Anna Convertini Psicoterapeuta

Anna Convertini Psicoterapeuta Informazioni di contatto, mappa e indicazioni stradali, modulo di contatto, orari di apertura, servizi, valutazioni, foto, video e annunci di Anna Convertini Psicoterapeuta, Psicoterapeuta, Via Sant'Antonio 3/B, Putignano.

Sono una Psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico la cui impalcatura professionale risultata fondata sulla convinzione che, in quanto esseri estremamente complessi, nell’approccio alla Persona è necessario andare Oltre.

L’episodio della violenza di gruppo accaduto qualche giorno fa a Palermo è, ormai, conoscenza di tutti. Sono giorni che ...
06/09/2023

L’episodio della violenza di gruppo accaduto qualche giorno fa a Palermo è, ormai, conoscenza di tutti. Sono giorni che i media ne parlano e non sono mancate interviste a psicoterapeuti e psichiatri. C’è un elemento che mi ha fatto riflettere, più della macroscopica violenza, ovvero la grossa fetta di responsabilità attribuita ai genitori dei sette ragazzi.

Una doverosa premessa è la seguente: in quanto la mia formazione ruota attorno alla psicoanalisi -per la quale fondamentale è il ruolo della figura materna e, in senso più ampio, dei genitori nel percorso di crescita del bambino- credo fermamente che il contesto familiare sia un fattore imprescindibile da considerare. Ma non l’unico.
Si è insistito molto sull’importanza dell’educazione impartita in seno alla famiglia e sull’esigenza di educare i genitori stessi e su questo convengo ma solo parzialmente perché questo tipo di retorica non considera sufficientemente e nel complesso la personalità di ogni singolo ragazzo.

Cos’è la personalità? Vi è generale accordo nel ritenere che la personalità si riferisca a modalità abituali di funzionare a livello psicologico e comportamentale ed è il risultato di due fattori: temperamento e carattere.

Il temperamento è la disposizione innata -e quindi geneticamente determinata- a manifestare reazioni affettive a stimoli ambientali. Il temperamento nasce con ognuno di noi: ci sono infanti più “facili”, docili, inclini a sperimentare emozioni positive e bambini più “difficili”, spesso di cattivo umore.

Il carattere, invece, si riferisce a come una persona reagisce agli eventi esterni e dipende da come le esperienze di vita, le relazioni e l’educazione ricevuta impattano sul temperamento. In sintesi: il rapporto genitore-figlio, il legame tra pari, il sistema culturale, il sistema di valori ricevuti influenzano la predisposizione biologica di ognuno di noi, contribuendo a limarla o modularla. Il temperamento, dunque, è innato; il carattere è culturalmente/socialmente determinato e pertanto si sviluppa pian piano, man mano che si fanno esperienze e può contribuire a smussare (in parte!) il temperamento.

La personalità è, pertanto, in parte geneticamente determinata ed in parte (buona parte) determinata da come il soggetto solitamente pensa, agisce e reagisce a situazioni e persone. Inoltre, la personalità di ogni individuo completa il proprio percorso di maturazione durante l’adolescenza, momento evolutivo connotato da alta conflittualità e ribellione nei riguardi delle figure genitoriali che segna lo spartiacque tra “il bambino”, forgiato dagli adulti di riferimento e la “persona adulta”, contraddistinta da un sistema di valori, credenze, pensieri, propri e personali.

Perché sottolineare tutto questo in relazione alla vicenda di cui sopra?

Perché per quanto i genitori hanno un ruolo cruciale nella formazione del sistema morale e valoriale di ognuno di noi, non sono completamente responsabili di scelte o azioni dei propri figli. È deresponsabilizzante puntare il dito contro mamma e papà perché presuppone che si abbia a che fare con bambini, incapaci di scegliere come comportarsi o di valutare le conseguenze delle proprie azioni quando -dalla maggiore età- ognuno è responsabile di sé stesso. Ciò implica che anche se si è cresciuti in un contesto familiare violento, si può scegliere di prenderne le distanze, si può scegliere di agire diversamente, si può scegliere di essere persone diverse.

Se si prova a googlare “psicologi e pazienti” oppure “psicoterapia”, la maggior parte dei risultati iconografici riporta...
26/06/2023

Se si prova a googlare “psicologi e pazienti” oppure “psicoterapia”, la maggior parte dei risultati iconografici riportano la seguente immagine: paziente e terapeuta seduti l’uno di fronte all’altro e, sulla testa del paziente, tanti fili confusi in disordine mentre sulla testa del terapeuta un gomitolo tutto bello ordinato.

