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Anca: Funzione, Patologie e Diagnosi L’anca è una delle articolazioni più importanti del corpo umano, garantendo stabili...
04/12/2025

Anca: Funzione, Patologie e Diagnosi

L’anca è una delle articolazioni più importanti del corpo umano, garantendo stabilità e mobilità durante ogni movimento. Si tratta di un giunto sferico che consente al femore di articolarsi con il bacino, permettendo un’ampia gamma di movimenti e al contempo offrendo una solida stabilità grazie all’incastro tra la testa femorale e la cavità acetabolare (o cotile) del bacino.

Tuttavia, essendo un’articolazione portante, l’anca è sottoposta a pressioni elevatissime durante il suo funzionamento. Per mantenersi efficiente, deve preservare caratteristiche fondamentali quali:

• Una forma perfettamente sferica della testa femorale.

• Un rivestimento cartilagineo spesso e uniforme (in alcuni punti oltre 5 mm).

• Una generosa lubrificazione articolare.

Quando queste condizioni vengono meno, possono insorgere dolori, rigidità e difficoltà motorie che compromettono la qualità della vita.

SEGNALI DI UNA PATOLOGIA DELL’ANCA

Le malattie dell’anca si manifestano generalmente attraverso tre sintomi principali:

1. Dolore (Coxalgia):

◦ Il dolore localizzato all’inguine è il sintomo più tipico, ma può irradiarsi al gluteo o alla coscia fino al ginocchio.

◦ In alcuni casi, il dolore al ginocchio può essere l’unico segnale di una patologia all’anca.

◦ La coxalgia è spesso scatenata dal movimento o dal carico e può indicare condizioni come coxartrosi, conflitto femoro-acetabolare o necrosi cefalica.

2. Rigidità:

◦ La riduzione della mobilità è un segno invalidante che rende difficili attività quotidiane come indossare calze o scarpe.

◦ Nelle fasi avanzate, la rigidità può causare una postura alterata, come camminare con la punta del piede rivolta verso l’esterno.

3. Zoppia:

◦ La zoppia si verifica quando il dolore rende difficoltoso camminare. Questo meccanismo di protezione, noto come “zoppia di fuga”, riduce l’appoggio sull’arto dolente.

COME DISTINGUERE I DOLORI DELL’ANCA DA ALTRE PATOLOGIE?

Un’articolazione dell’anca malata può essere confusa con altre problematiche. Ad esempio:

• Dolore posteriore alto: Spesso attribuibile a patologie della colonna vertebrale o dell’articolazione sacroiliaca.

• Dolori localizzati (borsiti o tendiniti): Quando il dolore si concentra su protuberanze ossee, come il grande trocantere, è probabile che siano coinvolti i tessuti molli circostanti e non l’articolazione in sé.

DIAGNOSI: STRUMENTI E PROCEDURE

Per identificare una patologia dell’anca, la radiografia è il primo esame diagnostico consigliato. In particolare:

• Una radiografia frontale del bacino associata a una radiografia assiale dell’anca dolente consente una valutazione completa e comparativa.

• La proiezione deve includere tutto il bacino, garantendo una visione dettagliata delle strutture articolari.

Esami avanzati come TAC, risonanza magnetica ed ecografia possono essere richiesti solo in casi specifici, poiché sono più costosi e, nel caso della TAC, comportano una maggiore esposizione ai raggi X. La decisione di eseguire ulteriori indagini deve essere affidata all’ortopedico.

PERCHÉ È IMPORTANTE UNA DIAGNOSI PRECOCE?

Riconoscere tempestivamente una patologia dell’anca consente di:

• Ridurre il dolore e migliorare la qualità della vita.

• Evitare complicazioni che possono richiedere interventi chirurgici complessi.

• Ripristinare la funzionalità articolare attraverso trattamenti specifici.

Se sospettate una problematica all’anca, consultare un medico e sottoporsi a esami radiografici corretti può abbreviare il percorso verso la guarigione.

