11/12/2025
Entri in una casa, qualsiasi casa.
All’apparenza tutto è normale: stoviglie da lavare, tende abbassate, una TV che parla in sottofondo.
Ma dietro le porte chiuse si consumano storie che non si vedono, dolori che nessuno racconta.
C’è la madre che rientra la sera e si siede un attimo sul letto. Le mani odorano di detersivo e la schiena le brucia di fatica. In cucina ha sorriso ai figli, ha chiesto “com’è andata a scuola?”, ma dentro sente solo il vuoto e la stanchezza. Poi un bicchiere cade a terra, si frantuma, e lei urla. Non era un urlo per il bicchiere, era un urlo contro tutto il peso che porta dentro.
C’è il padre che di notte si rifugia in bagno con le bollette in mano, si chiede come dire alla famiglia che i soldi non bastano. Non vuole che lo vedano piangere. Pensa: “Che uomo sono se non riesco a proteggere la mia famiglia?” Al mattino si veste bene, si impone un sorriso e parla di calcio con i colleghi. Ma basta una parola storta perché esploda. Non ce l’ha con quella persona, ce l’ha con la paura di non valere più niente.
C’è l’adolescente che finge di studiare, con gli occhi rossi si tiene la testa tra le mani. Sente il respiro corto, la pressione addosso: “Devo farcela, non posso sbagliare.” Quando prende un brutto voto non piange, no. Urla, lancia la penna contro il muro. Meglio arrabbiarsi che ammettere di sentirsi fragile.
C’è la donna che in ufficio ha ingoiato l’ennesima battuta fuori posto. Ride, perché se reagisse sarebbe “troppo permalosa”. Poi torna a casa e trova il disordine dei figli, il partner distratto, e scatta. Il problema non sono le scarpe in giro, ma il veleno ingoiato tutto il giorno.
C’è il ragazzo che scrolla per ore Instagram. Vede corpi scolpiti, sorrisi senza crepe, coppie felici. Poi si guarda allo specchio, si vede inadeguato, “sbagliato”. Pensa: “Chi potrebbe mai volermi davvero?” Ogni like che non arriva glielo conferma.
C’è il ragazzo gay che torna da scuola e si chiude in camera. A tavola parla poco, non vuole sbagliare parole e non sa come fare, si sente in trappola. Dentro ha un amore che non sa come dire, che non può confessare. Ha paura di perdere l’affetto di chi ama di più. Così sorride, mentre dentro soffoca un urlo.
Ci sono i neogenitori che guardano il loro bambino dormire con amore immenso, ma le occhiaie profonde e le notti senza sonno li hanno logorati. Si amano, ma si perdono tra pannolini, pianti e la fatica di non riconoscersi più.
C’è la coppia che sembra perfetta agli amici. Cene, foto e sorrisi. Ma a casa, a tavola, ognuno fissa il proprio telefono. Si parlano solo per cose pratiche: la spesa, le bollette, gli impegni. Non si toccano quasi più, eppure dicono “stiamo bene”.
C’è la coppia separata in casa che non riesce a lasciarsi del tutto. Dormono in stanze diverse, si incrociano nel corridoio in silenzio. I figli fingono di non capire, ma sentono l’aria pesante, il freddo nei gesti. In salotto la televisione fa finta di tenere compagnia, ma la verità è che lì dentro regna il gelo.
C’è chi ha l’amante e si divide tra due vite. Una ufficiale, fatta di sorrisi forzati e routine, e una segreta, fatta di messaggi cancellati e ansie continue. Non è solo passione, spesso è la ricerca disperata di sentirsi ancora vivi, visti, scelti. Ma dentro resta il vuoto.
C’è chi cerca un figlio e non ci riesce. Ogni mese la speranza si accende e si spegne, visite mediche, PMA che logora il corpo e il cuore. Ogni visita medica è una prova del corpo e ogni attesa un dolore dell’anima. E poi arriva la domanda innocente: “Ma voi, quando lo fate un bambino?” Sorridono, rispondono vago. Poi tornano a casa e piangono in silenzio.
C’è la ragazza che apre le chat di incontri. Vorrebbe solo qualcuno che la ascolti, che le chieda come sta, sperando in un po’ di tenerezza. Invece trova messaggi freddi, richieste veloci, foto spinte. Si sente usata ancora prima di incontrare qualcuno. E ogni volta si chiede se mai qualcuno la vedrà davvero.
C’è chi ha lasciato il proprio Paese per cercare un futuro. Ogni giorno combatte con una lingua che non è la sua, con sguardi che lo giudicano straniero. Si sente sospeso, non più di là, non ancora di qua.
C’è la nonna che tutti chiamano quando serve una mano con i nipoti. Porta la spesa, cucina, li accompagna a scuola. Ma nessuno le dice: “Ti va un caffè e quattro chiacchiere solo per te?” Si sente utile, sì. Ma invisibile come donna, come persona.
C’è chi ha perso qualcuno e vive tra oggetti che gridano “presenze assenti”. La sedia vuota a tavola, la giacca ancora appesa all’ingresso. Gli altri dicono “devi reagire”, ma lui sente che ogni giorno è un macigno, una montagna da scalare senza fiato.
C’è l’anziano che aspetta la telefonata di un figlio che non arriva. Ogni giorno accende il cellulare sperando. Quando finalmente qualcuno lo saluta, risponde brusco, acido. Non perché non sia felice, ma perché la solitudine lo ha corroso al punto da non sapere più come chiedere affetto.
C’è chi è malato e non trova aiuto. Visite rimandate, file infinite, medici che parlano una lingua troppo tecnica e fredda. A casa il dolore resta, insieme alla paura di pesare sugli altri, di non farcela. Non sempre urla, spesso tace. Ma dentro brucia l’ingiustizia di sentirsi lasciato solo proprio quando avrebbe più bisogno di qualcuno.
E ci sono ferite antiche, invisibili. Abbandoni mai raccontati, violenze mai nominate. Restano sotto pelle come cicatrici aperte. Basta un gesto sbagliato, e il sangue torna a scorrere.
E allora basta davvero poco, una parola detta male, un commento online, una manovra sbagliata in strada… E la miccia prende fuoco. Non reagiamo a quell’attimo lì, ma a tutto il dolore che ci portiamo addosso.
La risposta di pancia non è sempre cattiveria, spesso è dolore che non trova voce. Forse non siamo diventati più crudeli ma sicuramente siamo diventati più fragili, più soli, più pieni di cicatrici mai curate. E i social ci hanno tolto l’ultima difesa, nasconderlo, ora infatti tutto si vede, tutto esplode in pubblico, senza filtri.
La vera forza non è colpire più forte e più spietato. La vera forza è fermarsi un istante, riconoscere il veleno che ci abita e scegliere di non spargerlo. Perché quel veleno non cerca davvero un nemico: cerca ascolto, comprensione e cura. E solo così, invece di ferire, possiamo finalmente provare a guarire. VS