Studio Medico Marchionni Cenci

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09/11/2025

QUANDO IL CORPO EREDITA LA MEMORIA DEL DOLORE

(Di Patrizia Coffaro)

Oggi voglio parlarvi dell'epigenetic trauma, o biologia dello stress ereditato. È un campo di ricerca che sta rivoluzionando il modo in cui comprendiamo il trauma e la malattia cronica, perché ci dice una cosa tanto sorprendente quanto sconvolgente... il dolore non si eredita solo nei ricordi, ma anche nei geni.

Mentre in Italia tendiamo ancora a relegare il trauma all’ambito della psicologia, come se fosse solo una questione di mente, emozioni o memoria, la medicina epigenetica ci mostra che il trauma è, prima di tutto, una forma di informazione biologica. Una memoria che si trasmette da una generazione all’altra non attraverso le parole, ma attraverso le modifiche chimiche del DNA, che cambiano il modo in cui i nostri geni si esprimono.

La parola epigenetica viene dal greco epi, che significa sopra. È tutto ciò che sta sopra il gene... non cambia la sequenza del DNA, ma decide come e quando quel gene viene acceso o spento.

Immagina il DNA come un grande pianoforte, i geni sono i tasti, e l’epigenetica è il pianista (so che detto così riesci a comprenderlo meglio). Puoi avere un pianoforte perfetto, ma se il pianista suona in modo dissonante, la musica cambia completamente. Non cambia il DNA, non riscrive il codice della vita, ma cambia il modo in cui quel codice viene espresso. È come se la partitura fosse la stessa, ma l’intonazione, il ritmo e l’intensità con cui viene suonata fossero alterati.

Un gene può restare identico, ma il trauma modifica quanto quel gene viene ascoltato dal corpo. Può far sì che un gene dell’infiammazione si accenda troppo spesso, o che un gene calmante resti silenziato. In pratica, non cambia il contenuto, cambia l’interpretazione biologica della vita.

Ecco perché due persone con lo stesso DNA possono reagire in modo completamente diverso... una rimane stabile, l’altra si ammala. La differenza non sta nel gene, ma nel modo in cui il vissuto ha insegnato al corpo a leggere quei geni. Il trauma, quindi, non cambia chi siamo, cambia come ci esprimiamo a livello cellulare.

Attraverso processi come la metilazione del DNA, l’acetilazione degli istoni e la regolazione dei microRNA, lo stress e l’ambiente emotivo in cui cresciamo modificano l’attività dei geni che controllano l’infiammazione, il sistema immunitario, gli ormoni dello stress e la plasticità neuronale.

Studi hanno osservato, per esempio, che i figli e i nipoti dei sopravvissuti all’0Iocausto presentano alterazioni nei geni che regolano il cortisolo e la risposta allo stress, hanno livelli più bassi di cortisolo mattutino e una maggiore vulnerabilità a disturbi d’ansia, depressione e malattie autoimmuni.

Lo stesso è stato visto nei figli delle donne incinte durante l’11 settembre, nei discendenti di veterani di guerra, di popolazioni schiavlzzate, o di madri esposte a carestie. Ogni volta che il corpo di una generazione vive un trauma intenso, gue*ra, abus0, perdita, fame, abbandono, l’ambiente biochimico del corpo cambia, e quella firma rimane impressa sull’epigenoma.

È come se il corpo dicesse ai figli: “Nel mondo là fuori non sei al sicuro. Preparati.” E così il loro sistema nervoso nasce già più allerta, più reattivo, più infiammabile.

Quando viviamo un trauma, il corpo produce ormoni dello stress (come cortisolo e adrenalina) e molecole infiammatorie che servono a farci sopravvivere. Ma se quello stato si prolunga, questi segnali diventano istruzioni epigenetiche.

Lo stress cronico modifica i geni che regolano i recettori del cortisolo, rendendoli meno sensibili, in pratica, il corpo resta sempre in modalità allarme. Allo stesso tempo altera i geni che governano citochine, mastociti, infiammazione intestinale, serotonina e dopamina. Il risultato è un corpo che vive costantemente in risposta al pericolo cellulare, con il sistema immunitario e nervoso in uno stato di iper-vigilanza.