Ci sono almeno 3 motivi per i quali questa rappresentazione visiva della psicoterapia, secondo me, Non è corretta.

Il corpo e tutto ciò che ad esso ruota è il topic più attenzionato: cellulite, troppo magra, troppo grassa, il disagio, ...
08/06/2023

Il corpo e tutto ciò che ad esso ruota è il topic più attenzionato: cellulite, troppo magra, troppo grassa, il disagio, il giudizio, il timore di scoprirsi, disturbo del comportamento alimentare sì/disturbo del comportamento alimentare no e così via.

C’è però un tema meno dibattuto del corpo: il tempo.

Le belle giornate di sole, il caldo, i weekend al mare portano buon umore ma anche la voglia di “far qualcosa”. Massaggi, pressoterapia, trattamenti anticellulite, bendaggi, tisane sgonfianti/snellenti/dimagranti/depurative, intrugli che aiutano a ridurre l’appetito o a bruciare grassi, sedute di estetica con macchinari all’avanguardia e rivoluzionari per perdere rapidamente calorie… questi solo alcuni dei mezzi che vengono utilizzati nel tentativo di arrivare alla famigerata “prova costume” con una forma fisica piacevole per i propri occhi con il rischio, però, di aumentare la possibilità di sentirsi frustrati nonostante l’investimento economico.
Ma che c’entra questo con la psicoterapia?

Il tempo è il minimo comune denominatore. Il cambiamento, sia fisico che psichico, richiede tempo. Il giusto tempo, il proprio personale tempo. Ci sono tante cose che possono essere ottenute in tempistiche più o meno rapide ma altre che non seguono la logica del “tutto e subito”.

È irrealistico pensare di poter vedere cambiamenti fisici dopo qualche trattamento estetico o dopo aver assunto qualche pillola o bustina brucia-grassi, così com’è irrealistico pensare di poter mettere ordine nella propria mente in 3-4 mesi. Spesso quando si suona al campanello di un terapeuta si è già grandi, adulti: com’è possibile, in poche sedute, osservare e maneggiare, momenti più o meno salienti ed intesi che rappresentano l’impalcatura di ogni personalità, accaduti in 20, 30, 40, 50 anni di vita? Ogni psicoterapia dura per il tempo utile al raggiungimento di obiettivi che, anche se non sono esattamente quelli stabiliti nei primi incontri, riguardano un miglioramento nella qualità della vita del paziente.

Per ogni cosa, serve tempo.

C’è un’emozione che più di ogni altra spaventa. È la rabbia. Non tanto la rabbia in sé, quanto piuttosto la sua espressi...
06/05/2023

C’è un’emozione che più di ogni altra spaventa. È la rabbia. Non tanto la rabbia in sé, quanto piuttosto la sua espressione.

Il pianto di protesta del bambino, gli agiti dell’adolescente o la collera dell’adulto vengono sempre tenute a bada quasi come se ogni emozione potesse essere espressa meno che la rabbia. Se fai i capricci vieni sgridato, se ti arrabbi col collega o col partner vieni allontanato. Se esprimi tristezza o felicità vieni accolto o compreso.

Perché la rabbia dell’altro e la propria spaventano così tanto?

L’aggressività altrui a volte spaventa perché fa vibrare delle nostre corde personali, altre perché in alcuni casi sembra così tanto esplosiva da sembrarci incontrollabile e incontenibile e forse è per questo che tendiamo anche ad essere spaventati dalla nostra, tanto da non buttarla mai fuori. La rabbia ci fa sentire cattivi, distruttivi. Spesso diventiamo adulti senza nemmeno aver imparato come gestirla, come poterla esprimere. Tenersela stretta dentro di sè, però, non sempre porta all’obiettivo di tenerla sotto controllo. Quante volte sentiamo “Io tengo, tengo… poi arriva un momento in cui esplodo”?

Non può che essere così. La rabbia è un’emozione nucleare complessa perché va modulata e gestita nella sua esternazione. La rabbia, che sfocia in aggressività, può prendere due possibili strade: l’eterodistruttività, l’autodistruttività. Nel primo caso l’aggressività viene diretta verso gli altri mediante attacchi verbali o fisici -sebbene può assumere anche forme diverse come attacchi invidiosi o svalutanti- nel secondo caso è diretta verso sé stessi e può manifestarsi, per esempio, attraverso pensieri ossessivi, attacchi al corpo, depressione.

