Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta

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Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta Psicologa - Psicoterapeuta - Analista Transazionale Nella mia pratica clinica, nel mio studio a Roma, mi occupo di consulenza e supporto psicologico.

Questa pagina ha lo scopo di fornire spunti di riflessione su tematiche legate alla psicologia, al confronto e allo scambio di opinioni. Non fornisco consulenze tramite Facebook, invito chiunque ne abbia bisogno a rivolgersi ai professionisti più adeguati. Psicoterapia. Colloqui individuali. Supporto durante i percorsi di Procreazione Medicalmente Assistita, sterilità e infertilità, ansia, attacchi di panico, fobie, compulsioni, ossessioni, depressione, lutto, perdita, separazione, divorzio, abbandono, difficoltà relazionali e affettive, fasi critiche della vita, disagio e conflitto col partner, con i figli o nel rapporto familiare, problemi di autostima, senso di vuoto, inefficacia, paura di vivere, solitudine, dipendenze, mobbing, disturbi dell’alimentazione, difficoltà di gestione di esperienze traumatiche, problematiche legate alla sfera sessuale individuale e di coppia, problematiche dell’identità, disturbi di personalità. Qualsiasi pubblicazione relativa alla pubblicità di altri siti o pagine Facebook effettuata sulla mia pagina senza autorizzazione, verrà rimossa. La maggior parte delle immagini inserite in questa pagina sono prese da internet; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore, non esitate a comunicarmelo e provvederò a rimuoverle.

14/11/2025

L’invidia è una di quelle emozioni che non ci piace ammettere. È scomoda, innominabile, quella che nascondiamo nel retrobottega di ciò che proviamo davvero.
Eppure, se ci pensiamo, l’invidia è una delle prime emozioni che ci insegnano qualcosa su di noi.

Da bambini la sentiamo come una f***a: l’altro ha un giocattolo, un’attenzione, un gesto… e noi ci sentiamo subito un passo indietro. Non sappiamo spiegalo, ma lì nasce già l’idea di valore: “Se lui sì, allora forse io no.”

Crescendo, questa dinamica non sparisce. Si fa più sottile, più silenziosa, ma resta lì: una corrente che si muove dentro quando vediamo qualcuno brillare proprio nel punto in cui noi ci sentiamo ancora incerti o incompiuti.
E lì incontriamo una difficoltà molto umana, la fatica di riconoscere che stiamo provando invidia. Perché culturalmente “è brutta”, e abbiamo paura che ammetterla significhi essere persone cattive o velenose.

Così la nascondiamo. E più la nascondiamo, più ci avvelena da dentro. Non è l’invidia in sé a renderci tossici, è l’invidia negata: quella che non ascoltiamo e che, proprio per questo, diventa giudizio verso l’altro, svalutazione, irritazione, freddezza… o addirittura auto-svalutazione.
Questa è l’invidia cattiva: quella che non guarda il desiderio, ma la persona. Quella che ci fa dire, anche solo mentalmente: “Preferirei che tu non avessi questa cosa.”

E in momenti così ci rendiamo conto di una cosa molto semplice, le emozioni non vanno cacciate, vanno guardate. Perché ogni emozione porta un messaggio, e l’invidia è forse una delle più oneste. Non mente. Non arriva per caso. Arriva per mostrarci un desiderio rimasto indietro. Questa è l’invidia buona. Quella che ci punge ma allo stesso tempo ci spinge. Quella che, se la sappiamo ascoltare, ci indica una direzione.

Un esempio quotidiano che potremmo vivere:
una persona a cui vogliamo bene trova il coraggio di cambiare vita, lavoro, città.
Una parte di noi si congratula. Un’altra parte, più nascosta, sente una f***a.
Se la ascoltiamo senza giudicarci, quella f***a ci sta dicendo: “Anch’io desidero una libertà così.”
Se la respingiamo, invece, diventa quella freddezza sottile, quella frase che ci esce un po’ velenosa: “Eh, beato lui.”

E la differenza tra queste due vie è esattamente la differenza tra invidia buona e invidia cattiva.

