝐫𝐮𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐭𝐞𝐫𝐚𝐩𝐞𝐮𝐭𝐢𝐜𝐢 𝐩𝐞𝐫 𝐞𝐥𝐚𝐛𝐨𝐫𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐥𝐮𝐭𝐭𝐨

Quando il dolore diventa difficile da contenere, rivolgersi a un professionista può rappresentare un passo fondamentale per la propria salute mentale ed emotiva. Diversi sono gli strumenti che i professionisti della salute mentale adoperano per favorire il naturale processo di autoguarigione dopo un lutto.

𝐏𝐬𝐢𝐜𝐨𝐭𝐞𝐫𝐚𝐩𝐢𝐚 𝐢𝐧𝐝𝐢𝐯𝐢𝐝𝐮𝐚𝐥𝐞: aiuta a riconoscere, accogliere ed elaborare le emozioni legate alla perdita, facilitando la costruzione di un nuovo equilibrio interno.

𝐄𝐌𝐃𝐑 (𝐸𝑦𝑒 𝑀𝑜𝑣𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡 𝐷𝑒𝑠𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡𝑖𝑧𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝑅𝑒𝑝𝑟𝑜𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑛𝑔): particolarmente indicato nei lutti traumatici o improvvisi, l’EMDR favorisce la rielaborazione di ricordi dolorosi “bloccati” nel sistema di elaborazione adattiva dell’informazione ed è un protocollo che si dimostra efficace in un tempo sensibilmente più breve rispetto alle psicoterapie classiche.

𝐌𝐢𝐧𝐝𝐟𝐮𝐥𝐧𝐞𝐬𝐬 𝐞 𝐬𝐞𝐥𝐟-𝐜𝐨𝐦𝐩𝐚𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧: queste pratiche possono sostenere la persona nel contatto gentile con il proprio dolore, senza giudizio e senza forzature.

𝐆𝐫𝐮𝐩𝐩𝐢 𝐝𝐢 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐠𝐧𝐨: il confronto con altre persone in lutto può ridurre il senso di solitudine e favorire l’elaborazione condivisa.

Il dolore del lutto non si “supera”, ma si attraversa. Con il tempo e con le giuste risorse, si può imparare a vivere portando nel cuore il ricordo, l’esperienza, l’insegnamento della persona che abbiamo amato e perso, trasformando l’assenza in una presenza silenziosa, ma piena di significato.

Grazie per la lettura.

Potete contattarla seguendo il link:
https://www.miodottore.it/daniela-sapio-2/psicoterapeuta-psicologo-psicologo-clinico/prato



Fonti:
- Kübler-Ross, E. (1969). On Death and Dying. Macmillan.
- Stroebe, M., & Schut, H. (1999). The Dual Process Model of Coping with Bereavement. Death Studies, 23(3), 197–224.
- Worden, J. W. (2009). Grief Counseling and Grief Therapy. Springer Publishing.
- American Psychological Association. (s.d.). Grief. www.apa.org/topics/grief
- DSM-5-TR (2022). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Text Revision.
- Solomon, R. (2022). EMDR Therapy Treatment for Grief and Mourning.

11/06/2025
11/06/2025

Bentornati! Per questo diciannovesimo appuntamento la 𝐃𝐫.𝐬𝐬𝐚 𝐋𝐢𝐬𝐚 𝐁𝐮𝐟𝐟𝐢𝐧𝐢 propone il suo articolo dal titolo 𝐒𝐞 𝐜𝐢 𝐜𝐫𝐞𝐝𝐢, 𝐬𝐮𝐜𝐜𝐞𝐝𝐞 𝐝𝐚𝐯𝐯𝐞𝐫𝐨? 𝐈𝐥 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐫𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐚𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐚𝐭𝐢𝐯𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐢𝐭𝐢𝐯𝐞 𝐬𝐮𝐥 𝐛𝐞𝐧𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐟𝐢𝐬𝐢𝐜𝐨, in cui spiega il legame tra il corpo e la mente.

Buona lettura!


