Germana Verganti Psicoterapeuta Milleriana-Analista Transazionale EMDR

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Germana Verganti Psicoterapeuta Milleriana-Analista Transazionale EMDR Analista Transazionale, Terapeuta TIST 2° livello(J.

Fisher), EMDR 2°liv., CFT Compassion Focused Therapy, Facilitatore Mindfulness (MBSR), Assessment ADHD adulti.

Dipendenza affettiva:La condizione di dipendenza affettiva istituisce una forte scissione tra razionalità ed emotività, ...
20/12/2025

Dipendenza affettiva:
La condizione di dipendenza affettiva istituisce una forte scissione tra razionalità ed emotività, livelli che in una relazione funzionale risultano invece integrati. Le persone dipendenti sperimentano un conflitto tra l’evidenza razionale di un amore “sbagliato” che produce continue delusioni e sofferenza logorante e una potente spinta emozionale a continuare il rapporto. Questa spinta si traduce in impulsività e spazza via ogni consapevolezza razionale, portando l’individuo ad attuare comportamenti che egli stesso, terminato l’impulso, riconosce come irrazionali e controproducenti, e di cui si vergogna.[...]
◇Che cosa spinge una persona a permanere in una relazione disfunzionale e a sacrificare per un pugno di mosche il proprio equilibrio psicologico? Non ci sono risposte logiche, ma psico-logiche, risposte che fanno riferimento alla struttura profonda del funzionamento psichico che lavora al di là della razionalità e per tutta la vita guida le nostre scelte ben oltre e ben al di là del nostro controllo cosciente. La psico-logica che sottende alla dipendenza affettiva fa riferimento a convinzioni errate su se stessi, sugli altri e sul mondo, convinzioni che la persona ha appreso a partire dai primi rapporti familiari e rinforzato nel corso della vita passando per un certo numero di crisi, traumi ed eventi micro-traumatici apparentemente insignificanti verificatisi nelle relazioni sociali. Si tratta di credenze fortemente interiorizzate e non consapevoli che influenzano e distorcono la percezione e l’interazione con la realtà.[...]
◇Sono almeno tre i fattori che accomunano i sistemi di convinzioni dei dipendenti affettivi: la tendenza all’utopia, l’illusione di controllo e l’illusione del cambiamento.
● La tendenza all’utopia:
I dipendenti affettivi sono ammalati di utopie e perciò risentono di un modello implicito dell’amore e delle relazioni di coppia scarsamente realistico. Non importa se l’utopia in gioco sia positiva o negativa perché sul piano psicologico comporta lo stesso risultato: l’attaccamento patologico in storie logoranti. [...]. La tendenza all’utopia trasforma nella mente dipendente affettiva rospi in principi, cani randagi in re e iene in angeli. L’alterazione del senso di realtà che appare così illogico e f***e all’osservatore esterno, soddisfa invece la condizione psico-logica dell’utopia da realizzare a tutti i costi.
●L’illusione del controllo:
Attraverso l’illusione del controllo il dipendente affettivo sposta ogni colpa su di sé, sul terreno del proprio sé che, in quanto tale, è il solo passibile di modifica a fronte dei territori impervi e paradossali della psicologia dell’altro. In questo modo si origina la convinzione, ansiolitica eppure gravemente confusiva, che esista un modo, un modo qualunque, anche il più disperato, per conformarsi alle volontà del partner.
●L’illusione del cambiamento Il terzo meccanismo che mantiene la dipendenza affettiva consiste nell’idea illusoria che, col tempo e con opportune “manovre” psicologiche, il partner possa cambiare e il rapporto diventare equilibrato. Chi insite su una relazione dipendente rimugina continuamente su come avviare questo magico cambiamento nell’altro e, non di rado, chiede l’aiuto di uno psicoterapeuta motivandolo col bisogno di escogitare strategie per “catturare” l’oggetto d’amore deludente, violento o riluttante.[...]
L’illusione del cambiamento deforma la percezione del dipendente affettivo, portandolo a percepire in modo selettivo i (pochi) segnali di reciprocità e a trascurare del tutto o quasi la mole di comportamenti negativi del partner che, in una condizione di lucidità, imporrebbero un’immediata chiusura della storia.
E.M.Secci

Punire un bambino per ciò che prova significa insegnargli a odiare se stesso.
20/12/2025

Punire un bambino per ciò che prova significa insegnargli a odiare se stesso.