Poi c’è l’altra faccia: quella di sentirci invidiati. È una sensazione sottile, che spesso si percepisce più di quanto si veda. Un sorriso che cambia appena, un complimento che si ferma a metà, un entusiasmo che si smorza senza motivo. E allora ci viene spontaneo rimpicciolirci, parlare meno, ridurre la nostra luce, andare in penombra, custodire la gioia per non creare tensioni con l’altro.

Un esempio quotidiano:
raccontiamo una nostra piccola vittoria. E nei secondi successivi percepiamo un leggero gelo, una smorfia trattenuta. Subito pensiamo: “Forse ho detto troppo, dovevo stare zitto”
E quasi ci scusiamo per qualcosa che avrebbe meritato invece di essere celebrato.

Quando sentiamo l’invidia degli altri, si attiva una paura antica: la paura di perdere il legame proprio per ciò che ci riesce bene. La paura che ciò che ci rende unici diventi ciò che ci allontana.

Crescere però significa imparare a restare interi, anche quando la nostra interezza muove qualcosa negli altri. Significa ricordarci che la nostra luce non va abbassata per far sentire comodo qualcuno, che possiamo essere luminosi e gentili allo stesso tempo senza doverci scusare per ciò che siamo diventati, e che custodire le nostre conquiste non è arroganza, ma rispetto per noi stessi.

L’invidia, in qualunque direzione la viviamo, ci chiede presenza. Presenza con quello che sentiamo dentro e con quello che percepiamo fuori. L’invidia che proviamo ci indica un desiderio che abbiamo lasciato indietro e che chiede spazio. Quella che riceviamo ci ricorda che non dobbiamo rimpicciolirci per entrare nelle aspettative emotive degli altri.

Non si tratta di evitare certe emozioni, ma di non lasciare che siano quelle non comprese a guidarci. E l’invidia, se smettiamo di giudicarla, cambia forma, da nemica si trasforma in bussola. Quando la riconosciamo in noi, ci orienta. Quando la riconosciamo negli altri, ci restituisce il senso del nostro valore senza doverlo proteggere.

Alla fine, l’invidia è una domanda che la vita ci mette davanti. Una domanda su ciò che desideriamo davvero, sul coraggio di muoverci e sulla persona che stiamo diventando. E forse il punto è proprio questo: alcune emozioni non chiedono di essere risolte, ma riconosciute. E quando finalmente ci permettiamo di farlo, l’invidia smette di farci paura e comincia a parlarci.
Il resto… è quel lavoro silenzioso che ciascuno di noi continua dentro di sé, per essere ogni giorno una persona migliore. VS

E se cado?Oh, ma mia cara,e se voli?Erin Hanson ✍🏻
14/11/2025

E se cado?
Oh, ma mia cara,
e se voli?

Erin Hanson ✍🏻

14/11/2025

Ci sono mattine in cui ci alziamo e l’unica cosa che ci viene da dire è: buongiorno un ca**o.
Succede. Non abbiamo ancora messo piede giù dal letto e già ci sentiamo stanchi, scocciati, con la testa piena e la pazienza sotto le scarpe.

Viviamo vite di corsa, fatte di sveglie troppo presto, messaggi a cui rispondere, pensieri che non si fermano mai e a volte basta un niente, una parola storta, il traffico, una notifica fastidiosa, e sentiamo di aver già dato prima ancora di cominciare.

È umano. U-M-A-N-O

È che non si può essere sempre disponibili, sempre lucidi, sempre sorridenti. E anche se ci insegnano che bisogna reagire, essere positivi, “fare il meglio”… bla, bla, bla, a volte il meglio che possiamo fare è semplicemente riconoscere che oggi ci gira male. Punto.

E va bene così. Non dobbiamo riaggiustarci subito. Prendiamo un respirone, sbuffiamo pure, mandiamo a fanc**o mentalmente chi dobbiamo.
Ce lo dobbiamo del tempo di decompressione, la pazienza di tollerare che ci sono mattine no, l'importante è non prendercela velenosamente con gli altri.
Teniamo lo sguardo su di noi, su quella parte imbronciata e nervosa che ci chiede solo un po' di tregua. Se ce ne prendiamo cura anche la rabbia piano piano smaltirà e ricominceremo a vedere chiaro. Coraggio, sono una di voi. I miei Buongiorno un ca**o li pronuncio anche io non temete. VS 😄

"Qualche volta dovretesemplicemente accettaredi non essere state amate.Ma sarà quello che vi salverà".Serena Santorelli ...
13/11/2025

"Qualche volta dovrete
semplicemente accettare
di non essere state amate.
Ma sarà quello che vi salverà".

