22/11/2025
È gravissimo. Sentire un ministro della Repubblica affermare, alla vigilia della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che «nel codice genetico dell’uomo c’è una resistenza alla parità dei sessi» è inaccettabile.
È ancora più inquietante che una ministra affermi, senza supporto empirico, che «non c’è correlazione tra l’educazione sessuo-affettiva a scuola e una diminuzione dei femminicidi».
Facciamo chiarezza.
Le dinamiche patriarcali, la sopraffazione maschile, la violenza di genere NON sono “codificate nel DNA” dei maschi. Sono cultura, potere, stereotipi, narrazioni sociali e modelli familiari che si tramandano, non predisposizioni biologiche inevitabili.
Affermazioni del tipo “è nel codice genetico” servono solo a naturalizzare la violenza maschile, a sminuire la responsabilità degli uomini e della società, a nascondere che dietro ogni femminicidio c’è una scelta, c’è una storia, c’è un contesto.
Dichiarare che l’educazione sessuo-affettiva “non serve” alla prevenzione dei femminicidi è un passo indietro. Negare o minimizzare l’importanza della prevenzione culturale e relazionale significa ignorare decenni di ricerche che evidenziano come l’educazione al rispetto, al consenso, all’uguaglianza agisca come fattore protettivo. (Anche se non è l’unica risposta, è parte imprescindibile.)
Quando il governo affida toni, parole e significati a ministri che parlano di “tara mentale” o di “codice genetico” che resiste alla parità, significa che non è davvero al lavoro su una strategia di cambiamento culturale, ma su una retorica che giustifica l’immobilismo.
Significa che il discorso pubblico sulle donne, sulla violenza maschile, sulle relazioni di potere è ancora dominato da logiche patriarcali, da mentalità che vedono l’uguaglianza come un ostacolo da “naturalizzare” anziché un obiettivo da costruire.
Significa che chi è vittima di violenza, chi subisce discriminazioni, chi si impegna quotidianamente nella prevenzione, viene ignorato o banalizzato. Perché “non è colpa dell’uomo”, è “il suo DNA”.
Dobbiamo usare parole chiare, senza scuse, per descrivere il fenomeno: violentatori che agiscono in un sistema di potere, culture che legittimano la sopraffazione, istituzioni che spesso tergiversano. Non “tara genetica”, non “resistenza subconscia”.
Chi ha potere (anche istituzionale) ha anche responsabilità precise.
Se un ministro agisce come magistrato da anni, come nel caso di Carlo Nordio, quando pronuncia concetti di questo tipo, dovrebbe misurare bene la gravità delle parole perché queste parole investono, coinvolgono, definiscono le politiche, il tono pubblico, le priorità. Eppure lui parla come se la violenza contro le donne fosse una conseguenza inevitabile dell’essere “maschio”. Non è così. Non può esserlo.
Se una ministra per le pari opportunità, come Eugenia Roccella, sminuisce l’educazione affettiva e relazionale scolastica come strumento marginale, sta fraintendendo gravemente il ruolo della prevenzione nelle scuole: la scuola non è solo luogo di trasmissione di nozioni, ma di trasformazione relazionale, di modelli. È da lì che devono passare il rispetto, il consenso, la parità.
Basta con queste metafore genetiche che aboliscono la responsabilità degli adulti.
Investiamo nella cultura del rispetto, nelle scuole, nelle famiglie, nella giustizia riparativa e nella prevenzione.
Rifiutiamo chi propone che “la violenza maschile è nel DNA”. Perché se è così, allora non resta che rassegnarsi m…e non accetterò mai la rassegnazione su un punto così fondamentale.
…non possiamo tollerare che al vertice delle istituzioni ci siano voci che parlano di incapacità di tollerare la parità tra i generi come di un male da “rimuovere dal subconscio degli uomini”. O, addirittura, dal loro DNA.
La parità non è un optional, non è un favore, non è un “obbligo che pesa”.
È un fondamento civico, è un diritto, è una condizione della convivenza democratica. E chi non lo capisce, o lo ostacola con retoriche tossiche, va chiamato fuori dal campo di battaglia perché non è in grado di affrontarla.