22/10/2025
L’UOMO CHE DORME: LA STORIA DEL DETENUTO PAKISTANO DI REGINA COELI CHE IL MONDO HA DIMENTICATO.
Da mesi, all’interno di una cella del carcere di Regina Coeli, nel cuore di Roma, c’è un uomo che dorme.
Ha 28 anni, è pakistano, e il suo corpo vive — ma la sua mente sembra essersi spenta.
È sdraiato sul letto, immobile, gli occhi chiusi. Respira, deglutisce, si muove appena. Mangia e beve in modo meccanico, aiutato dagli infermieri.
Da mesi non parla, non reagisce, non si alza.
Né la luce del giorno, né le voci del corridoio, né i richiami dei medici sembrano raggiungerlo.
Per chi lo assiste, è “il simulatore”.
Così viene chiamato dai compagni di reparto, dal personale, da chi ormai non sa più come interpretare il mistero della sua condizione.
Ma chi lo ha visto da vicino — come Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che ha raccontato la sua storia sul Fatto Quotidiano — sa che la parola “simulatore” non basta, e forse è anche un’offesa.
“Dormiva. O comunque era sdraiato sul letto, a occhi chiusi e immobile”, scrive Marietti.
“L’infermiere mi ha spiegato che dorme sempre. Gli svuota il catetere, gli cambia il pannolone, gli infila un po’ di cibo liquido in bocca. Il ragazzo deglutisce in maniera meccanica. Da mesi”.
Ricoverato più volte all’ospedale Sandro Pertini, visitato da medici e specialisti, non ha mai mostrato segni di malattie organiche.
Nessuna diagnosi, nessuna certezza.
Solo un corpo che dorme, e un sistema che — impotente — lo lascia dormire.
“Hai cambiato il pannolone al simulatore?”, “Va pulita la cella del simulatore”.
Così, giorno dopo giorno, l’uomo che dorme diventa parte dell’arredamento del carcere, una presenza fantasma che nessuno sa come gestire.
⸻ COMMENTO: L’UOMO CHE DORME E LA COSCIENZA DI UN PAESE
C’è qualcosa di profondamente inquietante nella storia di quest’uomo.
Non tanto nel suo misterioso sonno, quanto nel fatto che nessuno sembri più interrogarsi sul significato umano di ciò che accade.
Un detenuto di 28 anni vive in una condizione di “morte apparente” da mesi, in una cella del centro di Roma, e lo Stato — con tutta la sua burocrazia e la sua scienza — non sa che fare.
Lo osserva, lo registra, lo definisce “simulatore”, e poi prosegue.
Come se fosse normale che un corpo umano resti immobile, nutrito a forza, prigioniero due volte: del carcere e dell’indifferenza.
Susanna Marietti ha ragione quando scrive che la colpa non è di nessuno in particolare.
Ma è di tutti, insieme.
Perché in un Paese che tollera che un uomo resti in quelle condizioni senza risposte, qualcosa di profondo si è rotto: l’idea stessa di dignità, di attenzione, di cura.
Che cosa ci dice questo corpo che dorme?
Forse che l’abbandono è la più grande violenza che una società possa infliggere.
Forse che dietro ogni “caso anomalo” c’è una storia di dolore, di solitudine, di traumi che la giustizia penale non sa né leggere né curare.
La definizione di “simulatore” è la sintesi più crudele di questa cecità: ridurre un essere umano a una categoria, a un’etichetta amministrativa, perché comprenderlo costa troppo.
Ma non si può “simulare” la morte dell’anima per mesi.
Non si può fingere di essere assenti dal mondo, se non lo si è davvero, dentro.
E allora l’uomo che dorme diventa una metafora potente del nostro tempo: una società che chiude gli occhi di fronte al dolore, un sistema penitenziario che si limita a custodire corpi invece di curare persone.
Forse un giorno, quel ragazzo si sveglierà.
Forse no.
Ma il suo sonno resterà come un atto d’accusa silenzioso contro un Paese che, pur di non sentire, preferisce addormentarsi anche lui.
In fondo, in ogni carcere, in ogni strada, in ogni istituzione, ci sono uomini e donne che dormono.
Non nei letti, ma nelle coscienze degli altri.