Serena Santorelli ✍🏻

🌷…e in quel "semplicemente" spesso si snodano i racconti di tante psicoterapie, una verità semplice e chiara ma dannatamente dolorosa; ma è proprio attraversando quel dolore che si ritorna ad essere liberi (e poi anche felici). VS

13/11/2025

✨ Forse non tutti sanno che non sono la separazione o il divorzio a distruggere una famiglia, ma la mancanza di rispetto e la maturità nel viverle. Facciamo un po’ di chiarezza…

✔️ ci sono figli sereni di coppie separate come ci sono figli turbati e sofferenti di coppie che restano insieme anche se infelici.
✔️ quello che solitamente addolora e angoscia i figli nelle separazioni è la “non comunicazione”, nessuno si occupa o si preoccupa veramente di cosa i bambini e i ragazzi vivano in quei momenti.
✔️ ci si preoccupa che non soffrano ma quella sofferenza è inevitabile perché è la risposta naturale e sana ad un taglio, ad una perdita, quello che però il genitore può fare è dargli spazio, uno spazio emotivo per esprimere i loro sentimenti, il dolore, l’odio, la paura, la tristezza, la rabbia reggendone l’onda d’urto, senza sensi di colpa ma con un profondo senso di responsabilità.
✔️ la sensazione di frattura insanabile che spesso i bambini e i ragazzi sentono non è solo quella legata al fatto che i genitori si sono lasciati come coppia (quella è la ferita iniziale) ma perché con il lasciarsi si è sgretolata (spesso) tutta la relazione umana. Anche quella che dovrebbe vederli uniti come genitori anche se non più come partner sentimentali.
✔️ non è il divorzio a ferire i figli, ma l’infelicità dei genitori. Restare insieme senza amore è il vero dramma ed è molto più dannoso che separarsi. Non insegna ai figli la stabilità, ma la rassegnazione. Non li protegge, ma li intrappola in un modello di relazione malata e senza vita fatta di mal-sopportazione e silenzi ostili. Meglio una separazione sincera che una famiglia finta.
✔️ i figli soffrono dove manca rispetto, ascolto, comprensione, legame affettivo (seppur non più sentimentale).
✔️ la maggior parte delle separazioni è un campo di battaglia, tra liti, urla, minacce, ripicche, avvocati, tribunali. È quello che crea dolore. È quello che fa sperare in una riappacificazione magica nella mente di un bambino.
✔️ il dolore più profondo nasce quando i figli vengono strumentalizzati. Essere usati come pedine nella guerra tra i genitori è un trauma che segna nel profondo.
✔️ quando un bambino o un ragazzo diventa messaggero (“dì a papà…”, “dì a mamma…”) viene caricato di un compito che non è suo: si ritrova al centro di tensioni che dovrebbe solo osservare da lontano.
✔️ quando un genitore parla male dell’altro davanti ai figli, li costringe a scegliere da che parte stare. Questo crea un conflitto di lealtà devastante: qualsiasi scelta li fa sentire colpevoli.
✔️ quando il bambino o il ragazzo viene spinto a “decidere con chi stare” o a fare da giudice, il messaggio che riceve è: “sei tu il responsabile della nostra felicità o del nostro dolore”. Un peso troppo grande per la sua età.
✔️ la strumentalizzazione non ferisce solo nell’immediato (ansia, rabbia, sensi di colpa…), ma lascia cicatrici profonde che possono riemergere nell’adolescenza e nell’età adulta: paura dell’abbandono, sfiducia nelle relazioni, incapacità di vivere i legami senza sentirsi in colpa o responsabili.
✔️ anche se tra i genitori ci sono ferite profonde, tradimenti, rancori o irrisolti, questo non riguarda i figli. Non devono essere coinvolti né usati come confidenti: non sono il contenitore delle fragilità degli adulti, ma hanno bisogno che gli adulti restino tali e li proteggano dal peso delle loro ferite.
✔️ la vera protezione per i figli non sta nel tenerli fuori dalla sofferenza (che è inevitabile), ma nel tenerli fuori dal conflitto. Possono sopportare il dolore di una separazione, ma non il veleno di una guerra che li usa come arma.
✔️ ci vuole tanto coraggio, tanta forza e tanta introspezione e umiltà nel capire dove si sta sbagliando e perché, quali sono i giusti modi, le giuste parole, i gesti e le risposte da dare.