Traumi più comuni del piede dell’atleta Le statistiche affermano che circa il 70% degli atleti hanno subito o subiranno ...
30/11/2025

Traumi più comuni del piede dell’atleta

Le statistiche affermano che circa il 70% degli atleti hanno subito o subiranno un trauma ai piedi. Anche se la maggior parte dei traumi potranno sembrare di lieve entità, se vengono trascurati e non propriamente trattati, essi potranno diventare problematiche più serie nel tempo. L’80% dei traumi sono dovuti ad errori di allenamento, il resto ad infortuni. La vulnerabilità del piede risulta evidente se si considera che eseguono 800 battute ogni 1.600 metri di corsa e che ad ogni falcata il peso corporeo inciderà dalle 3 alle 8 volte.

Ad ogni allenamento e ad ogni gara sono tonnellate di carico e spinta che si esercitano sulle articolazioni dei piedi ma anche sulle articolazioni degli arti inferiori. Certamente correre fa bene ed è salutare, ma è opportuno non sottovalutare gli eventuali disturbi e/o dolori.

Le patologie più comuni che affliggono i piedi dell’atleta sono:

– La sindrome da stress di Shin Splints caratterizzata da un dolore che si manifesta alla tibia sulla faccia anteriore e/o mediale. Gli atleti più a rischio che possono essere afflitti da questo disturbo sono quelli più giovani, in quanto non ancora abituati allo stress prolungato della corsa; sono anche a rischio quegli atleti che non eseguono un appropriato stretching prima di correre. Per alleviare questo disturbo l’atleta dovrebbe eseguire delle applicazioni di ghiaccio, diminuire il carico degli allenamenti, rinforzare gradualmente la muscolatura con esercizi mirati: nuoto e/o cyclette ad esempio. In ogni caso si rende necessario mantenere in allenamento il fisico, senza provocare ulteriore carico. In acqua infatti non c’è gravità e sulla cyclette il peso corporeo non incide sugli arti inferiori in quanto ci si allena stando seduti. Se il disturbo non dovesse estinguersi, sarà necessario riposo totale ed eventualmente il consulto con uno specialista (medico sportivo, osteopata), evidentemente per modificare alcuni aspetti biomeccanici nella corsa.

– L’infiammazione del tendine d’Achille , causata da vari fattori che contribuiscono allo sviluppo di questa tendinopatia. Corse prolungate su falsipiani in cui si creano i presupposti ad una eccessiva ipertrofia ed ipertonia muscolare dei polpacci che solleciteranno a dismisura il tendine. Calzature non idonee. Appoggio scorretto del piede durante la corsa (disfunzione biomeccanica).Pertanto l’atleta deve necessariamente ridurre se non addirittura interrompere gli allenamenti. Eseguire applicazioni di ghiaccio, stretching moderato e controllato. Utilizzare calzature con tacco o piccolo rialzo calcaneare bilaterale per accorciare e quindi de tendere l’Achilleo soprattutto nella fase di carico.
Nei casi in cui il dolore e quindi l’infiammazione acuisce, ci si adopera con terapia farmacologica (farmaci antinfiammatori e/o decontratturanti, comunque a discrezione del medico) e una volta regredita la fase acuta, va eseguita la fisioterapia per accelerarne i tempi di recupero: laser, tens, cryo, ultrasuono terapia, T.E.C.A.R. (utile ecografia di controllo). Successivamente una volta scomparso il dolore, si passa al ricondizionamento del gesto atletico con carichi graduali.
Alcuni atleti possono riportare dei quadri clinici più importanti in cui, attraverso il supporto di un esame strumentale come l’ecografia, si possono evidenziare micro lesioni come da sfilacciamento di alcune fibre tendinee o calcificazioni (dolorose) in seguito a reiterati traumi mal gestiti e/o trascurati. In alcuni di questi casi potrebbe rendersi necessario il trattamento con onde d’urto. Rari i casi di intervento di neurolisi (pulizia del tendine).