“Un bambino educato nella paura non sviluppa autonomia, ma dipendenza o ribellione.”J. Bowlby
20/12/2025

“Un bambino educato nella paura non sviluppa autonomia, ma dipendenza o ribellione.”
J. Bowlby

“Un ambiente che punisce invece di comprendere costringe il bambino a costruire un falso Sé.”D. Winnicott
20/12/2025

“Un ambiente che punisce invece di comprendere costringe il bambino a costruire un falso Sé.”
D. Winnicott

Quando un bambino riceve uno schiaffo o gli si urla contro, quello che vive va ben oltre il gesto fisico e le urla. Anch...
19/12/2025

Quando un bambino riceve uno schiaffo o gli si urla contro, quello che vive va ben oltre il gesto fisico e le urla. Anche se l’intenzione del genitore è quella di educare, il messaggio che arriva al bambino è decisamente diverso. Infatti il bambino non coglie una regola, ma vive un’esperienza di paura, confusione, umiliazione e solitudine, la figura da cui dipende per la propria sicurezza e che dovrebbe proteggerlo, diventa fonte di dolore, e questo crea una frattura difficile da superare perché il bambino non ha gli strumenti cognitivi ed emotivi per distinguere l’atto dall’intenzione. Non può pensare che il genitore sia stanco, esasperato o privo di alternative educative; tende invece a rivolgere il significato dello schiaffo o delle urla verso se stesso. Interiorizza l’idea di essere sbagliato, cattivo, immeritevole di amore proprio quando sbaglia o esprime un’emozione. L’obbedienza che spesso segue la punizione non è frutto di comprensione, ma di paura, e questa paura si accompagna a un vissuto di impotenza che mina lentamente la fiducia in sé nel genitore e negli altri.
Alice Miller ha descritto con grande lucidità questo processo, denunciando quella che ha definito pedagogia nera, un modello educativo in cui la violenza fisica o emotiva viene giustificata come necessaria alla crescita. Secondo A.Miller, ogni forma di punizione corporale nega i bisogni fondamentali del bambino, primo fra tutti quello di essere visto e riconosciuto emotivamente. Il bambino ha bisogno di un adulto che sappia accogliere la sua rabbia, la sua frustrazione, il suo disorientamento; quando invece viene colpito per aver espresso un’emozione o per non aver saputo regolarsi, impara che sentire è pericoloso.
Ancora più dolorosa è la situazione in cui schiaffi/urla non nascono da un intento educativo, errato, ma dall’incapacità del genitore di regolare le proprie emozioni. In questi casi il bambino diventa il contenitore di rabbia e frustrazione che l’adulto non è in grado di elaborare e gestire adeguatamente. Dinamiche psicologiche irrisolte, ferite infantili mai riconosciute, vissuti di impotenza o di fallimento vengono riversati sul figlio. Il bambino percepisce tutto questo con grande sensibilità, ma non potendo dare un senso, sente che l’amore è instabile, imprevedibile, legato al suo comportamento, e sviluppa una costante ipervigilanza per evitare nuove esplosioni dell’adulto.
Alice Miller sottolinea come il bambino, per sopravvivere emotivamente, sia costretto a reprimere la rabbia e il dolore che prova verso il genitore. Non potendo riconoscere l’adulto come fonte di ingiustizia, dirige l’aggressività verso se stesso o la rimuove completamente. Queste emozioni non scompaiono, ma restano silenziose e possono riemergere più avanti nella vita sotto forma di ansia, depressione, difficoltà relazionali, comportamenti autodistruttivi o violenza agita su altri. In questo senso, lo schiaffo non è mai un episodio isolato, ma un’esperienza che si inscrive nella memoria emotiva del bambino.
Educare significa accompagnare nella comprensione. Un bambino che sbaglia non ha bisogno di essere colpito, ma va aiutato a dare un nome a ciò che sente e a ciò che fa. Quando l’adulto riesce a fermarsi, a riconoscere i propri limiti emotivi e a non agire la propria rabbia, offre al bambino un modello fondamentale di autoregolazione. È in questo spazio di sicurezza emotiva che il bambino può davvero interiorizzare le regole, non per paura, ma perché si sente visto, rispettato e degno di amore anche quando sbaglia.
Evitare tutto ciò che è pedagogia nera significa interrompere una catena di sofferenza che spesso si tramanda di generazione in generazione e restituire al bambino il diritto fondamentale di crescere senza dover sacrificare se stesso per essere amato.

Perché alcune persone, rispetto a SITUAZIONI TRAUMATICHE ricordano tutto, e altre invece non ricordano nulla?Di fronte a...
18/12/2025

Perché alcune persone, rispetto a SITUAZIONI TRAUMATICHE ricordano tutto, e altre invece non ricordano nulla?