La rabbia non va negata ma modulata ed espressa. L’aggressività e la sottostante rabbia rientrano nel processo terapeutico: ci sono volte in cui il terapeuta diviene oggetto di attacchi distruttivi, altre in cui il paziente cerca di proteggerlo dalla propria aggressività non esternandola mai, altre ancora in cui “sfugge” di mano e si presenta mediante agiti apparentemente insignificanti. L’obiettivo del terapeuta in queste -così come anche in altre situazioni- è quello di non negare l’aggressività esperita dal paziente ma portarla alla sua attenzione, discuterne insieme riflettendo anche su ciò che l’ha generata perché spesso è ciò che la scatena anche fuori dal setting clinico.

Sono trascorse poche ore dalla giornata nazionale del fiocchetto lilla, una giornata dedicata alla sensibilizzazione sul...
17/03/2023

Sono trascorse poche ore dalla giornata nazionale del fiocchetto lilla, una giornata dedicata alla sensibilizzazione sull’importante tema dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Trovo che la divulgazione su questa categoria di disturbi sia fondamentale ma…c’è un ma.

Ma quando metti due chili?
He… stai a dieta eppure il gelato te lo sei scofanato!
He, sì, c’ha un bel fisico ma c’ha la cellulite.
Ma non pensi di dover fare una dieta?
Ma perché vai in palestra? Sei magra!
Ma perché non vai in palestra?
Ma guarda che se mangi un po’ di più mica muore qualcuno!
Ma che chiatta!

Che si soffra di un o no, che si sia visibilmente magri o no, che si espliciti di avere un DCA o no ho come la sensazione che di strada dobbiamo farne ancora molta per comprendere quanto frasi simili possano ferire. Feriscono chi ha un disturbo del comportamento alimentare ma feriscono anche chi è magro o grasso perché ha un problema diverso come l’ipotiroidismo, feriscono chi -pur non avendo alcun disturbo del comportamento alimentare- ha qualche conto in sospeso con sè stesso, chi è molto critico con sè, chi tende ad auto-svalutarsi, chi sente di non aver controllo su nulla se non sul proprio corpo o sul cibo.

Il è il luogo dove si incistano memorie traumatiche, il corpo è la casa che abitiamo per tutta la vita, il corpo è mezzo di comunicazione, strumento di lavoro, il corpo è ciò che di più privato, nostro, abbiamo…eppure è anche ciò che di noi finisce sotto gli occhi della gente, ciò che spesso causa dolore. A tutti. Un dolore che assume un significato diverso per ognuno ma sempre dolore è.

“Dottoressa, è davvero molto strano… la sento vicina ma mi chiedo come sia possibile dato che non conosco molto di lei”S...
25/02/2023

“Dottoressa, è davvero molto strano… la sento vicina ma mi chiedo come sia possibile dato che non conosco molto di lei”

Sapersi dare ma sapersi anche dosare. Mi viene in mente questo se penso a come dovrebbe porsi la mia figura professionale non solo con i pazienti ma anche in rete. Credo che il tener fuori (per quanto possibile e non in modo rigido) dalla sfera professionale -reale o online- la propria vita privata non sia un minus ma un plus.

Un passo indietro.

Freud aveva concepito la psicoanalisi come un’impalcatura fondata su 3 principi tecnici: neutralità, astinenza e anonimato dell’analista. L’anonimato ha il fine di tutelare il processo terapeutico e favorire le dinamiche di transfert nonché il trasferimento sull’analista di affetti intensi che il paziente ha sperimentato con una figura significativa del passato. In pratica il paziente rimette in atto con l’analista la relazione passata. L’anonimato protegge il processo analitico perché se l'analista rivela poco di sè, ci sarà scarsa interferenza tra dati in entrata concernenti e provenienti dall’analista e le fantasie generate dal mondo interno del paziente.

Posto che:
-oggi è pressocché impossibile risultare sconosciuti ai pazienti,
-ci disveliamo involontariamente attraverso atteggiamenti, vestiario, arredo dello studio, ecc
-è difficile provare coinvolgimento emotivo verso una persona di cui non si sa nulla la questione diventa: cosa rivelare volontariamente di sé.