– La tallonite : spesso provocata da traumi diretti, da spina o sperone calcaneare o da una fascite. Queste condizioni morbose sono spesso la conseguenza di eccessivi carichi sulla fascia plantare, che si estende dal calcagno alle dita del piede. Soprattutto ai primi passi, al mattino, la zona può essere molto dolorosa. Questa condizione può causare rigonfiamento in corrispondenza della zona inserzionale del calcagno. Il dolore si acutizza soprattutto quando il piede si appiattisce nella fase di carico o quando si spinge in avanzamento. Tali disturbi si manifestano più facilmente in quei soggetti con piedi piatti e flessibili o al contrario in quei soggetti con piedi cavi e rigidi.
È necessario ridurre la durata e l’intensità della corsa, usare calzature idonee con plantare antichoc da sostituire periodicamente a seconda del tipo di attività svolta (mediamente anche ogni 2-3 mesi), in quanto l’usura riduce drasticamente il coefficiente di scarico.
Diventa fondamentale il lavoro svolto dal preparatore atletico a scopo preventivo come anche per la ripresa dell’attività fisica. Ai giorni di duro allenamento vanno alternati giorni di defaticamento: la distanza in chilometri dovrebbe essere aumentata soltanto del 10% circa ogni settimana, per poi essere ridotta ogni tre settimane.
Per recuperare al meglio e nel minor tempo possibile la funzionalità del piede, oltre alla riduzione dei carichi di lavoro, le ore di allenamento e l’utilizzo di calzature appropriate, ci si dovrà adoperare anche con la fisioterapia: laser, ultrasuoni, T.E.C.A.R., crioterapia, stretching, esercizi di scarico. Terapia farmacologica a discrezione del medico.

Le fratture da stress sono piccole lesioni ossee che interessano in modo peculiare coloro i quali praticano sport ripetitivi come il podismo, il tennis, la pallavolo, pallacanestro, calcio, atletica.

Per comprendere i fattori predisponenti occorre sapere che l’osso è un tessuto vitale che come gli altri ha un metabolismo molto attivo che va incontro a continui rimodellamenti sulla base dello stato metabolico dell’organismo (livello di calcio presente nel sangue) e degli stimoli meccanici a cui viene sottoposto. In pratica, affinché il tessuto osseo possa rigenerarsi, esistono tipi di cellule (gli osteoclasti) che lo demoliscono e cellule (gli osteoblasti) che lo ricostruiscono; questo genera un continuo ricambio della matrice minerale che si mantiene in equilibrio con due scopi: mantenere costante il livello di calcio e riadattare l’osso al tipo di sollecitazioni a cui è sottoposto. In sostanza se l’allenamento e le sollecitazioni meccaniche superano la capacità dell’osso di rigenerarsi e/o di riparare le microlesioni, queste si trasformeranno in vere fratture.

In ordine di frequenza avremo fratture del colletto del 2° metatarso, tipico di quei soggetti con il secondo dito del piede più lungo e fratture delle base del 5° metatarso, più comune in quei soggetti che atteggiano il piede supinato cioè poggiano maggiormente il margine esterno della pianta del piede.

I fattori di rischio oltre a quelli da imputare al tipo di sport praticato, sono anche quelli quando improvvisamente ci si dedica ad intensa attività fisica dopo un lungo periodo di sedentarietà. Altri fattori di rischio sono ad esempio nelle donne il ciclo mestruale. L’osteoporosi nei soggetti debilitati.

Cura e prevenzione. Le cure variano a seconda della posizione della frattura e da quanto sia necessario un rapido recupero alla ripresa dell’attività fisica.
Pertanto in linea generale si eseguiranno: terapia farmacologica, a discrezione del medico, fondamentalmente a base di acetaminofene per il dolore e farmaci a base calcica. Riduzione del carico, utilizzando anche stampelle canadesi e in casi più gravi immobilizzazione con gambaletto gessato. In rari casi si pratica l’intervento chirurgico allorquando si accerti che il consolidamento della frattura sia difficile a causa della scarsa vascolarizzazione di quel segmento di osso fratturato.

Fisioterapia con: magnetoterapia, ultrasuoni, T.e.c.a.r.

Sarà a discrezione del Fisioterapista valutarne le modalità, la durata ed i parametri di applicazione delle su dette terapie strumentali a seconda di come si presenta il quadro clinico. Dicasi allo stesso modo per quanto concerne la fase successiva in cui si renderà necessario un programma riabilitativo con esercizi propriocettivi i quali mireranno al recupero del passo; graduale ricondizionamento al gesto atletico che comprenderà tutta una serie di modalità al fine di riabituare il piede ai carichi ed allo stress atletico.

