02/09/2025
Mia sorella è morta a otto anni, davanti ai miei occhi.
Un guidatore ubriaco passò con il rosso mentre attraversavamo la strada.
Io sono sopravvissuto per un passo. Lei no.
Da quel giorno, in casa mia il silenzio è diventato regola.
I miei genitori smisero di parlare, di ridere, di vivere.
A pranzo la televisione copriva ogni rumore, a cena nessuno diceva una parola.
Non siamo mai stati ricchi, ma con lei tutto sembrava più leggero.
Quando se n’è andata, la vita si è spenta poco a poco.
Mio padre ha cominciato a bere.
Mia madre è diventata un’ombra: cucinava senza sale, fissava il vuoto dalla finestra.
Io avevo dieci anni. E anche se respiravo ancora, era come se non esistessi più.
A tredici ho smesso di mangiare.
Non per vanità, ma perché dentro ero vuoto e il cibo non aveva più sapore.
Un giorno sono svenuto in classe. Ho dato la colpa alla colazione.
Non ho mai detto altro.
A quattordici anni ho iniziato a scrivere lettere che non spedivo mai.
“Mi manca mia madre com’era una volta.”
“Sento che se morissi non sarebbe così grave.”
“Ho paura di diventare qualcuno che guarda la sua vita da lontano.”
A quindici anni mi hanno diagnosticato una grave depressione.
Mia madre piangeva, mio padre non si presentò nemmeno all’appuntamento.
Mi diedero delle pillole, ma nessuno mi abbracciò.
Mi dissero soltanto: “Devi sforzarti, capita a tutti di essere tristi.”
Così imparai a fingere di stare meglio.
La notte del 21 luglio è stata la peggiore.
Non per un fatto preciso, ma per tutto ciò che si era accumulato.
Mi chiusi in bagno. Non per morire, ma per sparire.
Mi sedetti nella vasca, chiusi gli occhi… e mi addormentai.
Quando mi svegliai ero in ospedale.
C’era solo mia madre, con lo sguardo smarrito.
Le dissi:
“Non volevo morire. Volevo solo che qualcuno si accorgesse che stavo morendo dentro.”
Fu la prima volta che mi ascoltò davvero.
Da lì iniziò un cammino.
Terapia familiare. Passeggiate. Lacrime che non potevamo più ingoiare.
Non fu magia, ma un processo.
Oggi ho ventidue anni e lavoro come psicologo clinico.
Quando un ragazzo mi dice:
“Non so perché mi sento così solo”,
io penso sempre la stessa cosa:
“Lo sai. È solo che nessuno ti ha mai insegnato a dirlo.”
Perché ci sono ferite che non sanguinano.
Ferite che urlano piano, ogni giorno.
Finché qualcuno non decide di ascoltarle.
— Andres Molina
Piccole Storie