30/10/2025
L’oculistica Romana
Sono grato per mia madre.
E per quell’oculistica romana che, dai suoi tempi, non è mai davvero cambiata.
Medici che restano in studio fino a sera tardi, curvi sui pazienti, con il collo che fa male e il cuore pieno, tornano a casa distrutti — forse lamentandosi, forse senza neanche rendersene conto.
A volte mi viene voglia di tornare.
Per far vedere che cosa sono diventato. Chi sono diventato.
E so che non sarebbe una cosa impossibile.
C’è chi mi stima. Chi vorrebbe che tornassi.
A Roma.
E solo a pensarci, una parte di me sente gonfiarsi il petto.
Sarebbe la chiusura del cerchio, il coronamento di un sogno che, per anni, è rimasto sospeso.
Mamma ne sarebbe orgogliosa.
Forse piangerebbe di gioia, forse rimetterebbe a nuovo lo studio, direbbe: “si ricomincia!”.
Luciderebbe il laser, richiamerebbe Grazia — la segretaria, moglie del portiere — manderebbe le cartoline ai pazienti.
Forse comprerebbe finalmente quello strumento costoso che una volta le sconsigliai, perché avevo già capito che qualcosa non andava, che la sua mente cominciava ad allontanarsi.
Ma no, non ci sarebbe mamma.
Perché mamma ormai guarda il muro con lo sguardo perso, non parla più.
Non torna più la sera tardi, stanca, insieme a papà, mentre io li aspetto sul divano guardando la tv, una partita dell’Italia o un film di Fantozzi.
Cresciuto dalla tata mentre loro erano al lavoro.
Non la sentirò più lamentarsi del segretario pasticcione, né raccontare le sue giornate di pazienti e di sale visite.
Non sentirò più niente di tutto questo.
Perché c’è stato un prima e c’è un dopo.
E se il dopo è pieno di vita, di movimento, di nuove conquiste — guarda Gianmi e Gabri, che non sono quasi più bambini — guarda le cose che ho fatto: gli interventi, le vitrectomie, i piombi maculari, i distacchi complicati, i traumi impossibili, le FOV su pazienti da tutto il mondo — sempre andando in bicicletta e tornando a casa alle quattro e mezza del pomeriggio per giocare con i miei figli o andare a surfare — allora il prima è andato, per sempre.
Eppure, a volte, basta una voce, un tono familiare, un’eco di quella Roma professionale e un po’ teatrale, per farmi tornare là.
A quel mondo fatto di rispetto, silenzio e fatica; di studi medici che odorano di alcol e collirio midriatico, di congressi pieni di sguardi conosciuti e rituali sempre uguali.
Un mondo che ho respirato per anni, che mi ha formato, e che mi scorre ancora nel sangue.
Mi ricordo quando, ai congressi, mamma mi presentava cento volte alle stesse persone:
“Lui è mio figlio, anche lui oculista.”
Vecchi colleghi a cui mi avrebbe volentieri affidato.
Ma erano gli anni in cui gli ospedali non assumevano.
Nessuno ti insegnava davvero.
“Vuoi fare la retina? Ma mettiti in fila, dai, portami la borsa.”
Gli anni in cui ti facevi trecento chilometri al giorno per andare a bagnare gli occhi alle cataratte del professore.
In sala operatoria ci stavi, sì, ma a guardare il monitor, mentre aspettavi un concorso che non arrivava mai.
Gli anni in cui poi qualcuno entrava, e non eri mai tu.
E io, dentro di me, già altrove, già con la testa lontana — ma ancora immerso in quell’olio romano, denso, familiare.
Io non sono migliore di chi è rimasto.
Vengo da lì.
Ne porto dentro la sostanza, l’anima, quella che non si trova altrove e che è, da sempre, anche il nostro limite.
Ho solo preso un’altra strada.
E mentre loro continuavano a resistere nella giungla professionale romana, io mi sono spostato, ho costruito altrove.
Fino a quando, quasi all’improvviso, è arrivato il dopo — quello in cui papà non c’è più, mamma guarda il muro, e a Roma c’è persino qualcuno che vorrebbe che tornassi a lavorarci.
E allora mi fermo, respiro, e sento solo una cosa:
gratitudine.
Per tutta la fatica, la dedizione, le lamentele e la stanchezza di mia madre.
Le devo tutto.
Lei è — e sarà sempre la mia oculista romana.