Che il cervello influenzi il corpo è ben risaputo, ma che possa farlo a tal punto da alleviare il dolore, migliorare l’umore, rafforzare il sistema immunitario e persino incidere sui risultati che otteniamo, continua a sorprenderci.
Quando crediamo davvero di poter superare una sfida — un esame, una malattia o un momento difficile in generale — siamo più propensi a impegnarci, tollerare le difficoltà e usare strategie efficaci. Credere in un esito positivo aumenta, quindi, significativamente la probabilità di mettere in atto comportamenti funzionali a raggiungerlo.
Le aspettative positive, come 𝐬𝐩𝐞𝐫𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐞 𝐨𝐭𝐭𝐢𝐦𝐢𝐬𝐦𝐨, sono state ampiamente studiate per il loro ruolo nel benessere mentale e fisico. L’𝐨𝐭𝐭𝐢𝐦𝐢𝐬𝐦𝐨 è una disposizione stabile della personalità ed è definito come la convinzione che nel futuro accadranno cose positive. La 𝐬𝐩𝐞𝐫𝐚𝐧𝐳𝐚, invece, è un costrutto più dinamico, inteso come la capacità di individuare obiettivi significativi, generare strategie per raggiungerli e mantenere la motivazione necessaria.
Entrambi aiutano a regolare il comportamento e a rispondere in modo adattivo agli eventi negativi. Ma il loro impatto sulla salute mentale e fisica va oltre il piano soggettivo: la 𝐏𝐬𝐢𝐜𝐨-𝐍𝐞𝐮𝐫𝐨-𝐄𝐧𝐝𝐨𝐜𝐫𝐢𝐧𝐨-𝐈𝐦𝐦𝐮𝐧𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚 (𝐏𝐍𝐄𝐈), disciplina che studia le relazioni tra la psiche e i sistemi biologici, conferma che la speranza e altre emozioni collegate alla felicità producono sostanze come serotonina, relaxina, ossitocina, dopamina ed endorfine, che si associano a benefici misurabili:
riduzione della pressione arteriosa
miglioramento del sonno e della circolazione sanguigna
rafforzamento del sistema immunitario (globuli bianchi, rossi e cellule natural killer)
diminuzione dell’infiammazione sistemica
ridotta percezione del dolore

In questo contesto si inserisce anche un fenomeno attuale molto discusso, soprattutto sui social: il 𝒎𝒂𝒏𝒊𝒇𝒆𝒔𝒕𝒊𝒏𝒈, ovvero l’idea che immaginare intensamente un obiettivo e crederci con convinzione possa facilitarne la realizzazione. Sebbene a prima vista sembri una forma moderna di pensiero magico, alcuni principi psicologici reali possono spiegarne l’efficacia: quando visualizziamo un risultato desiderato in modo vivido e costante, attiviamo gli stessi circuiti legati alle aspettative positive. Quindi, la mente si predispone all’azione, la motivazione cresce, la perseveranza aumenta e siamo meno inclini a lasciarci scoraggiare dagli ostacoli.

Un esempio molto affascinante e ben consolidato di come le aspettative influenzino il corpo e la mente è l’𝐞𝐟𝐟𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐩𝐥𝐚𝐜𝐞𝐛𝐨: il miglioramento delle condizioni di salute dovuto alla convinzione che un trattamento sia efficace, anche se privo di principi attivi. Questo effetto attiva specifiche aree cerebrali (corteccia prefrontale, insula anteriore, nucleo accumbens e amigdala) che rilasciano 𝐝𝐨𝐩𝐚𝐦𝐢𝐧𝐚 𝐞 𝐨𝐩𝐩𝐢𝐨𝐢𝐝𝐢 𝐞𝐧𝐝𝐨𝐠𝐞𝐧𝐢, riducendo il dolore e aumentando il benessere.

Purtroppo però, se è vero che le aspettative positive favoriscono il benessere, è anche vero che le aspettative negative possono generare effetti opposti, peggiorando i sintomi: questo fenomeno è noto come “𝐞𝐟𝐟𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐧𝐨𝐜𝐞𝐛𝐨”. In questi casi, il cervello si prepara al peggio: aumenta la percezione del dolore, si alza il cortisolo (ormone dello stress), diminuiscono le difese immunitarie, peggiorano ansia e umore.
Ricerche hanno, inoltre, evidenziato che la perdita di speranza e l’assenza di uno scopo nella vita possono contribuire al declino della salute psicofisica: quando ci sentiamo svuotati, anche il corpo sembra rallentare le sue difese.