Detto diversamente, ciò che diciamo di noi deve essere scelto consapevolmente dall’analista poiché necessario al lavoro insieme. Per esempio: al paziente, così come al possibile fruitore del mio servizio, a cosa serve sapere che ho fatto un intervento chirurgico? Se tale informazione viene riferita in un momento preciso della terapia, con un fine chiaro nella testa dell’analista in quanto utile al lavoro col paziente è un conto ma un terapeuta parla di sè in seduta, ingombrando lo spazio del paziente con le sue esperienze che finalità sta perseguendo? È lì per il paziente o per esibirsi? E se in format divulgativi relativi alla psicologia si sciorina la propria vita privata, che fine si sta perseguendo?

È di ieri l’ennesimo episodio di cronaca nera relativo alla morte di una giovane studentessa universitaria suicidatasi i...
02/02/2023

È di ieri l’ennesimo episodio di cronaca nera relativo alla morte di una giovane studentessa universitaria suicidatasi in Università dopo aver lasciato un biglietto d’addio in cui parla di “fallimenti personali e nello studio”.

TPI -una delle tante testate ad averne parlato- al termine del carosello in cui informa sull’accaduto, conclude con un “Seppur sia superfluo cercare le reali motivazioni che hanno spinto la studentessa a compiere il gesto, la lettera d’addio in cui si parla di una percezione fallimentare della propria vita e del proprio percorso di studio e la scelta di suicidarsi all’interno dell’Università sembrano raccontare ancora una volta il disagio di una generazione schiacciata dal successo e pressata dalla società.”

Per ciò che mi riguarda, gli errori commessi sono due:
• il cuore del problema diventa secondario. Chi se ne frega delle motivazioni per le quali si è suicidata, il fatto è questo. È superfluo cercare di capire i motivi che portano una persona a suicidarsi, ovvio! Infatti la sensibilizzazione si fa con gli articoli di cronaca che additano la società in cui viviamo mica indicando fattori di rischio e possibili cause scatenanti di un agito quale il suicidio!

• il secondo errore è connesso al primo. Quando a morire è un giovane studente la retorica che si costruisce a livello mediatico lega l’estremo gesto alla società competitiva, pressante, spietata, o al “sistema difettoso e iniquo”, come l’ha definito la Deputata Rachele Scarpa. Che il tessuto sociale sia lacerato da dinamiche di questo tipo, però, è un dato di fatto. Il punto è che la società, recita l’enciclopedia Treccani indica “In senso ampio e generico, ogni insieme di individui (uomini o animali) uniti da rapporti di varia natura”. La società è formata da tanti individui, tutti che vivono le stesse dinamiche, quantomeno a livello macro. Dunque… ci sarà pure un motivo per cui non tutti gli studenti universitari si suicidano se, ad esempio, non concludono il percorso accademico negli anni prestabiliti o non si laureano con il massimo dei voti!

Cosa voglio dire?

Che, come sempre, vien più facile guardare al dito e non alla luna. Tutti gli universitari, tutti gli studenti del mondo, popolano una società lacerata ma non tutti decidono di togliersi la vita. Siamo sicuri che “le reali motivazioni” siano “superflue”, allora? Perché a parità di “pressioni” un giovane universitario si toglie la vita e un altro no?
Perché la causa di atti estremi come questo non è “la società”, ma qualcosa di più circoscritto e meno vago. Forse la ragazza era il “cavallo da corsa” della sua famiglia, quello su cui tutti scommettono e comunicare ai propri genitori la riuscita non perfetta del proprio percorso avrebbe destato vergogna oppure sarebbe stato percepito come un duro colpo a chi tanto su di lei credeva. Forse sentiva di non avere via di fuga alcuna, nessun modo per far sentire il proprio malessere se non con un atto estremo. Forse l’ideale di sé troppo alto, l’elevata ambizione, l’estrema auto-severità non le hanno consentito di tollerare un fallimento. Ma fallire è umano e succede.

Con ciò non voglio affatto dire che la società non sia influente in decisioni nette e radicali come questa ma che forse, a monte, c’è qualcosa di più; di più intimo, interno e nascosto che ha a che fare con sé, con le proprie risorse interne, e una cerchia ristretta di persone. Forse, è questo “qualcosa di più” da cui ha origine una maggiore vulnerabilità individuale a reagire in un modo piuttosto che in un altro.

“Buongiorno dottoressa, la contatto perché mio figlio si comporta in X modo, ha Y sintomi e mi sembra Z. Cos’ha?” Tutto ...
31/01/2023

“Buongiorno dottoressa, la contatto perché mio figlio si comporta in X modo, ha Y sintomi e mi sembra Z. Cos’ha?”