A scopo preventivo, sarebbe opportuno adoperarsi per una sana e corretta alimentazione nella quale non dovrà mancare un equilibrato apporto di calcio e altri nutrienti con integratori per mantenere ossa più forti; se necessario apportare modifiche al gesto atletico; utilizzare calzature adeguate all’attività che si vuol praticare, sostituendole con un nuovo paio periodicamente.

Tendinite d’Achille, cos’è e come si curaL’infiammazione del tendine d’Achille, spesso usata come sinonimo di tendinopat...
30/11/2025

Tendinite d’Achille, cos’è e come si cura

L’infiammazione del tendine d’Achille, spesso usata come sinonimo di tendinopatia del tendine d’Achille è una condizione patologica che colpisce il più grande tendine del nostro corpo.

Il tendine d’Achille si estende dal calcagno (tallone) ai muscoli del polpaccio.

Alla palpazione è facilmente percepibile come una fascia di consistenza elastica a livello della parte posteriore della caviglia, subito al di sopra del tallone.

Le condizioni infiammatorie e/o gli infortuni a carico del tendine d’Achille sono più frequenti negli atleti, sebbene possano occorrere in tutti i soggetti nel semplice svolgimento delle attività della vita quotidiana.

Un lieve dolore al tendine d’Achille di tipo “urente” associato a una sensazione di “rigidità” percepita in questa zona può significare che il tendine di Achille è infiammato.

In questi casi può essere sufficiente un periodo di riposo e l’uso di anti-infiammatori, sistemici o topici.

Se l’infortunio è grave e il dolore è percepito improvvisamente come un colpo netto nella parte posteriore della caviglia allora può significare che il tendine d’Achille si è parzialmente strappato o addirittura completamente rotto: in questi casi è sempre necessaria una valutazione specialistica.

In alcuni casi selezionati è possibile ricorrere all’intervento chirurgico per riparare i tessuti danneggiati.

CAUSE

Alcune delle cause che portano a un infortunio al tendine d’Achille sono:

• attività fisica troppo intensa o esagerata rispetto al livello di attività fisica a cui si è abituati

• l’abitudine a portare tacchi alti, poichè questo tende a sollecitare continuamente il tendine

• alcune conformazioni del piede: avere un piede piatto ad esempio causa una maggiore tensione sul tendine durante la camminata

• alcuni farmaci possono essere tossici verso i tessuti tendinei

• praticare attività con cambi repentini di ritmo, velocità e salti: ad esempio danza, calcio, pallacanestro…. o il velocista che scatta dai blocchi di partenza!

• l’età e il sesso: sono maggiormente a rischio gli uomini di età superiore ai 30 anni

• Sintomi

Il sintomo principale dell’infiammazione del tendine di Achille è il dolore localizzato nella regione al di sopra del tallone ed è esacerbato dai movimenti che prevedano movimenti che mettano in tensione il tendine come mettersi in punta dei piedi.

Il dolore è scatenato anche dalla pressione diretta sulla zona. Una vera e propria rottura del tendine di Achille è associata a un dolore fortissimo e immediato.

Si associa inoltre una notevole diminuzione della forza muscolare: essa può essere lieve e migliorare o peggiorare nel tempo.

Altri segni sono il gonfiore, la rigidità, la presenza di scricchiolii quando si tocca o si muove il tendine, la tendenza all’arrossamento e l’aumento del calore a livello della cute sovrastante il tendine danneggiato.

E’ buona norma non muovere o sforzare la zona perché si corre il rischio di arrivare alla rottura del tendine d’Achille.

TENDINITE D’ACHILLE E MORBO DI HAGLUND

Non infrequentemente la tendinopatia dell’achilleo può assorciarsi ad un’altra condizione clinica, il Morbo di Haglund, una prominenza ossea dell’angolo postero-superiore del calcagno, a livello del sito di inserzione del tendine achilleo all’osso del calcagno. Per approfondimento si rimanda alla lettura del seguente articolo: morbo di Haglund.

QUANDO RIVOLGERSI A UN MEDICO

Conviene rivolgersi a uno specialista in caso di dolore al tendine o di dolore al calcagno per avere una diagnosi tempestiva e l’indicazione al trattamento più indicato.