Diventa fondamentale chiederci, allora, 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐜𝐨𝐥𝐭𝐢𝐯𝐚𝐫𝐞 𝐥𝐞 𝐚𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐚𝐭𝐢𝐯𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐢𝐭𝐢𝐯𝐞 𝐞 𝐫𝐢𝐝𝐮𝐫𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐩𝐞𝐬𝐨 𝐝𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐧𝐞𝐠𝐚𝐭𝐢𝐯𝐞. La buona notizia è che speranza e ottimismo si possono allenare attraverso specifiche strategie:
𝐃𝐞𝐟𝐢𝐧𝐢𝐫𝐞 𝐨𝐛𝐢𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐢 𝐬𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐭𝐢𝐯𝐢
Avere una direzione chiara dà senso alle nostre giornate. Gli obiettivi non devono essere grandiosi, ma devono contare per noi. È importante che siano specifici, raggiungibili e ancorati nel tempo.
𝐑𝐚𝐟𝐟𝐨𝐫𝐳𝐚𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐟𝐢𝐝𝐮𝐜𝐢𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐞 𝐜𝐚𝐩𝐚𝐜𝐢𝐭𝐚̀
La sensazione di “potercela fare” cresce quando affrontiamo sfide reali e ne usciamo rafforzati. Imparare qualcosa di nuovo, superare un piccolo ostacolo sono tutti modi per alimentare quella forma di fiducia chiamata autoefficacia.
𝐕𝐢𝐬𝐮𝐚𝐥𝐢𝐳𝐳𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐟𝐮𝐭𝐮𝐫𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐮𝐧𝐨 𝐬𝐠𝐮𝐚𝐫𝐝𝐨 𝐜𝐨𝐬𝐭𝐫𝐮𝐭𝐭𝐢𝐯𝐨
Immaginare un futuro desiderabile — senza negare le difficoltà, ma concentrandosi su ciò che può andare bene — aiuta a orientare l’attenzione verso soluzioni anziché blocchi.
𝐂𝐢𝐫𝐜𝐨𝐧𝐝𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐮𝐭𝐫𝐨𝐧𝐨
Il sostegno sociale non solo fornisce conforto nei momenti difficili, ma può diventare un potente catalizzatore di speranza. Le relazioni autentiche ci ricordano che non siamo soli e che esistono strade anche quando non le vediamo.
𝐈𝐦𝐩𝐚𝐫𝐚𝐫𝐞 𝐚 𝐠𝐞𝐬𝐭𝐢𝐫𝐞 𝐢 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐫𝐢 𝐧𝐞𝐠𝐚𝐭𝐢𝐯𝐢
Non si tratta di eliminarli, ma di non identificarci totalmente con essi. La mindfulness, ad esempio, ci insegna a osservare i pensieri come eventi mentali passeggeri, riducendone l’impatto emotivo. La ristrutturazione cognitiva ci aiuta, invece, a mettere in discussione convinzioni disfunzionali e a costruire pensieri più utili.
𝐂𝐨𝐥𝐭𝐢𝐯𝐚𝐫𝐞 𝐥’𝐚𝐮𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐚𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞
Invece di giudicarci per i nostri errori, possiamo imparare ad accoglierli come parte del nostro percorso. Trattarci con la stessa gentilezza che riserveremmo a un amico in difficoltà non solo riduce lo stress, ma rafforza la resilienza.
𝐄𝐬𝐩𝐨𝐫𝐬𝐢 𝐠𝐫𝐚𝐝𝐮𝐚𝐥𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐚 𝐜𝐢𝐨̀ 𝐜𝐡𝐞 𝐭𝐞𝐦𝐢𝐚𝐦𝐨
Affrontare in modo graduale ciò che ci spaventa — anche piccoli gesti come dire “no” o parlare in pubblico — ci aiuta a smontare le paure e a sostituirle con prove concrete della nostra capacità di farcela.

È vero: la mente ha un impatto potente sul corpo. Le aspettative, le emozioni, i pensieri possono influenzare la salute e il benessere. Ma è importantissimo sottolineare che 𝐧𝐨𝐧 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢𝐩𝐞𝐧𝐝𝐞 𝐝𝐚 𝐧𝐨𝐢. Credere che andrà bene può aiutare, ma 𝐬𝐞 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐯𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐭𝐨, 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐜𝐨𝐥𝐩𝐚 𝐧𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚.
Le nostre convinzioni contano, certo — ma contano anche il 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐞𝐬𝐭𝐨 in cui viviamo, le 𝐫𝐢𝐬𝐨𝐫𝐬𝐞 a disposizione, le 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢, la 𝐬𝐚𝐥𝐮𝐭𝐞 e la 𝐟𝐨𝐫𝐭𝐮𝐧𝐚.
Coltivare aspettative positive può migliorare la qualità della nostra esperienza, ma non garantisce il risultato. Ciò che possiamo fare è prenderci cura di noi anche quando le cose non vanno come speriamo, riconoscendo che 𝐥𝐚 𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐞̀ 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐧𝐭𝐞, 𝐦𝐚 𝐧𝐨𝐧 𝐨𝐧𝐧𝐢𝐩𝐨𝐭𝐞𝐧𝐭𝐞.

Grazie per la lettura.

Indirizzo

Via Firenze, 13
Prato
59100

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 20:00
Martedì 09:00 - 20:00
Mercoledì 09:00 - 20:00
Giovedì 09:00 - 20:00
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Perché una Psicologa al tuo fianco

Tempo fa, ad una paziente che mi ha chiesto “Perché hai scelto di studiare psicologia?” ho risposto così:

“Non sono io che ho scelto la psicologia, è la psicologia che ha scelto me”.

Ed è per questo che sono diventata una Psicologa al tuo fianco. E’ per questo che la psicologia è sempre stata una passione che non ho mai smesso di coltivare, dal punto di vista professionale e personale. Oggi la mia mission è aiutarti a ottenere i cambiamenti che desideri dalla tua vita, a modificare quegli aspetti di te e delle tue relazioni che non ti soddisfano, a sviluppare tutto il tuo potenziale.

Eccomi: sono Daniela Sapio, Psicologa clinica e della salute iscritta all’Albo degli Psicologi della Toscana (n. 8388).