Di fronte a un trauma, non tutte le persone reagiscono allo stesso modo, questo per motivi psicologici e neurologici.
Le situazioni traumatiche attivano l’amigdala che è coinvolta nell’elaborazione delle emozioni, soprattutto quella della paura, e il sistema nervoso autonomo. Questo può potenziare la memoria dell’evento traumatico, rendendolo vivido, anche se frammentato o scollegato da un contesto.
Se il bambino vive in un ambiente imprevedibile e/o minaccioso e violento, allora è possibile che entri in uno stato di dissociazione prolungata per proteggersi, con l'obiettivo di attutire le emozioni e la percezione di sé e/o dell'ambiente, con la conseguenza di attenuare la forza dei ricordi attinenti fatti non traumatici. Quindi la mente si focalizza su ciò che ritiene minaccioso e pericoloso, sta costantemente in allerta, e lo fa per garantirsi la sopravvivenza, non prestando la stessa attenzione ai fatti della vita quotidiana, che vengono quindi rimossi, dimenticati.
Alcune persone rimuovono il trauma, altre rimangono bloccate nei ricordi traumatici, perché il cervello non riesce a integrarli nel resto della memoria. Questo può dipendere da diversi fattori come:
-l'età in cui si è vissuto il trauma
-per quanto tempo si è stati esposti a situazioni violente/maltrattanti.
-la presenza o meno di una figura affettiva protettiva e rassicurante (testimone soccorrevole)
- il funzionamento neurobiologico individuale.
Tutte queste modalità hanno lo scopo di favorire la sopravvivenza e l'adattamento di una persona in contesti altamente disfunzionali e quindi sono molto utili in quel periodo.

Aiutare il corpo a capire che il pericolo è finito significa riconoscere che il trauma non vive solo nei ricordi, ma si ...
16/12/2025

Aiutare il corpo a capire che il pericolo è finito significa riconoscere che il trauma non vive solo nei ricordi, ma si evidenzia soprattutto nel modo in cui il corpo continua ad attivarsi ancora oggi. Dopo un’esperienza traumatica molte persone sanno razionalmente di essere al sicuro, ciò non è sufficiente, perché in realtà non riescono a percepire realmente un senso di sicurezza interna. Il corpo rimane in uno stato di allerta, come se potesse accadere da un momento all’altro qualcosa di pericoloso. Questo succede perché il trauma si manifesta anche in un insieme di reazioni automatiche legate alla sopravvivenza, come ad esempio il sentirsi in tensione costante, essere ipervigilanti, bloccati, congelati. Per questo non è sufficiente rassicurarsi con la logica. Il corpo impara attraverso esperienze, concrete e ripetute, di sicurezza. Quando un evento è stato troppo intenso o improvviso, il sistema nervoso può restare bloccato in una modalità di difesa, come se il tempo si fosse fermato al momento in cui èavvenuto il trauma. In questi casi, affrontare direttamente i ricordi senza prima aiutare il corpo a regolarsi può riattivare il trauma invece di scioglierlo. Le terapie del trauma più efficaci partono proprio da questo punto: prima di cercare un significato o una spiegazione, aiutano la persona a ritrovare una sensazione di stabilità nel presente. Non significa eliminare i sintomi o forzare il rilassamento, ma permettere al corpo di fare nuove esperienze in cui sentirsi un po’ più al sicuro, un po’ più padrone della situazione. Attraverso il recupero della possibilità di scelta, dell’orientamento nel qui e ora e di una relazione terapeutica s8cura ed affidabile, il sistema nervoso può gradualmente aggiornarsi e smettere di reagire come se il pericolo fosse ancora attivo. Quando il corpo non viene più vissuto come un nemico da controllare, ma come qualcosa che ha cercato di proteggere la persona nel modo migliore possibile, la vergogna e l’autocolpevolizzazione iniziano a diminuire. A quel punto il trauma non scompare, ma smette di incombere nel presente lasciando finalmente spazio a una sensazione reale di sicurezza.
Tra gli approcci terapeutici utili in tal senso troviamo la terapia sensomotoria, l’EMDR, gli approcci ispirati alla teoria polivagale e alla psicoterapia dell’attaccamento, le pratiche mindfulness orientate al trauma.