Il fisiatra o l’ortopedico sono i medici specialisti più qualificati per diagnosticare e porre l’indicazione al trattamento delle lesioni del tendine d’Achille.

In caso di dolore acuto c’è il rischio di aver rotto il tendine d’Achille ed è opportuno ricorrere subito a cure mediche.

DIAGNOSI

La diagnosi di tendinopatia del tendine d’Achille parte dalla clinica, dalla visita medica. Il medico valuterà la presenza di segni di infiammazione o di rottura, la presenza o meno di impotenza funzionale, la mobilità del piede, la sensibilità, la forza.

A completamento diagnostico è possibile eseguire esami strumentali quali radiografia, ecografia o risonanza magnetica.

CURA E TERAPIA

In caso di infiammazione del tendine d’Achille può essere consigliato:

• interrompere qualsiasi tipo di attività fisica che interessi l’area

• applicare del ghiaccio 3 o 4 volte al giorno per 20 minuti sulla zona dolorante per ridurre il gonfiore e il dolore

• applicare degli antiinfiammatori locali

• eventuale applicazione di un bendaggio per ridurre il gonfiore

• tenere la gamba sollevata per favorire la riduzione del gonfiore

Solitamente non sono necessari trattamenti complessi, occorre soprattutto avere molta pazienza.

Per ottimizzare la guarigione e prevenire ricadute può essere utile eseguire esercizi di stretching che verranno consigliati dal medico.

TEMPI DI GUARIGIONE

La prognosi dipende dalla gravità della lesione.

Nei casi più gravi possono essere necessari anche alcuni mesi.

Durante la riabilitazione si può comunque essere attivi, il medico (fisiatra) vi indirizzerà correttamente verso le attività che potete svolgere.

E’ importante non cercare di affrettare le cose: spingere troppo prima della completa guarigione potrebbe portare a una riacutizzazione dell’infiammazione e a un nuovo infortunio.

PREVENIRE L’INFIAMMAZIONE DEL TENDINE D’ACHILLE

Alcune buone abitudini sono:

– Ridurre corsa in salita preferendo tracciati pianeggianti.

– Effettuare un buon riscaldamento prima dell’esercizio.

– Indossare scarpe con un buon supporto e che si adattano bene al proprio piede: scarpe usurate possono perdere le capacità di sostegno del piede.

– Aumentare gradualmente l’intensità dell’attività fisica.

– Interrompere l’esercizio se si sente dolore o senso di oppressione nella parte posteriore del polpaccio o al tallone.

Quando la rigidità (stiffness) è una disfunzione Osteopatica di Renato Chiari,  D.O. B.Sc., M.Sc.Esiste un tratto comune...
27/11/2025

Quando la rigidità (stiffness) è una disfunzione Osteopatica

di Renato Chiari, D.O. B.Sc., M.Sc.

Esiste un tratto comune che unisce disturbi e sindromi come l'artrite reumatoide, la fibromialgia, l'ipertensione epatica, l'ipertensione arteriosa e il Parkinson: si chiama rigidità. Insufficiente la definizione del “dizionario di medicina” Treccani, per il quale trattasi della “Perdita della motilità attiva o passiva per lesione di una articolazione, come nelle anchilosi, o per uno stato di ipertonia muscolare…”, la rigidità è un termine che tutti noi operatori di terapia manuale diamo molte volte per scontato senza conoscerne appieno il significato etimologico né quello diagnostico.
Prima di essere una caratteristica organica, la rigidità ("stiffness" in inglese) è una proprietà fisica misurabile dei materiali (compreso il materiale organico) e più precisamente è la capacità che ha un corpo di opporsi alla deformazione elastica provocata da una forza applicata. (In generale si dovrebbe usare il termine rigidezza quando si parla di una struttura, di rigidità quando si parla di un materiale, ma per semplicità useremo solo “rigidità”). Il suo contrario è flessibilità (o flexibility).