Ecco perché alcuni bambini nascono già con ansia, insonnia, allergie, o una sensibilità eccessiva agli stimoli, non hanno vissuto un trauma diretto, ma portano dentro il linguaggio biologico del trauma dei genitori.

Una delle scoperte più affascinanti è che il trauma non si conserva come ricordo, ma come modifica dei sistemi di regolazione. Il corpo non dimentica, ma non sa neanche distinguere tra passato e presente... un suono, un odore, una parola o un tono di voce possono riattivare l’allarme perché, a livello cellulare, la minaccia non è mai finita.

Questo si riflette in:

- Infiammazione cronica di basso grado,

- Ipersensibilità agli stimoli,

- Disbiosi intestinale persistente,

- Difficoltà a regolare la glicemia e il sonno,

- Iperattività del sistema simpatico,

- ... e vulnerabilità a patologie autoimmuni e neurodegenerative.

In sostanza, il trauma epigenetico mantiene la risposta al pericolo cellulare (CDR - ne abbiamo parlato nei giorni scorsi) attiva anche quando il corpo non è più in pericolo. E questo spiega perché tanti percorsi terapeutici, farmacologici o alimentari non bastano da soli... non si tratta solo di curare, ma di resettare la percezione biologica di sicurezza.

La buona notizia è che l’epigenetica è reversibile. Quello che viene trasmesso può essere riscritto. Gli stessi meccanismi che fissano il trauma possono anche disattivarlo:

- Un ambiente sicuro,

- Relazioni affettive stabili,

- Sonno regolare,

- Nutrizione antiinfiammatoria,

- Esposizione alla natura e alla luce solare,

- Pratiche di consapevolezza e coerenza cuore-cervello.

Ogni esperienza che riduce lo stress e riporta il corpo in modalità parasimpatica modifica la metilazione del DNA, riattivando geni di guarigione, rigenerazione e stabilità emotiva.

Molte persone, quando sentono parlare di trauma ereditato, reagiscono con paura e pensano di portare dentro di loro qualcosa che non possono cambiare. Assolutamente no. Non erediti il trauma... erediti la predisposizione biologica a reagire come se il pericolo fosse ancora presente. Ma la buona notizia è che tutto ciò che si è impresso sull’epigenoma può essere ricalibrato.

Ogni volta che respiri più lentamente, che ti concedi riposo, che nutri il corpo con cibo vero e con relazioni sane, stai scrivendo nuove informazioni sul tuo DNA. L’epigenetica non è destino... è dialogo continuo tra ciò che vivi e ciò che sei.

Il trauma epigenetico non si cura solo con la pslcoterapia, perché non vive solo nella psiche. È impresso nel corpo, nei recettori, nel microbiota, nei mastociti, nei mitocondri. Per questo, i percorsi più efficaci oggi integrano:

- Riprogrammazione limbica, per calmare il cervello emotivo;

- Terapie somatiche, per sciogliere la memoria corporea del trauma;

- Riequilibrio del sistema nervoso autonomo, con respiro, suono, movimento e grounding;

- ... e nutrizione mirata per sostenere metilazione, detossificazione e antiossidanti.

Ogni volta che il corpo percepisce sicurezza, rilascia il segnale biologico che il pericolo è finito. Ed è lì che la riparazione può iniziare.

Una delle aree più studiate è il legame tra trauma, microbiota e sistema immunitario. Lo stress prolungato modifica la flora intestinale, riduce la diversità microbica e aumenta la permeabilità della barriera intestinale. Questo fa sì che molecole infiammatorie entrino in circolo e arrivino al cervello, dove alterano la regolazione neuroendocrina.

In parole semplici... lo stress ereditato si trasforma in infiammazione ereditata. Un intestino infiammato manda al cervello segnali di allerta, e il cervello, a sua volta, amplifica la risposta immunitaria. È un dialogo circolare che si tramanda anche attraverso l’epigenetica.

Per questo molti approcci moderni alla guarigione dal trauma includono riparazione intestinale, regolazione vagale e modulazione immunitaria. La mente non si calma se il corpo è in fiamme. E il corpo non guarisce se la mente resta in guerra.

Guarire da un trauma epigenetico non significa cancellare la storia familiare, ma riscriverne la conclusione. Significa riconoscere che sì, il dolore dei nostri genitori vive anche in noi, ma non come condanna, ma come richiesta di consapevolezza.

