Dr.ssa Lucia Ciampa Psicologa Clinica, Psicoterapeuta Psicoanalitica

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Dr.ssa Lucia Ciampa Psicologa Clinica, Psicoterapeuta Psicoanalitica Psicoterapeuta Psicoanalitica -Istituto Winnicott-Socia SIPsIA
Infanzia-Adolescenza-Età Adulta-Coppia

02/09/2025

Ecco un estratto di una mia recensione sul libro "Dispiegando margini. Nei dintorni di D.W. Winnicott. E oltre" di Paolo Fabozzi che trovate nell'ultimo numero del 2024 della Rivista Richard & Piggle.

L’effetto di questo libro sullo psiche-soma del lettore è un’espansione del sentire, un’affinare il proprio sentire analitico, percorrendo le trame inconsce e complesse dell’impresa analitica che Paolo Fabozzi tesse a partire dal suo stesso sentire in stanza con i suoi pazienti, inducendoci un naturale movimento di avvicinamento alle sue elaborazioni e distanziamento, in un andirivieni in cui attingere e nutrirsi, ma anche lasciare libero il nostro associare e immaginare aspetti anche nuovi e diversi. Per la sua qualità insatura funge da generatore di pensieri e posture, lasciando sempre aperta una porta all’ignoto, all’inedito che potrebbe balzare fuori. Mi sembra che alla base ci sia un
messaggio implicito dell’autore che è quello di tradurre le sue parole nel nostro linguaggio personale che nasca dalla nostra clinica, come fa Fabozzi stesso con la teorizzazione di Winnicott.
È dunque riuscito nel suo intento di aggiungere quell’oltre, di cogliere ed estendere ciò che è presente in embrione negli scritti di Winnicott. Questa modalità sembra ricalcare quello che Winnicott dichiara a M. Klein rispetto alla sua necessità di iformulare la sua teoria nel suo linguaggio personale che parta dalle sue scoperte nella sua clinica: è questo che permette di mantenere vivo il linguaggio altrimenti sarà una lingua morta. Tutto ciò mi sembra collegato alla capacità di appercepire la realtà, di crearla e ricrearla in un modo che per noi abbia valore, tema che viene continuamente ripreso nel libro che inaugura un cambiamento di paradigma rispetto alla teorizzazione di Freud, della Klein e di Bion: l’obiettivo in un’analisi non è accettare la realtà, la frustrazione, ma cercare il valore della realtà nelle cose che facciamo, creare il proprio modo personale e originale di incontrare la realtà per sentirci ricchi, vitali e reali. L’aspetto rivoluzionario che Fabozzi intravede in Winnicott è che la stessa realtà oggettivamente condivisa viene creata dal bambino. Una delle tante capacità dell’autore è quella di essere riuscito ad accordare ed armonizzare teoria, tecnica e clinica. Anche lo stile di scrittura sembra contenere questo monito all’integrazione: in ogni pagina si riscontra una unitarietà, una circolarità e processualità di pensiero, in cui si racconta continuamente quell’andirivieni tra teoria, tecnica, clinica e il sentire corporeo. Nel desiderio di riprendere alcuni aspetti della soggettività dell’analista che rappresentano il fil rouge dell’intero testo, vorrei partire da un’evocazione di Kenneth Wright, il quale in un lavoro presentato due anni fa alla Sipsia cita il poeta Matsuo Basho (17°secolo) che ai suoi aspiranti studenti diceva: “Vai dal bambù se vuoi imparare qualcosa sul bambù e così facendo devi lasciare la tua preoccupazione soggettiva a te stesso altrimenti imponi te stesso sull’oggetto e non impari, la tua poesia emerge spontaneamente quando tu e l’oggetto siete diventati una cosa sola, quando ti sei immerso sufficientemente in profondità nell’oggetto per vedere qualcosa di simile a uno scintillìo; se tu e l’oggetto siete separati allora la tua poesia non è vera poesia ma soltanto una contraffazione soggettiva”. Mi sembra che questa citazione contenga alcuni aspetti cruciali su cui Fabozzi si sofferma: un aspetto è proprio la recettività vibrante dell’analista, la sua indispensabile vulnerabilità, la flessibilità delle sue difese e la capacità di una psiche matura di oscillare tra il senso di essere se stesso e la possibilità di essere in alcuni momenti temporaneamente l’altro, lasciandosi modificare in modo reversibile dai movimenti e contenuti del paziente, spesso incandescenti e ustionanti, senza aver paura e senza proteggersi con le sue difese dall’attentato alla propria integrità psichica. Solo dopo aver vissuto questo stato di transitoria e feconda indifferenziazione, e di immersione nella profondità del paziente, può emergere la poesia o