La rigidità è determinata:

• dal materiale, proprietà estensiva, e cioè dalla quantità e dal tipo di materiale;

• dalla forma della struttura, che riesce a conferire una diversa rigidità a parità di materiale, come nel caso di un tubo ovale o rotondo;

• dai vincoli a parità di forma e materiale (p.e. si ha una maggiore rigidezza di un palo vincolato ai due estremi, piuttosto che a un estremo solo) [Wenham 2001].

LA RIGIDITÀ IN OSTEOPATIA

Questa proprietà può essere applicata a tutti i materiali e strutture ed anche al tessuto biologico; per valutarne l'importanza dell'impatto nel mondo osteopatico si rende necessaria una sua contestualizzazione all'interno della diagnosi osteopatica.
La diagnosi osteopatica si pone principalmente due obiettivi:
A. elaborazione di una diagnosi differenziale allo scopo di valutare la competenza del trattamento;
B. individuazione delle disfunzioni somatiche

e si basa in sintesi su tre fattori:

1. l'anamnesi;

2. la valutazione visiva;

3. la palpazione osteopatica.

Le prime due sono patrimonio di ogni esame obiettivo in qualsiasi ambito medico, ma la terza (la palpazione) è altamente caratterizzante della figura dell'osteopata, enfatizzata dalla pratica e dall'ambiente osteopatico. Tale prezioso elemento diagnostico si basa a sua volta e in ogni momento sulla valutazione di due fattori principali:

1. bilanciamento termico;

2. bilanciamento, esperienzale e soggetto-dipendente di una proprietà fisica dei materiali: la rigidità o stiffness (e il suo opposto flessibilità).

Organicamente la rigidità potrà essere determinata :

• dalla quantità di tessuto e dal tipo di tessuto stesso ( p.e. dalla concentrazione del collagene, dalla congestione di un muscolo, dalla disposizione delle proteine di titina ecc.);

• dalla forma della struttura, che riesce a conferire una diversa rigidità a parità di materiale (come nel caso di una cifosi);

• dai vincoli a parità di forma e materiale, vincoli che possono essere mio tendinei, articolari, connettivali: più ce ne sono o più forti sono e più il comparto è rigido.

QUANDO LA RIGIDITÀ È DISFUNZIONALE

A partire dal citoscheletro (Ingber,1998), l'organismo umano è caratterizzato da strutture di tensegrità. Il termine inglese Tensegrity, (coniato nel 1955 dall'architetto Richard Buckminster-Fuller, dalla combinazione delle parole tension e integrity) caratterizza la capacità di un sistema di stabilizzarsi meccanicamente utilizzando contemporaneamente forze di tensione e di compressione. Compressioni e trazioni si equilibrano all'interno di un sistema vettoriale chiuso. �Le strutture di tensegrità sono costituite da barre rigide e cavi flessibili. I cavi costituiscono una configurazione continua che comprime le barre disposte in maniera discontinua in seno ad essa. Le barre, a loro volta, spingono verso l'esterno i cavi. In una struttura di tensegrità la resistenza dell'insieme supera di molto la somma delle resistenze dei singoli componenti, tanto che, rispetto ad una struttura a compressione e a pari capacità di resistenza meccanica il peso è circa la metà ela flessibilità è simile a quella di un sistema pneumatico; in tale sistema gli effetti delle forze di deformazione locale vengono modulati dall'intera architettura.
L'interconnessione meccanica e funzionale di tutti gli elementi costitutivi consente una continua comunicazione bidirezionale al pari di un vero e proprio network. A livello macroscopico, nell'organismo animale, gli assi rigidi (le barre) sono costituiti dalle ossa e le strutture flessibili (i cavi) dal sistema mio fasciale.

La tensegrità animale, al contrario di quella vegetale, è variabile e adattativa, si attivano cioè mappe e schemi per creare e variare i poligoni di resistenza tensegritiva, riorganizzando le strutture osteo-connettivali secondo la funzione che si appresta a compiere, trasformando le mappe, che fanno parte delle rappresentazioni cerebrali del movimento, o engrammi motori, in codice nervoso che, attraverso la via tronco-encefalica e poi midollare, arrivano ai motori muscolari periferici; questa riorganizzazione aumenta in maniera transitoria e fisiologica la rigidità (stiffness) della struttura in funzione. Un esempio di funzione tensegritiva è la manovra di Valsalva nell'azione del sollevamento pesi: la contrazione sinergica dei muscoli dell'addome e degli altri muscoli respiratori trasforma la cavità addominale in una vera e propria camera gonfiabile, racchiusa da pareti molto rigide e resistenti; alcuni studi hanno dimostrato che questa azione permette di aumentare sensibilmente l'efficacia della leva di estensione del tratto lombare (Essendrop et al.2004).