Ogni volta che scegli la calma invece della reazione, che smetti di giudicare il corpo e inizi ad ascoltarlo, rompi la catena biologica dello stress. Ogni atto di cura verso te stesso cambia la chimica del sangue, l’attività dei geni e il destino delle generazioni future.

E forse questo è il vero significato di guarigione ancestrale, non un concetto mistico, ma una riscrittura epigenetica collettiva. Il trauma non è solo un ricordo. È un linguaggio che il corpo continua a parlare, finché qualcuno non lo ascolta. L’epigenetica ci mostra che la biologia e l’anima non sono mai state separate, ciò che senti, pensi e vivi ogni giorno lascia impronte misurabili nei tuoi geni.

E se il dolore si può trasmettere, anche la guarigione può farlo. Perché ogni volta che un essere umano smette di reagire e inizia a comprendere, cambia non solo se stesso, ma tutto il suo albero genealogico.

XO - Patrizia Coffaro

La dottoressa Villa evidenzia le gravi carenze nel SSN nel settore della diagnostica anatomo-patologica, e questo in un ...
14/10/2025

La dottoressa Villa evidenzia le gravi carenze nel SSN nel settore della diagnostica anatomo-patologica, e questo in un momento in cui ,con i tumori, ci sarebbe bisogno più che mai di diagnosi rapide ed accurate per procedere alle terapie sempre più mirate di cui adesso disponiamo.

Se chiedessimo in giro quali sono gli specialisti di cui il Servizio Sanitario Nazionale ha più bisogno, la maggior parte delle persone risponderebbe pensando alle…

09/10/2025

Siamo stati gentilmente informati della presenza sulla nostra pagina qui su Facebook e su quella di Google, della presenza di foto nostre personali che non sono state ritenute "professionali" o "idonee" a rappresentarci come professionisti.
Partiamo dal presupposto che queste informazioni sono arrivate filtrate da diverse fonti (anche se sappiamo chi abbia dato il "LA") tramite vari passaparola, il che rende la situazione disturbante, codarda e poco costruttiva; detto ciò, molti dei contenuti devono essere frutto del nostro ex webmaster, di comunicazioni tra Meta e i profili privati e non ne avevamo autorizzato la diffusione, quindi siete invitati a non divulgarle ulteriormente, anche se tutto ciò che è in rete notoriamente è di pubblico dominio.
Comunque sia, con tutto quello che abbiamo da fare, tutto quello a cui dobbiamo pensare per noi stessi, per l'attività e per i pazienti, foto "scabrose" o ritenute poco professionali (che poi se sapeste da che pulpito viene la predica ridereste) ci interessano relativamente, perché conosciamo il nostro valore, il nostro modo di lavorare, le nostre personalità e soprattutto che SIAMO professionisti.
Questa morbosità nel cercare il pelo nell'uovo per dimostrare (a chi?) qualcosa sul nostro conto, speriamo solo non sia diffamante, perché a quel punto ci riserveremo dal chiedere alle autorità delucidazioni per dichiarazioni di falso, calunnia, danneggiamento d'immagine.
I pareri non richiesti non ci interessano, soprattutto se a cercare di proporsi come "content creator" non sono persone del settore, perché sarebbe come andare dal carrozziere a chiedere come gestire una pratica legale.
Invitiamo questi gentilissimi e garbati curatori d'immagine a mettersi davanti allo specchio prima di criticare a vanvera.
Cordialmente.