Tutto e niente. E non è una risposta dettata da ignoranza, scortesia o necessità di attirare il possibile paziente in studio ma dal fatto che:

• non è possibile fare 2+2=4. La mente umana non è matematica. Un sintomo non fa un disturbo e, tra l’altro, non è detto che ci sia un disturbo.

• è vero che una persona che sta affrontando un momento di difficoltà desta preoccupazione nelle persone care ma è altresì vero che solo lei sa come si sente, cosa prova. Ciò non vuol dire che l’occhio di chi osserva sia “guasto” ma che non è capace di cogliere elementi imprescindibili che il più delle volte contribuiscono a generare la sintomatologia stessa. Il terapeuta di orientamento psicodinamico non lavora sul sintomo ma su ciò che esprime e su ciò che lo origina. Da ciò deriva che ad una domanda quale “Cosa vuol dire che mio figlio ha X, Y e Z?” non si può rispondere: la risposta sarebbe, al più, vicina a quella di un manuale teorico ma lontana dal vissuto soggettivo, unico e peculiare di ogni persona.

• non devo dire io “cos’ha” una persona. La psicoterapia è co-costruzione. Non è l’alterazione comportamentale e/o emotiva in sé a far comprendere al terapeuta cosa chi ha davanti sta vivendo ma la narrativa che ne vien fatta: a cosa il paziente riconduce la sua sintomatologia? I sintomi esperiti causano fastidio e ce ne si vuol liberare o non sono vissuti come invalidanti? Ci sono possibili eventi scatenanti? C’è un prima e un dopo? Da queste ed altre riflessioni iniziali il terapeuta di orientamento psicodinamico si muove nel processo di comprensione e attribuzione di significato. In tutto ciò, però, il terapeuta non lavora da solo: non esiste terapeuta senza paziente, unico e vero conoscitore di sé stesso. Si lavora insieme, si scopre insieme e con cautela si costruiscono ipotesi che potranno in seguito essere riprese, accantonate definitivamente o confermate.

Rispondere alla domanda di partenza -e affini- vuol dire ridurre il dolore di una persona ad una ricetta data dalla sommatoria di ingredienti. Ma il dolore è tutt’altra cosa.

Era da un po’ che non scrivevo contenuti e devo riconoscere che tornare a farlo non è semplice. Ma che modo sarebbe stat...
24/01/2023

Era da un po’ che non scrivevo contenuti e devo riconoscere che tornare a farlo non è semplice. Ma che modo sarebbe stato quello di tornare con un contenuto “informativo” dopo così tanta assenza, come nulla fosse?

Sono convinta che la vita privata di un terapeuta vada lasciata da parte tanto sui social quanto nel setting clinico ma posso però dire senza alcuna vergogna che il cambiamento spaventa e mette a dura prova un po’ tutti. Spesso sento dire “He, ma tu che sei psicologa…”. Il punto è che prima di essere psicologa sono una Persona, come tutti i miei colleghi. Essere psicologi non vuol dire essere immuni da momenti complessi da maneggiare; essere psicologi non vuol dire saper affrontare splendidamente i cambi di rotta improvvisi o momenti emotivamente densi ed intensi; essere psicologi non vuol dire saper tutto sulla vita e su come affrontarla senza vacillare. Anzi… è proprio l’aver vissuto o il vivere determinate esperienze che ci consente di comprendere – e a volte di sentire sulla nostra pelle- ciò che i nostri pazienti ci raccontano. L’ampia gamma di emozioni che tanto sono centrali nel lavoro clinico fanno parte anche della nostra vita; la metamorfosi, il cambiamento fa parte della vita di un terapeuta e chi ha in corso un percorso terapeutico sa bene quanto sia complesso assecondarlo. Son più le volte in cui ci si chiede “E ora?” o “Cosa mi sta succedendo?” che quelle in cui si procede spediti. E poi gli imprevisti…! Chi resta neutrale davanti ad una mitraglietta di imprevisti?

Ecco, la mia vita in questi mesi è stata fatta di tutto questo e tanto altro. È stato un subbuglio di emozioni, di timori… ma anche di cose belle, bellissime. Ma, d’altronde, quando si hanno dei paracaduti belli grandi e robusti atterri sempre meno sciancato di quanto avevi preventivato.

Uno dei miei grandi paracaduti è stato il mio percorso d’analisi. Un altro gigantissimo la mia famiglia.

Tutto ciò per sottolineare quanto noi terapeuti non siamo speciali. Siamo solo Persone con un conto in sospeso con l’inconscio e 10 anni di formazione.

Ci sono giorni in cui quando chiudo alle mie spalle questa porta non riesco a lasciarci dentro la voce dei miei  .