La messa in tensione di specifiche strutture sta alla base del movimento di qualità, ma un irrigidimento delle strutture diaframmatiche si rende indispensabile anche per l'esecuzione di un piccolo passo. All'aumentare della richiesta di velocità, potenza o precisione, la struttura corporea deve aumentare l'offerta di stabilità.
Al termine della funzione la rigidità decade, se al termine della funzione la rigidità non dovesse decadere si strutturerà una rigidità (o stiffness) disfunzionale.

In ogni momento l'osteopata bilancia lo stato del tessuto valutando più livelli, dal più superficiale al più profondo, e più strutture, dalla più semplice alla più complessa. Egli esprime perciò una diagnosi palpatoria riferendosi ad uno stato di rigidità (stiffness) che riguarda la fascia, i visceri, i muscoli, le articolazioni, le ossa, e le strutture complesse come per esempio il complesso C0-C1-mandibola della testa.

Le disfunzioni possono essere determinate da cambiamenti della natura del materiale (alterazioni metaboliche), della forma (asimmetrie), o dei vincoli (restrizioni di mobilità); tutte comporteranno una variazione nel senso restrittivo della rigidità (stifness). Il percorso didattico-esperienziale dell'osteopata lo porta a riconoscere uno stato di rigidità anomala che possiamo definire RIGIDITA' DISFUNZIONALE.

Ogni Rigidità disfunzionale racchiude in sé le evidenze della “disfunzione somatica”:

• restrizione di movimento/mobilità;

• asimmetria anatomica;

• alterazione della qualità tissutale o del tono dei tessuti molli.

Possiamo perciò affermare che la RIGIDITA' DISFUNZIONALE è una disfunzione somatica e può essere effetto e allo stesso tempo causa di una restrizione di mobilità.

Attività fisica contrasta danni causati da artrite alla cartilagine L’attività fisica è in generale una manna dal cielo ...
27/11/2025

Attività fisica contrasta danni causati da artrite alla cartilagine

L’attività fisica è in generale una manna dal cielo per il corpo e gli studi che ne sottolineano i benefici sono pressoché giornalieri.
Una nuova ricerca, questa volta portata avanti da un gruppo di ricercatori della Queen Mary University di Londra, conferma che l’esercizio fisico può contrastare anche il deterioramento della cartilagine causato dall’artrite.

Lo studio, apparso su Osteoarthritis and Cartilage, dimostra che il movimento e lo sforzo possono portare a vari benefici sui tessuti che sono alla base delle articolazioni. Nel corso dell’attività fisica, infatti, la cartilagine che è presente nel nostro corpo tra le articolazioni, in particolare tra l’anca e in ginocchio, viene letteralmente schiacciata.
Proprio questo “schiacciamento” fa sì che le cellule della cartilagine vadano a bloccare l’azione delle molecole che a loro volta portano all’infiammazione e dunque all’artrite.

Quello dell’attività fisica, dunque, è vero e proprio fenomeno antiinfiammatorio perché va ad attivare la proteina HDAC6.
Esistono vari farmaci che sono in grado di imitare questi particolari benefici dovuti all’esercizio ma è inutile specificare che, se è possibile, fare dell’attività fisica risulta di gran lunga la soluzione migliore.

Secondo Martin Knight, uno dei ricercatori che hanno prodotto lo studio, queste informazioni sono importanti perché servono a prevenire malattie arteriose come l’arteriosclerosi e l’aneurisma.
Inoltre queste stesse informazioni potrebbero portare ad un nuovo approccio terapeutico nel contesto della cosiddetta meccanomedicina (mechanomedicine) in cui farmaci cercano di simulare l’effetto delle forze meccaniche per prevenire soprattutto danni relativi alle infiammazioni.