08/10/2025

Passata l'ubriacatura per Flotilla ricominciamo a parlare di sanità.
Qui di seguito il solito illuminante contributo della d.ssa Villa sul Covid-19, sempre tra noi, sulla sua imprevedibilità sintomatologica ( a me per esempio ha contribuito a distruggermi la testa del femore destro, costringendomi alla protesi) sulla necessità di potenziare il vaccino e di distinguerlo, nella modalità di somministrazione, dal periodo scelto per l'influenza, bens' fare due dosi a inizio estate e dopo sei mesi.
SI DICE IN VILLA - DUE PENSIERI SUL COVID-19 CHE RESTA
Roberta Villa | Pubblicato il 08/10/2025
Se non ci si informa attivamente, è facile credere che il COVID-19 si sia ormai estinto: sparito dall’orizzonte dei media generalisti (che di questi tempi hanno in effetti questioni più gravi da affrontare), rimosso dalla coscienza pubblica, sottovalutato anche da molti operatori sanitari, addirittura negato da qualche complottista ostinato. Quando un paio di giorni fa ho pubblicato sui social media la foto del mio test COVID-19 positivo mi immaginavo quindi di ricevere soprattutto critiche o battute sarcastiche. Queste non sono mancate (e ci torno tra poco), ma quel che mi ha sorpreso è stato l’altissimo numero di persone che invece mi hanno risposto di persona o nei commenti di essere a letto anche loro, o di aver appena superato l’infezione con la loro famiglia. Qualcuno raccontando con un sospiro di sollievo di aver reagito molto meglio della prima volta al secondo, terzo o quarto contatto con il virus, altri invece sottolineando con sorpresa l’entità del malessere e della debolezza che la malattia ha provocato loro. “Altro che un raffreddore!”, dicono (e dico anch’io).
Il test serve
Ma siccome non manca mai la voce polemica di chi chiede perché mai abbia voluto fare il test, pratica ritenuta superflua anche da autorevoli professori che lo vanno ripetendo in tv, forse vale la pena di fare un ripassino, insieme a qualche considerazione sulla gestione attuale. Sappiamo infatti dal 2020 che una delle caratteristiche che rendono più insidioso SARS-CoV-2 è proprio l’imprevedibile variabilità delle sue manifestazioni cliniche, ed è proprio per questo che il test può aiutare a decidere con senso di responsabilità come comportarsi in un contesto che non prevede più regole di isolamento o distanziamento.
Anche prima della pandemia, infatti, si raccomandava di stare a casa e fare il possibile per evitare di trasmettere l’influenza, che si riconosce per il forte malessere, la febbre alta improvvisa, la tosse e il mal di gola, i dolori muscolari e che può provocare forme molto gravi in anziani e fragili. Ma se eravamo solo un po’ raffreddati, magari senza febbre, eravamo chiamati a tener fede ai nostri impegni. Ancora oggi, aziende e datori di lavoro non vedono di buon occhio chi si assenta ogni volta che ha un banale malanno i cui sintomi si possono controllare con un farmaco da banco, per non parlare dei liberi professionisti e lavoratori in proprio per cui il costo dell’astensione dal lavoro incide direttamente sul fatturato. Il Paese si fermerebbe per metà dell’anno se anche i lavoratori essenziali, compresi medici, infermieri, insegnanti, addetti ai trasporti e così via dovessero stare a casa per ogni malessere, mal di testa, starnuto o colpo di tosse, solo per non rischiare di trasmettere un raffreddore, che rappresenta per tutti una scocciatura, ma non uccide nessuno.
La situazione oggi
Come abbiamo imparato durante la pandemia, occorre calibrare sempre le diverse esigenze, bilanciando qualità di vita e rischi economici e sociali con quelli legati alla salute individuale e pubblica. Con il COVID-19 la faccenda si è complicata, perché lo stesso identico agente infettivo che può essere del tutto asintomatico in una persona, può portarne un’altra in ospedale, e, seppur ormai raramente, anche al cimitero. Nell’ultimo mese, per esempio, secondo i report settimanali forniti dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di sanità, l’esito sarebbe stato fatale per quasi un centinaio di persone in tutta Italia. Secondo la dashboard sul sito dell’Istituto stesso, invece, i decessi sarebbero circa la metà. La discordanza si spiega con il ritardo di 2-3 settimane nell’aggiornamento, per cui in questa dashboard non si vedono ancora le conseguenze dell’onda di infezioni che ha colpito il nostro paese con la fine delle vacanze, e che in termini di numero di nuovi casi ha visto il suo picco intorno al 22 settembre.
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Niente a che vedere con le “ondate” dei primi due anni di pandemia. L’impatto non è nemmeno lontanamente paragonabile né in termini di sovraccarico dei Pronto soccorso, né di occupazione dei letti ospedalieri, né tanto meno di vittime. Ma basta questo per considerarlo un “non problema”? Il dato (non aggiornato, appunto) della dashboard conta tra i casi di settembre 345 operatori sanitari: se a pesare sul sistema non è la pressione esterna, da parte dei pazienti, c’è comunque un impatto sulle prestazioni e le liste di attesa derivante dall’infezione degli operatori. Qua sarà una sala operatoria saltata, là sarà un medico in meno in reparto, altrove saranno state rimandate tutte le visite di un ambulatorio. E questo ci porta alla gestione della sanità pubblica nei confronti di questa infezione che da tempo non causa più emergenze, ma comunque c’è, pesa sulla produttività delle persone, aumenta a ogni reinfezione il rischio di altre malattie, riduce la capacità di un sistema già troppo fragile di rispondere ai crescenti bisogni di salute della popolazione.
Non si può temere di usare la parola COVID-19