Il dolore che non viene riconosciuto all’interno di una famiglia non scompare, ma si trasmette di generazione in generaz...
15/12/2025

Il dolore che non viene riconosciuto all’interno di una famiglia non scompare, ma si trasmette di generazione in generazione sotto forma di silenzi, rimozioni ed evitamento emotivo. Molti sistemi familiari sopravvivono fingendo che nulla sia accaduto, negando parole, gesti ed esperienze che hanno lasciato ferite profonde. In questo contesto, talvolta nasce una persona particolarmente sensibile, capace di percepire ciò che è stato ignorato e di entrare in contatto con emozioni rimaste inesplorate per anni. Questa sensibilità non è una fragilità, ma una funzione riparativa, perché permette di dare spazio e voce a un dolore che non appartiene solo all’individuo, ma all’intera storia familiare. La guarigione diventa possibile solo quando si accetta di sentire pienamente ciò che c’è, anche senza comprenderlo subito, restando presenti alla rabbia, alla tristezza e alla paura invece di evitarle. È un processo faticoso e spesso doloroso, ma rappresenta il punto di svolta in cui si interrompe la trasmissione del trauma e inizia un movimento autentico verso l’integrazione e il cambiamento.

I sopravvissuti al trauma spesso non hanno ricordi chiari di ciò che è accaduto, ma vivono il trauma  attraverso i sinto...
14/12/2025

I sopravvissuti al trauma spesso non hanno ricordi chiari di ciò che è accaduto, ma vivono il trauma attraverso i sintomi. Questo accade perché un evento traumatico è, per il cervello, qualcosa di troppo intenso per essere elaborato come una normale esperienza del passato. In una situazione di pericolo estremo, il cervello non si occupa di capire o ricordare, il suo unico compito è mantenere la persona in vita. Per questo entra in una modalità di emergenza in cui le funzioni riflessive si riducono ( si spegne la corteccia prefrontale)e prendono il sopravvento i sistemi di difesa del corpo. L’esperienza non viene trasformata in un racconto con un inizio e una fine, ma resta sotto forma di sensazioni fisiche, emozioni e reazioni automatiche.
Quando il trauma non diventa un ricordo, non è elaboraro, allora continua a vivere nel presente. Il corpo impara che il mondo non è sicuro, che bisogna stare sempre all’erta o che sentire è pericoloso, ma lo impara senza parole, attraverso la tensione muscolare, il respiro, gli ormoni e l’attivazione costante del sistema di allarme. È per questo che una persona può sapere razionalmente di essere al sicuro e, allo stesso tempo, sentirsi in pericolo. Il corpo non è stato aggiornato e reagisce come se l’evento stesse accadendo di nuovo ogni volta che qualcosa, anche solo vagamente simile, riattiva quell’antica minaccia.
I sintomi che emergono dopo un trauma sono adattamenti di sopravvivenza. Ad esempio la depressione può funzionare come un rifugio che permette di ritirarsi da un mondo percepito come troppo doloroso. L’irritabilità e la rabbia possono servire a tenere gli altri a distanza, riducendo il rischio di nuove ferite. L’apatia e la perdita di interesse possono proteggere dal dolore di desiderare ciò che è stato perduto. L’ansia costante è un sistema di allarme sempre acceso che cerca di prevenire un altro disastro. Anche comportamenti come le dipendenze o le compulsioni nascono spesso come tentativi di regolare emozioni insopportabili quando non esistono altri strumenti. In questo senso, i sintomi non sono il problema, ma la soluzione migliore che il sistema nervoso ha trovato in una situazione estrema.

Il trauma, quindi, non è semplicemente ciò che è successo, ma ciò che è rimasto dentro quando non c’era modo di scappare, capire o sentirsi al sicuro. Finché il corpo non sperimenta una sicurezza reale e ripetuta, continuerà a reagire come se il pericolo fosse ancora presente. La guarigione non avviene tornando ossessivamente all’evento in sé, né combattendo i sintomi come se fossero nemici. Avviene quando quei sintomi vengono compresi come messaggi di protezione, quando le emozioni possono essere sentite gradualmente senza travolgere e quando il corpo, attraverso nuove esperienze, apprende che il tempo del pericolo è finito.
Quando questo accade, ciò che prima viveva come reazione automatica può finalmente diventare un ricordo: qualcosa che appartiene al passato, con un inizio e una fine. I sintomi, non essendo più necessari, iniziano allora a diminuire. In questa prospettiva, i sopravvissuti al trauma non sono persone “rotte”, ma individui che hanno sviluppato strategie profonde e intelligenti per continuare a vivere in condizioni che non offrivano alternative migliori.

