29/07/2025
THIERRY HENRY E LA DEPRESSIONE: QUANDO VINCERE NON BASTA
✍️Articolo a cura de La Psi.
Thierry Henry è stato un simbolo di eleganza calcistica, uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio francese e del calcio internazionale a cavallo tra fine anni '90 e i primi dieci degli anni 2000. Tra club e nazionale maggiore Henry ha disputato complessivamente 917 partite segnando 411 reti, con la media di 0,45 gol a partita. Eppure, dietro al talento, ai gol alla notorietà, ai soldi e ai trofei vinti c’è una storia che pochi conoscono.
Negli ultimi anni Henry ha parlato pubblicamente della sua mentale, non ultimo ai microfoni nel podcast “Diary of a Ceo” di Steven Bartlett. Non si è limitato a raccontare i sintomi: ha voluto scavare più a fondo. In riferimento al padre: "Disse che sarei stato un grande calciatore e sono stato programmato per riuscirci. Cercavo sempre la sua approvazione". Un ricordo tenero all’apparenza, ma che rivela una dinamica complessa: il valore personale subordinato alla performance.
L’amore condizionato alla prestazione.
Durante l’infanzia, ogni bambino impara qualcosa su di sé e sul mondo attraverso il modo in cui viene guardato, accolto, amato. Se un genitore trasmette — anche senza volerlo — l’idea che l’affetto dipenda da ciò che il figlio fa, ottiene o rappresenta, quel bambino potrebbe iniziare a credere di dover “meritare” l’amore, anziché sentirsi degno a prescindere.
Questo tipo di dinamica si osserva spesso nei contesti familiari in cui almeno una delle figure genitoriali è rigida, autoritaria, centrata sul sacrificio per essere meritevoli del raggiungimento di un qualche obiettivo. Il messaggio implicito è: vali solo se raggiungi risultati e se sudi per raggiungerli. Quando questi messaggi vengono veicolati quotidianamente, possono dare origine a veri e propri schemi disfunzionali: convinzioni profonde di inadeguatezza, di non essere amabili, di non valere abbastanza se non si eccelle.
Sport, identità e vulnerabilità emotiva. Lo sport professionistico può amplificare queste dinamiche. Da un lato, offre struttura, motivazione, obiettivi chiari. Dall’altro, espone l’individuo a una costante valutazione esterna: da parte degli allenatori, dei media, del pubblico, dei compagni.
Per molti atleti, la prestazione non è più solo una parte della propria identità, diventa il nucleo principale della rappresentazione di sé stessi. Si finisce per confondere ciò che si fa con ciò che si è. E se “essere” significa “vincere”, cosa succede quando si perde?
Nei momenti di crisi — un infortunio, la fine della carriera, l’assenza di risultati, una sovraesposizione mediatica — tornano a galla i bisogni emotivi insoddisfatti dell’infanzia. Il bisogno di essere accettati, ascoltati, amati anche senza primeggiare. Se questi bisogni sono stati trascurati, si apre la porta a sentimenti profondi di vuoto, isolamento, disperazione.
Depressione: quando si perde il proprio valore
La depressione non è semplicemente “sentirsi giù”. È una condizione complessa, spesso invisibile, perché fraintesa. Non a caso, molte persone depresse non riescono a spiegarsi il proprio malessere: “Ho tutto, ma sto male lo stesso”. Il punto è che il benessere autentico non si costruisce solo su successi esterni, ma su un senso interno di valore, sicurezza e appartenenza.
Lo sapevi? Uno studio pubblicato su British Journal of Sports Medicine ha rilevato che circa il 34% degli atleti professionisti mostra sintomi depressivi o ansiosi durante o dopo la carriera. Henry non è un’eccezione. È solo uno dei pochi ad aver avuto il coraggio di raccontarlo.
Cosa possiamo imparare da questa storia
La testimonianza di Henry ci offre uno spunto per riflettere, ben oltre il mondo del calcio. Che tipo di messaggi trasmettiamo ai nostri figli, ai nostri allievi, ai nostri amici? Siamo capaci di amarli per quello che sono, anche quando non vincono?
La buona notizia è che si può imparare a riscrivere queste convinzioni profonde. E la psicoterapia può essere uno spazio per riconoscere gli schemi appresi, esplorare i bisogni emotivi insoddisfatti e costruire una nuova idea di sé, fondata sull’accettazione e sull’autenticità. Perché sì, vincere è bello. Ma sapere di valere anche quando si perde è ciò che davvero ci salva.