Che fare? È chiaro che in un contesto del tutto cambiato le risposte non devono essere le stesse di quattro o cinque anni fa. Ma è altrettanto chiaro che aver messo la parola “COVID-19” nell’elenco dei termini tabù da evitare per non perdere consenso non è il modo migliore per difendersene. Le vaccinazioni non hanno più il ruolo cruciale di liberare i Pronto soccorso, riprendere le altre attività di assistenza e di cura, riaprire i locali e tornare “alla vita di prima”. Questo risultato per fortuna è già stato raggiunto, ma ciò non significa che non servano più o che debbano essere fornite solo ai più sensibili, volenterosi e insistenti, indipendentemente dai loro fattori di rischio, mentre mancano campagne di comunicazione o forme di offerta attiva da parte del Servizio sanitario, come invece si fa per l’antinfluenzale, verso chi rischia di più, ma magari è meno attento. Il risultato è che, almeno l’anno scorso, la copertura dei più anziani e fragili è stata largamente insufficiente, anche per la scarsa sensibilità di medici e familiari a questo problema.
Meno del 6% degli ultraottantenni ha fatto il vaccino in Italia nella stagione 2024-2025, contro il 10% della media europea e l’83,5% di copertura raggiunto in questa fascia di età dalla Svezia, che non può certo essere accusata di aver sopravvalutato la minaccia COVID-19 negli anni più difficili, anzi.
Evidentemente nel Paese scandinavo si è trovato il modo di aggirare le difficoltà logistiche legate ai flaconi multidose, che prevedono la somministrazione a un numero minimo di pazienti, per cui si può fare anche qui. In Toscana, dove la campagna è affidata con l’antinfluenzale ai medici di famiglia, gli assistiti sono invitati a presentarsi in ambulatorio il giorno previsto. Dove, come in Lombardia, prevale l’offerta nelle farmacie, è più difficile richiamare le persone a rischio. Ottima comunque l’iniziativa di organizzare in un luogo iconico come lo stadio di San Siro a Milano, per sabato 11 ottobre, un evento dedicato alla vaccinazione antinfluenzale. Per molti milanisti e interisti nostalgici potrebbe essere anche un buon modo di salutare un luogo ormai indirizzato verso un altro destino. Ma perché puntare sull’antinfluenzale per tutti, a partire dai 12 anni d’età, e lasciare COVID-19 in fondo, come ultima opzione dopo le altre (HPV, Meningococco, Herpes Zoster, Pneumococco) che saranno offerte, in base all’età e alle condizioni di salute?
Fra problemi e soluzioni
Mi sembra sempre che si preferisca raggiungere alti numeri piuttosto che seguire strategie mirate. Si dovrebbero piuttosto vaccinare a tappeto, a meno di espliciti rifiuti, tutti gli ospiti delle RSA, i ricoverati in ospedale a maggior rischio per età o patologia, gli operatori sanitari, cui invece non viene nemmeno offerta l’opportunità di ricevere una nuova dose sul posto di lavoro.
E poi c’è la tempistica. Mentre scrivo è già il 7 ottobre, decine di migliaia di italiani hanno avuto come me COVID-19 nelle ultime settimane, sentendosi un po’ come marziani, quasi viaggiatori nel tempo, con il timore di dirlo e senza nemmeno sapere se avrebbero potuto proteggersi. La circolare del Ministero sulle vaccinazioni anti COVID-19 è infatti arrivata solo il 22 settembre, quando il virus dilagava nel paese. Il documento annunciava che, come nelle altre parti del mondo, la campagna vaccinale si avvarrà di un prodotto aggiornato alla variante LP.8.1 del SARS-CoV-2, che ormai è minoritaria, ma dovrebbe comunque essere efficace nel ridurre il rischio di forme gravi.
Ecco, una delle differenze tra COVID-19 e influenza, e dell’errore, a mio parere, di adattare a COVID-19 le pratiche in atto da anni contro l’influenza, è esattamente questa: SARS-CoV-2 muta perfino più rapidamente dei virus influenzali. I vaccini disponibili, poi, non garantiscono la stessa durata di azione, che già per l’influenza non è ottimale. Ma quando la protezione contro l’influenza cala, il virus nelle nostre zone non è ancora tornato, e c’è tutto il tempo di tornare a risvegliare l’immunità. Per COVID-19 non è così, e dal 2021 (da quattro anni!) l’estate vede sempre nuove ondate che nella migliore delle ipotesi rovinano le vacanze, nella peggiore tolgono a qualcuno amici e fratelli, nonni ai nipotini, genitori ai figli, mariti alle mogli e mogli ai mariti.
Allora forse bisognerebbe sganciare la campagna contro COVID-19 da quella per l’influenza, chiedendo alle aziende uno sforzo per produrre almeno due varianti di vaccino l’anno, per quanto in dosi minori, così da poter difendere le persone a maggior rischio in maniera più puntuale e mirata. Questa ovviamente non può essere una presa di posizione nazionale, né so se tecnicamente sarebbe fattibile, ma anche con lo stesso prodotto si potrebbe provare a distanziare la vaccinazione da eventuali infezioni recenti, quando con ogni probabilità, pur non essendo controindicata, è poco utile, proteggendo invece meglio e in maniera più puntuale chi ne ha più bisogno quando più serve.
Io, per esempio, che in Lombardia finora non potevo ancora prenotare il richiamo, a questo giro lo salterò. Ma verso primavera lo farei volentieri, per non ritrovarmi tra un anno nella situazione di oggi. Ormai sappiamo che questo virus non ha la stessa stagionalità dell’influenza: perché continuare a restare attaccati a uno schema preconcetto, basato sull’esperienza precedente al 2020? Cerchiamo di sfruttare al meglio le risorse che abbiamo, possibilmente armonizzando anche le risposte tra Regioni diverse (ma questo appello, lo so, suona sempre come un disco rotto, senza grandi speranze di essere ascoltato).

