30/03/2020
Dunque eccomi al mio terzo giorno vero, dopo due turni massacranti di Usca (Unità speciale continuità assistenziale) o anche, come qualcuno ha detto, Unità speciale Coronavirus. Bergamo e Dalmine. Quando entri in postazione alle otto del mattino trovi un elenco di nomi, Covid da contattare e visitare. Sembra tutto tranquillo e chiaro, poi si scatena l’inferno. Cominciano a piovere telefonate da pazienti, medici di base, colleghi. Esci per raggiungere il paziente, rientri e ricominci. Un ritmo serratissimo, un tavolo pieno di carte, telefoni bollenti, richieste continue. I colleghi Usca di altri distretti si offrono di aiutarci e lo fanno anche se non gli compete. L’Ats di Bergamo è in contatto continuo per darci supporto e coordinare le operazioni, i software, la burocrazia, i Dpi, le auto. Poi prendi l’auto ed esci. Una famiglia Covid di 6 persone ti aspetta. Fuori il sole splende, gli alberi sono in fiore, le rondini, la primavera, una meraviglia. E le strade, deserte. I parchi, deserti. I negozi sbarrati. E sai che dietro quelle tende la gente ti guarda, la gente sa quello che stai facendo. E aspetta, con dignità e in silenzio. Quando entri nelle case la famiglia è composta, non dice nulla, ti indica il letto del malato, risponde alle tue domande facendosi forza, ha gli occhi sbarrati mentre lo visiti e quando li interroghi, poi verso la fine della visita, con il terrore negli occhi ed un filo di voce, ti dice che anche lei, moglie, figlia, sorella, fratello, marito, anche lei comincia a non sentirsi bene. Li visiti e capisci che una nuova ondata di infetti sta emergendo, coloro che accudiscono i malati del 9 marzo, li chiamo così quelli che hanno avuto i primi sintomi in quel periodo ed ora sono gravi. Ma visto il contenimento dovrebbe essere l’ultima ondata. Facendo un rapido calcolo capisco che ci vorranno altri due mesi. Torno in albergo, rapida conta a cena dei morti del giorno, molti molti meno di una settimana fa. Facciamo un brindisi, da lontano. Ce la faremo.