“Il nemico dell’amore è la critica rivolta all’altro. Se qualcuno ti critica è perché non ti ama. Bisogna accettare l’al...
14/12/2025

“Il nemico dell’amore è la critica rivolta all’altro. Se qualcuno ti critica è perché non ti ama. Bisogna accettare l’altro così com’è.”
A. Jodorowsky

Le persone traumatizzate possono cercare esperienze intense, dolorose o pericolose perché il loro sistema emotivo si è a...
13/12/2025

Le persone traumatizzate possono cercare esperienze intense, dolorose o pericolose perché il loro sistema emotivo si è adattato al trauma e ha imparato a funzionare soprattutto in stati di forte attivazione come rabbia, paura o sottomissione. La calma e la sicurezza, non essendo state esperienze familiari, vengono vissute come vuoto, noia o assenza di senso. Il dolore non è cercato perché piace, ma perché è conosciuto e rompe l’intorpidimento emotivo e la dissociazione, permettendo di sentirsi vivi. Questo comportamento non è una scelta consapevole, ma un adattamento di sopravvivenza che in passato ha aiutato a reggere situazioni insopportabili e che continua ad agire anche quando non è più necessario.

La madre possessiva appare come una madre esemplare,  presente, attenta, affettuosa, profondamente coinvolta nella vita ...
13/12/2025

La madre possessiva appare come una madre esemplare, presente, attenta, affettuosa, profondamente coinvolta nella vita del figlio. Si dedica a lui completamente, ne anticipa i bisogni, lo protegge da ogni possibile frustrazione. Il problema di questo tipo di madre è che non permette la separazione e il processo di individuazione del figlio. Questo tipo di madre non tollera che il figlio sviluppi una propria individualità ed autonomia. L’amore manifestato diventa quindi un modo per avere il controllo sul figlio. Questo spesso avviene in modo inconsapevole, ma è un tipo di relazione che impedisce al bambino di crescere in modo sano.
Infatti il figlio cresce in una relazione simbiotica patologica, dove i confini tra sé e la madre non sono mai stati chiaramente tracciati, ma sono diffusi, sovrapponibili, invischiati. Il bambino impara che il benessere della madre dipende da lui e che ogni suo tentativo di autonomia provoca sofferenza, senso di colpa o ritorsioni emotive. La separazione non è vissuta come un processo naturale, ma come un tradimento. Di conseguenza, il bambino reprime i propri impulsi evolutivi, i desideri, la sessualità, la curiosità verso il mondo, interiorizzando l’idea che prendersi cura di sé significhi ferire l’altro.
Diventato adulto, questo figlio può apparire funzionale, ma spesso sperimenta un profondo senso di vuoto identitario. Fatica a riconoscere i propri bisogni, a fare scelte autonome, a sostenere la responsabilità della propria vita. La colpa accompagna ogni tentativo di indipendenza e la paura dell’abbandono rende complessa la costruzione di relazioni affettive mature. L’altro viene vissuto alternativamente come rifugio o come minaccia, e l’intimità può risultare soffocante o, al contrario, angosciante quando implica distanza.

La madre non comprende e non riconosce il proprio comportamento come abusante. È convinta di aver amato nel modo giusto e di aver fatto tutto il possibile, pertanto vive la separazione del figlio come un rifiuto personale o un atteggiamento ingrato. Non soffre per il vuoto lasciato dalla crescita del figlio, ma per la perdita del controllo e del ruolo identitario che quel legame le garantiva. Il figlio non è stato percepito come un soggetto distinto, ma come un’estensione di sé, indispensabile al proprio equilibrio emotivo.
Uscire da questa dinamica richiede un processo lungo e spesso doloroso. Significa riconoscere che ciò che è stato chiamato amore conteneva elementi di dipendenza e di invasione, e che l’autonomia non equivale alla distruzione del legame. La separazione, ènecessaria per evolversi. Stabilendo confini chiari il figlio ha la possibilità dj diventare un individuo autonomo capace di fare le sue scelte.
È un processo che comporta senso di colpa, paura e solitudine, ma che dà il via alla possibilità di relazioni più sane, fondate non più sulla simbiosi o sul bisogno, ma sul riconoscimento reciproco.

Autore immagine Lera

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Chi sono...

Sono Psicologa-Psicoterapeuta Analista Transazionale Certificata, iscritta all’Ordine degli Psicologi del Lazio. Ho conseguito la Laurea in Psicologia dello Sviluppo, presso l’Ateneo Salesiano di Roma. Successivamente ho proseguito gli studi specializzandomi alla Sspc-IFREP di Roma, diventando Psicoterapeuta. Durante la mia formazione ho svolto attività come psicologa al il CRARL- Centro Alcologico Regione Lazio, presso il Policlinico Umberto I di Roma, e mi sono occupata di pazienti acuzie e post acuzie ricoverati in una RSA, facendo valutazioni psicodiagnostiche e colloqui di sostegno. Attualmente mi occupo di terapia individuale e di gruppo con adulti. Ricevo presso lo studio di Corso Trieste 59 A e presso Via Chiana 35, a Roma.