06/10/2025

Essere medici, lavorare nella Sanità è una vocazione. A volte non ci sono orari, ci si dimentica della famiglia, delle amicizie, di avere una vita al di fuori di una struttura e di un bagaglio di impegni che si accavallano e ti guardano con disappunto dall’agenda. Poi ci sono le urgenze, la burocrazia. Bisogna curare tutto e tutti, niente può andare fuori posto. La riqualificazione professionale, gli aggiornamenti, le attrezzature (che ovviamente non funzionano mai nei momenti più cruciali), ora c’è anche l’AI a darci una mano, ma attenzione, su un dubbio diagnostico bisogna presentare bene la domanda, conoscere bene la Clinica come base da cui partire per arrivare a un’ipotesi accettabile che possa essere compatibile con il paziente. Poi c’è il lato umano, perché non sempre tutto fila liscio e si cerca di non sbagliare mai. Quando si stacca la spina si pensa sempre a qualcuno, qualche situazione e a volte ci si strugge e si può anche diventare cupi. Nel mio team abbiamo sempre cercato infatti di essere professionali ma anche di far trasparire il nostro lato umano e sdrammatizzare su quella patina di pesantezza che affligge il mondo dei sanitari. La dottoressa Marchionni prima si divertiva con i colleghi, si mostrava al mondo per quella che era: c@zzeggiona. Non essendo cosa gradita (dai non colleghi), si è messo un punto. La dottoressa da oggi è un manichino con il camice per l’audience pubblica, con i goliardici colleghi e in privato non le verrà tolta la voglia di giocare, divertirsi, ironizzare. Basta circo emozionale.

Prossimamente articolo sulle novità circa l’aumento allucinante dei nuovi infetti da HIV nei trend 2023-2024.

Cordialmente

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Rome
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