potremmo dire una comunicazione verbale. Sulla nascita dell’interpretazione Fabozzi ci accompagna per mano e ci conduce verso quel complesso processo che porta l’analista ad interpretare. Perché l’analista interpreta? Perché ha bisogno di sentirsi vivo, di restituire vita alla propria psiche, di fuoriuscire da quella turbolenza, da quel travaglio emotivo che ha attraversato, e trovare una parola che sia viva, che contenga qualcosa di trasformato che l’analista può restituire grazie alla sua stessa trasformazione, sperando che susciti un’esperienza viva per il paziente. Fabozzi va oltre la “sopravvivenza” dell’analista a questi contenuti mortiferi, ma aggiunge un quantum di vitalità e dinamismo psichico nell’analista, in cui è custodita l’idea del sentirsi vivo, umano, creativo, reale: ciò consentirà al paziente di sentirsi a sua volta tale. Ho trovato di grande utilità clinica il concetto di organizzazione difensiva che introduce l’autore distinguendo una modalità silenziosa e una rumorosa. Mi sembra che la modalità silenziosa abbia ha a fare con le Sparizioni, con quel rendersi invisibili e quel pervasivo nascondimento di se stessi che Fabozzi tocca nel sesto capitolo, lasciandoci totalmente immergere con lui in tutte quelle atmosfere e situazioni cliniche in cui regnano devitalizzazione, elisione dell’oggetto, disconnessioni nel rapporto con la propria psiche e con l’altro, siderazione del sé, anticipazione e reviviscenza di una
morte psichica già avvenuta o che è lì lì per essere vissuta. È qui che si collocano i processi di idealizzazione e denigrazione, ci spiega Fabozzi, che intrappolano l’analista e il paziente in una
paralisi psichica in cui non è possibile accedere all’uso dell’oggetto. La modalità rumorosa, che ha invece a che fare con l’emersione di identificazioni proiettive più intense del solito, è intesa come
tentativo, seppur scomposto e disarmonico, di avvicinarsi all’oggetto, introducendo una turbolenza che genera processi intrapsichici e interpsichici connessi al suo possibile uso. Il punto è la risposta dell’analista: quanto riesce a non colludere con il bisogno del paziente di proteggere se stesso e l’altro dal crollo e dal ripetersi del trauma? Se l’analista riesce a sopravvivere, a non vendicarsi, ma soprattutto a garantirgli l’esperienza della massima provocazione/distruttività potenziale, allora il paziente potrà trasformare il controllo onnipotente in onnipotenza creativa trattando l’analista come oggetto obiettivamente percepito. Decisamente innovativo e suggestivo è poi l’ultimo capitolo sul
controtranfert pervasivo che evoca la riproduzione di un’atmosfera che il bambino ha vissuto e respirato in un’epoca precocissima della vita e che ha imbevuto il suo Sé. Mi è sembrato di ravvisare all’interno di una modalità silenziosa di organizzazione difensiva del paziente, la possibile presenza nell’analista di un controtransfert pervasivo ed analogamente mi sembra di poter invece collegare alla modalità rumorosa un controtransfert riconducibile all’identificazione proiettiva, dalla sua qualità più oggettuale e fragorosa. Quest’ultima potrebbe inoltre porsi in linea con un transfert paterno, e le due modalità diverse di transfert-controtransfert potrebbero dunque ricalcare l’oscillazione tra l’essere nell’ordine materno e essere nell’ordine paterno: da un lato accogliere il gesto spontaneo e lasciarsi pervadere da atmosfere precocissime e dall’altro immettere qualcosa di differenziante, introdurre una funzione terza che inauguri una tridimensionalità e l’uscita da un funzionamento onnipotente e da dinamiche fusionali patologiche. È proprio qui che mi sembra si collochi l’intuizione di Fabozzi che estende l’accenno di Winnicott sul padre come “primo barlume di integrazione” (Winnicott, 1969, p.264), giungendo alla conclusione circa la possibilità di “pensare l’uso dell’oggetto all’interno di un’area di pertinenza paterna” (p.129). Ecco che la
provocazione/distruzione potenziale a cui ci espone il paziente rientrerebbe in un transfert paterno, in cui l’analista/padre è chiamato a resistere e sopravvivere all’urto dichiarando la sua
indistruttibilità che sola permetterà all’altro l’istituzione della realtà dell’oggetto. Ritorno infine alla “poesia” e alla qualità poetica di questo libro e riprendo le parole di Bollas su quanto probabilmente
i poeti abbiano più cose da insegnarci sulla psiche umana di chiunque altro, forse perché “hanno imparato a calarsi nei vari strati del nostro passato, ad armonizzare il sensoriale, l’immaginario e il simbolico in modo tale da trasmettere la nostra conoscenza inconscia. Si sono forse immersi nella follia? Oppure lo sbalorditivo regno della psiche infantile è stato preservato in un luogo da cui ritorna nella forma di pensiero che chiamiamo poesia?”

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