24/07/2022
Riporto le parole e l'esperienza di una collega perché molto condivisibili in quanto anche io ne ho Viste, sentite e conosciute altrettante... Purtroppo sono morti collettive.
E la narrazione che se ne sta facendo è tanto mostruosa, tanto quanto è mostruosa l'assenza di una comunità e la carenza dei servizi di prevenzione e intervento per il disagio sociale.
Sono "morti comuni" che fanno male a tantissimi livelli di rilettura.
"Dopo la laurea ho cominciato a lavorare per un Centro per la Famiglia, in un piccolo ma funzionale Comune della provincia di Caserta, che raccoglieva le richieste di molti paesi limitrofi, alcuni abitati da poche migliaia di persone, quasi scordate dalle mappe.
Le realtà socio-culturali erano varie, alcune così semplici da diventare.. complesse per il livello di arretratezza.
In quel Centro per la Famiglia, spesso mi occupavo del “sostegno alla genitorialita’”.
Venivano da me genitori segnalati dai servizi sociali, io dovevo valutare quanto la loro capacità genitoriale fosse presente, assente, matura, recuperabile.
Ne ho viste di tutti i colori in quegli anni: il “mago” che teneva segregate le tre figlie in casa con la convinzione che fossero vittime di una “fattura”. I genitori che hanno lasciato soli a casa i tre figli, con la più grande, di soli dieci anni, ad occuparsi dei più piccoli, 7 e 4 anni.
La coppia che teneva i due figli in macchina mentre giocava d’azzardo per ore, in un bar.
Insomma, delle versioni di Alessia Pifferi, io credo di averle conosciute, viste, ascoltate. E’ andata bene perché tra quei bambini ed i loro genitori si e’ messo in mezzo qualcuno che e’ poi diventato “il servizio sociale”.
Certi “genitori” sono frutto di una precarietà psicologica, culturale, emotiva che esiste, e’ possibile. Non la immaginate rara. Non si tratta di casi eccezionali. Si tratta di gente “al limite”, sbagliata, a volte psicotica, che il bar del paese, il vicino di casa, il tabaccaio, conosce.
E’ sotto gli occhi di qualcuno.
E se ne parla.
Se ne s-parla pure: si fa chiacchiericcio su quei figli di un dio minore, lasciati in mano al nulla: “Di lei che esce sempre, chissà dove lascia la bimba”.
Quando certa gente arrivava davanti la mia scrivania (se si presentava al colloquio!! ) c’era qualcuno che - fortunatamente - era intervenuto, c’era stata quella che - l’assistente sociale che prendeva il caso - chiamava “segnalazione”: un input che poteva attivare una macchina di servizi a catena, il cui intento era valutare una situazione e - se necessario - proteggere un minore.
Qualcuno di quei genitori segnalati ha fatto il possibile per recuperare e rafforzare la propria capacità genitoriale.
Altri, non pochi, avevano una consistenza interna così precaria, che quei figli (fortunatamente) li hanno persi: sono stati affidati a delle comunità, che hanno garantito a quell’infanzia cose più umanizzate.
La relazione finale che arrivava al giudice veniva scritta a più mani: le mie, quelle dell’assistente sociale, quelle della scuola. A volte anche un sindaco, un assessore, carabinieri e vigili urbani facevano parte della nostra rete d’intervento.
In alcuni casi era molto semplice dichiarare che quel genitore non era capace di crescere un figlio.
Perché era evidente.
Quei bambini, spesso, sono stati adottati, probabilmente da coppie che hanno desiderato essere genitori molto di più di quelli che avevano semplicemente capacità generative, unite a quadri psico-patologici sommersi.
Veniamo ad oggi.
Un oggi che mi riporta con la mente a quegli anni, in cui raggiungevo quel centro con 40 minuti di auto all’andata e 40 al rientro. Mossa da passione ma anche da tensioni, dispiaceri, stupori: perché - fresca di laurea - ancora non sei pronta a credere che certe cose esistano, che certe brutture possano ve**re fuori da una mamma ed un papà.
Ed in questo oggi così stropicciato e vergognoso, una bimba e’ morta di stenti. Ma anche di un dolore acuto, perché si può morire di dolore: la solitudine e’ innaturale a 16 mesi di vita.
Una bimba e’ morta tra la sua c***a e la sua p**ì, non avendo memoria del talco profumato che meritava. E’ morta non potendo razionalizzare l’assenza. E’ morta usando il poco latte che le era stato lasciato, bevuto, magari avidamente, perché non poteva immaginare che nessuno l’avrebbe nutrita per sei giorni.
E’ morta perché figlia di una mamma con una psiche frammentata, disturbata.
Ma e’ morta anche perché nel quartiere ci saranno stati mille pettegolezzi su quella donna e nessuna azione civile a proteggere una bambina.
Chiamatela mostro, questa Alessia, ma non stupitevi, perché i mostri esistono, assomigliano ad AlessiaNonSoCome e ad una collettività omertosa, che spia la vita della gente da un social, che la commenta, ma che poi non agisce quando e’ necessario.
Diventa mostruoso un servizio sociale lento, affannato, distratto dalle scartoffie, in casi peggiori: assente.
E’ mostruosa la nostra capacità di indignarci di fronte alla morte di una bambina, quando la soluzione sarebbe stata che un chicchessia qualunque, un vicino, un pettegolo, un parente, una persona sensibile avesse osservato la vita di quella bambina, di quella madre inconsistente e si fosse indignato per questo.
Bastava indignarsi prima.
Prima di rendere una storia infelice un fatto di cronaca.
Bastava attivarsi, proteggere, affrontare, per evitare una morte così solitaria, ingiusta, che toglie dignità ad una bambina e ad una società intera.
In questa br**ta storia non c’è un solo mostro.
Non c’è solo una madre follemente sbagliata.
C’è una coscienza collettiva mostruosa, incapace di esporsi ed imporsi quando e’ necessario.
Dott.ssa Angela Sbordone
Psicologa - Psicoterapeuta "