Ci s...
14/09/2022

Ci sono giorni in cui quando chiudo alle mie spalle questa porta non riesco a lasciarci dentro la voce dei miei .



Ci sono giorni in cui torno a casa e la sento ancora. Che sia rotta dal pianto, carica di delusione o rabbia, che sia di fierezza o soddisfazione.



Ci sono giorni in cui questo spazio si riempie di sorrisi o risate condivise e altri in cui non riesco a non commuovermi davanti al dolore che i miei pazienti scelgono di condividere con me.



Ci sono giorni in cui faccio davvero fatica a tenere a freno le mie emozioni dinnanzi alle ingiustizie o ai maltrattamenti che i miei pazienti subiscono, davanti ai loro “Perché, dottoressa?! Perché?!?”.



Ci sono giorni in cui tutti gli insegnamenti sulla neutralità, su come un dovrebbe comportarsi, sul rigore, sull’astensione o sul reggere la frustrazione e l’impotenza vengono messi a dura prova dall’umanità della , dall’essere realmente interessati alla vita dei miei pazienti. I loro luoghi diventano inevitabilmente i miei, la loro vita entra nella mia. A volte mi ritrovo a pensare ai loro pensieri o a chiedermi “Chissà come starà in questo momento…”. Ho sempre pensato che lo studio potesse mettermi al riparo dall’imprevedibilità che questo lavoro porta con sè ma col tempo ho imparato che pure il miglior manuale non saprà farmi sentire sulla pelle la complessità e la potenza emotiva di ogni singolo legame . E forse è un bene perché nessuna tecnica psicoanalitica, nemmeno la più raffinata, sarebbe utile al paziente se quest’ultimo non avvertisse il terapeuta autenticamente interessato a lui, alla sua vita e ai costi emotivi che essa comporta.



Ci sono giorni più duri di altri, in cui esco da questa porta sì con tanti punti interrogativi ma anche con immensa gratitudine nei riguardi di chi, nei momenti più bui, cerca accoglimento in me e un senso di libertà tra queste mura.

Capita di imbattersi in contenuti online a tema depressione che hanno l’obiettivo di far comprendere che non è affatto u...
26/07/2022

Capita di imbattersi in contenuti online a tema depressione che hanno l’obiettivo di far comprendere che non è affatto utile dire a chi ne soffre “Devi reagire” o “Non devi essere triste” perché la depressione non è “a comando” e chi combatte contro di essa non ha una bacchetta magica tale per cui un giorno si sveglia e si dice “Bene, oggi devo darmi da fare e smettere di essere depresso”.

Tutto vero. Non è a suon di incitamenti che si affronta la depressione, non serve spronare chi ne soffre ad avere un atteggiamento positivo e reattivo. È un po’ come dire a chi ha le allucinazioni uditive “Dai, vedrai che smetterai di sentire la voce che ti dice di ucciderti!”. Nessuno lo farebbe mai.

Mentre c’è questa attenzione e sensibilità nei riguardi di alcune condizioni psichiche (e.g. disturbo depressivo maggiore, disturbo bipolare, schizofrenia) e anche una discreta dose di paura che porta chi inizia ad avere i primi campanelli d’allarme a rivolgersi a psicoterapeuti e/o psichiatri, lo stesso non si può dire di condizioni cliniche (apparentemente) meno rilevanti. Assenza di autostima, difficoltà a socializzare o a parlare in pubblico, blocco negli studi sembrano, a volte, problemi da poco. Complice anche l’idea radicata nella società secondo cui la depressione non dipende da te ma le difficoltà con lo studio sì, si tende a cercare soluzioni più rapide. E su questo che i mental coach hanno fatto la propria fortuna: positività, produttività massima, “tutto dipende da te ed è nelle tue mani”, liste, organizzazione.

E quindi perché il dire “Dai, ce la puoi fare!” non cambia la condizione del depresso ma dovrebbe cambiare quella di una persona con una bassa autostima? E se la difficoltà a interagire e il ritiro sociale afferissero a vissuti di vergogna e umiliazione, come si potrebbe star meglio con un atteggiamento positivo? Se il blocco negli studi fosse la deriva di un profondo vissuto di impotenza, in che modo aiuta prefiggersi giornalmente il numero di pagine da studiare e superare i propri limiti? Sicuramente male non farebbe. Ma il cuore del problema resterebbe lì e se si taglia l’albero senza estirpare le radici, l’albero ricrescerà.

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70017

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