Operarsi al menisco dopo i 65 anni? Non ne vale la pena Gli esercizi e la fisioterapia darebbero gli stessi risultati, e...
21/11/2025

Operarsi al menisco dopo i 65 anni? Non ne vale la pena

Gli esercizi e la fisioterapia darebbero gli stessi risultati, eppure molti pazienti scelgono il bisturi per alleviare i dolori al ginocchi. Nel 2015 negli Stati Uniti sono stati effettuati 122mila interventi di meniscectomia parziale artroscopica in persone con più di 65 anni di età che beneficiano del programma di assicurazione Medicare. E, secondo numerosi studi, sarebbero proprio loro, le persone non più giovani, a trarre meno benefici dall’operazione al menisco.

Per i ricercatori della Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora il divario tra le evidenze scientifiche e l’attuale prassi ortopedica merita di essere approfondito. Da qui è nato lo studio appena pubblicato su Jama Surgery che indaga sulla popolarità della meniscectomia parziale artroscopica (Apm), la procedura chirurgica più diffusa nel mondo effettuata con lo scopo di rimuovere la sola parte lesionata del menisco. L’efficacia della Apm in pazienti anziani con lesioni degenerative del menisco era stata messa in discussione nel 2014 dallo studio Fidelity (Finnish Degenerative Meniscal Lesion Study) secondo il quale l’operazione non assicurava benefici superiori a quelli della fisioterapia. Le prove a favore dell’intervento chirurgico si ottengono solamente per un ristretto numero di pazienti con lesioni acute da trauma che generalmente riguardano pazienti giovani che, dato non trascurabile, non beneficiano dell’assicurazione Medicare.

«Il nostro studio – ha dichiarato alla Reuters Martin Makary autore senior dello studio – dimostra che la procedura resta estremamente comune in pazienti anziani. Eppure i suoi benefici sono limitati a un numero piccolo di pazienti che generalmente sono più giovani».

I ricercatori hanno notato che i due terzi delle operazioni al ginocchio vengono condotte con lo scopo di rimuovere solamente la parte lesionata del menisco senza intervenire sui legamenti o sulla cartilagine. E ciò accade indipendentemente dall’esperienza del chirurgo. Tra i medici che hanno al loro attivo un gran numero di interventi al ginocchio, il 13 per cento non ha mai svolto un lavoro di riparazione aggiuntivo quando ha eseguito una meniscectomia parziale artroscopica.

I ricercatori ammettono di non avere dati sufficienti per comprendere come mai così tanti pazienti anziani scelgano di sottoporsi a un’operazione che molto probabilmente non risolverà i loro problemi.

È possibile che tanto i dottori quanto i pazienti ignorino le recenti pubblicazioni scientifiche che dimostrano la mancanza di efficacia dell’intervento. Oppure, ipotizzano gli scienziati, è possibile che pur conoscendo i dati, siano in disaccordo sulla loro interpretazione. Infine c’è chi si convince di essere l’eccezione che conferma la regola, il caso particolare in cui l’operazione effettivamente possa essere risolutiva.

«Nonostante le prove – ha detto alla Reuters Jonas Bloch Thorlund, ricercatore i medicina dello sport alla University of Southern Denmark che non è coinvolto nello studio – continua a esserci una forte convinzione tra i chirurghi e i pazienti che l’intervento chirurgico sia efficace».

Non si può negare che molti pazienti dopo l’intervento stiano effettivamente meglio. Ma ciò potrebbe dipendere dall’effetto placebo, da un naturale miglioramento oppure da un fenomeno noto in statistica come “regressione verso la media”: il livello di dolore misurato alla prima visita si riduce con il tempo mantenendosi a valori medi.

In conclusione, i ricercatori invitano i pazienti con lesioni degenerative del menisco a sottoporsi a sedute di fisioterapia e a una dieta per perdere peso. Restando lontani dalla sala operatoria.

Indirizzo

Via Dei Gullotto 47
Randazzo
95036

Orario di apertura

Lunedì 08:00 - 20:00
Martedì 08:00 - 20:00
Mercoledì 08:00 - 20:00
Giovedì 08:00 - 20:00
Venerdì 08:00 - 20:00

Sito Web

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