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15/02/2025

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03/04/2022
Serena e Felice Pasqua
12/04/2020

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28/12/2019

Mi chiamo Vlade Divac, giocatore di pallacanestro nella mitica Jugoslavia, e in quel giorno d'agosto del 1990 ero diventato, con i miei compagni, un eroe per tutti gli jugoslavi. Tutti.
Ero sul tetto del mondo.
Ma bastò un attimo per cadere.

Fu un gesto istintivo, lo giuro.
“L’ho fatto solo perché questa deve essere considerata una vittoria della Jugoslavia, un momento di orgoglio per tutto il paese”.
Non servì a niente.
Perché lui, il mio più grande amico croato, si sentì offeso da quel gesto.

Malgrado il passato.
Malgrado gli anni bellissimi trascorsi insieme. Più che amici, inseparabili.
Io, Vlade Divac, serbo.
Lui, Drazen Petrovic, croato.
Insieme nella grande Jugoslavia.

Avevamo due caratteri molto diversi e apparentemente inconciliabili.
Io un simpaticone, lui freddo e distaccato.
Io originario di Prijepolje, Serbia.
Lui croato, nato a Sebenico..
Con un amore in comune. La palla a spicchi.

In campo non importava la provenienza dell’uno o dell’altro.
Eravamo una grande famiglia.
Eravamo fratelli.
Drazen era un vero idolo. Il Mozart del canestro
L’Olimpija Ljubljana aveva schierato dei ragazzi, d’accordo, ma solo Drazen poteva segnare 112 punti in una sola partita.

Con la Nazionale jugoslava avevamo vinto l’argento olimpico a Seul nel 1988 e l’oro europeo nel 1989. Noi sempre insieme nella stessa camera.
E poi quei mondiali in Argentina, pronti a stupire il mondo. Ad aspettarci in finale l'URSS. Senza i 221 centimetri del "lituano" Sabonis.

Buenos Aires fu il palcoscenico perfetto.
Partita dopo partita eravamo entrati nel cuore del popolo argentino.
Noi, “figli della Jugoslavia”.
Ma nel nostro Paese qualcosa stava cambiando.
E quello che era accaduto il 13 maggio era lì a dimostrarlo.

Allo stadio Maksimir di Zagabria si erano incontrate Dinamo Zagabria e Stella Rossa di Belgrado. E al grido di “Zagabria è serbia. Uccideremo Tudman” (presidente croato), iniziò la guerriglia tra i tifosi.
Il mondo capì quello che stava per accadere.

Il vento dell'odio aveva iniziato a soffiare.
Ma io l'avevo detto in quella riunione ai mondiali. No a divisioni politiche, siamo qui solo per giocare a pallacanestro. Tra Serbi e Croati non è mai corso buon sangue, è vero, ma stiamo rappresentando la Jugoslavia unita, accidenti

Buenos Aires, 19 agosto 1990, ore 18:00.
La finale. Noi, la Jugoslavia, contro l’U.R.S.S.
Io Vlade Divac numero 12, lui Drazen Petrovic numero 4. Vincemmo 92-75.
Io che alzo l’amico Drazen.
Sul tetto del mondo.
“JU GO SLA VIA! JU GO SLA VIA!”
Poi ad un tratto arrivò lui.

Un tifoso con una bandiera.
Ma non era la bandiera della Jugoslavia. Tricolore certo, ma non aveva la stella rossa della Jugoslavia bensì lo scudo coronato a scacchi rossi dell’Unione Democratica Croata.
Sapevo cosa stava accadendo a casa, per questo reagii a quel modo.

Urlai a quel tifoso di abbassare la bandiera immediatamente. Quella era una vittoria della Jugoslavia, non della Croazia. Quando lui cominciò ad insultarmi gli strappai la bandiera trascinandolo a fondo campo per allontanarlo.

CAMPIONO DEL MONDO. CAMPIONI DEL MONDO.
E poi la bandiera della Jugoslavia finalmente. Niente doveva rovinare quel momento.

Andò diversamente.
Giocavamo nell’NBA.
Dopo una partita giocata uno contro l’altro lo raggiunsi negli spogliatoio.

Mi meravigliò quella sua faccia seria.
Senza nemmeno un saluto. E poi quelle frasi.
“La situazione a casa è troppo grave. Non credo sia opportuno che ci vedano insieme.”
“Hey, ma di che stai parlando? Sono io. Sono il tuo amico Vlade.”

Non mi perdonò mai il gesto della bandiera. Della sua bandiera.
Ma io lo avevo detto.
“Vedete, io sono serbo di origine. Ma mi sento jugoslavo. Per me non è così importante da dove provengo. Serbi, Croati, ... siamo tutti uguali.”.
Capii, che erano state parole al vento.

Perché non siamo riusciti a riappacificarci? Non ne ho avuto il tempo.
Era il 7 giugno 1993. All’aeroporto di Francoforte arrivò la sua fidanzata a prenderlo in macchina. Alle 17.20, nei pressi di Denkendorf (Germania) un camion invase la loro corsia. Morì a soli 28 anni.

“Dražen era morto. Senza avere il tempo per dirgli che, nonostante tutto, lo consideravo un amico. Per la vita. E che gli volevo bene. Come ad un fratello”.

Il vento dell’odio non distrugge solo amicizie. Il vento dell'odio può fare molto, molto di più.

Thread by https://twitter.com/JohannesBuckler

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