09/08/2025
Nel parlare di ,soprattutto sui social, vedo sempre più spesso narrazioni del tipo: “nessuno ci capisce “.
Queste parole sono lecite perché sono il risultato di anni di sofferenza, invalidazione, diagnosi tardive, stanchezza.
È lecito provare rabbia ed è umano sentirsi sfiniti. Condividere queste emozioni può offrire sollievo e senso di appartenenza.
Però ci vuole un giusto limite, come psicoterapeuta ritengo sia importante per la nostra salute mentale fermarsi a riflettere sul linguaggio che usiamo per descrivere il dolore.
Rischiamo di restare chiuse in una posizione che ci isola.
✋ In particolare, faccio fatica con quei post che chiedono:
👉 “Qual è la frase più dolorosa che ti sei sentita dire dalle persone?”
Se ci riferiamo a professionisti sanitari, è giusto denunciare frasi inadeguate o violente.
Ma quando il bersaglio sono genericamente “le persone”, c’è un rischio: pretendere sensibilità da chi non ha gli strumenti, né l’esperienza, né spesso la possibilità reale di comprendere fino in fondo.
🔸 Il dolore merita spazio.
🔸 Ma anche chi ci circonda merita di non essere trattato come colpevole solo perché ignora qualcosa.
🎯 In terapia impariamo anche a riconoscere quando stiamo cercando ascolto nel posto sbagliato.
A volte restiamo aggrappate a relazioni che ci feriscono, aspettandoci empatia da chi non può o non vuole darcela.
Accettiamo frasi scomode, manipolazioni o indifferenza, nella speranza che almeno qualcosa arrivi.
Ma il dolore non si cura nell’assenza di rispetto.
In terapia si può imparare a distinguere tra chi non sa e può essere accompagnato a capire e chi non vuole capire,perché il suo sguardo è centrato solo su di sé.
È una differenza fondamentale e spesso liberatoria.
👉 Raccontarsi è fondamentale.
Ma raccontarsi in un modo che apre, che coinvolge, che costruisce ,non che alza muri.
Anche (e soprattutto) con sé stesse.