Auguro a tutte le persone che stanno vivendo una separazione dolorosa di farsi carico del loro bambino interiore (anche chiedendo un aiuto psicologico se necessario) per poter sanare le proprie ferite ed essere d’aiuto, di sostegno e di ascolto per i figli. Se gli adulti restano invece emotivamente dei bambini feriti e rancorosi spingeranno i figli a diventare loro stessi dei piccoli adulti mediatori delle faide familiari.
Separarsi non è un fallimento.
Il vero fallimento è crescere figli feriti in una guerra che non è la loro. VS

13/11/2025

Ci sono persone che non si ispirano, si appropriano. Non perché siano cattive, ma perché non sanno come esistere senza prendere in prestito una forma.

A volte succede in modo silenzioso, quasi invisibile.
Raccontiamo un pensiero che ci è venuto dal profondo, e dopo qualche giorno lo ritroviamo pubblicato altrove, con le nostre stesse parole ma senza il nostro nome.
Un collega ripete un’idea che avevamo condiviso, e per un attimo ci sentiamo trasparenti.
Un’amica inizia a parlare, vestirsi, o raccontarsi come facciamo noi, perché è più facile usare la nostra pelle che trovare la propria.

E non parliamo solo di parole. C’è chi prende il nostro modo di essere gentili e lo usa come tecnica.
Chi replica i nostri modi di pensare come se fossero formule già pronte.
Chi assorbe i nostri gesti, le nostre intuizioni, la nostra visione… senza averne mai sentito davvero il peso.

E noi lo avvertiamo subito. Una piccola scossa dentro, un fastidio sottile.
Non ci sentiamo derubati di un’idea, ma di un pezzo di autenticità. È uno di quei disagi che non sappiamo spiegare bene, ma che ci resta addosso.

Certo, crescere significa anche lasciarsi ispirare. Ma ispirarsi non è copiare.
Chi si ispira davvero prende una scintilla e la trasforma. Ci mette dentro la sua storia, il suo sentire, il suo modo di stare al mondo.
Quello è un gesto pulito, rispettoso, vitale.

La copia invece è un’altra cosa.
È scimmiottare modificando due dettagli per dire “non ho copiato”. È ripetere parole profonde che non si sono mai vissute. È imitare la forma senza comprenderne la sostanza.

Ed è importante dirlo con chiarezza:
copiare non è un complimento. È un modo di evitare il contatto con se stessi. È dire: “Non so da dove partire, allora prendo quello che hai già fatto tu, visto che funziona”.

Chi copia senza trasformare resta fermo. Chi subisce resta un po’ n**o.

Eppure, questa dinamica racconta anche un’altra verità: se qualcuno sente il bisogno di imitarci, significa che abbiamo una voce che arriva. Che qualcosa di noi è vivo, riconoscibile, abbastanza forte da far scattare il desiderio di prenderne un pezzo.

Ed è qui che ci giochiamo tutto: non nel difendere ciò che ci appartiene, ma nel restare in contatto con ciò che lo ha generato.

Perché alla fine la verità è semplice, chi copia può prendere le nostre parole, i nostri modi, i nostri gesti… ma non può prendere noi. Non può prendere la strada che abbiamo fatto per arrivare a dire quelle cose, non può prendere il dolore, le intuizioni, le notti in cui abbiamo capito qualcosa, non può prendere ciò che ci muove davvero dentro.

Può imitare la superficie. Ma la sostanza, quella, non gli verrà mai. VS

13/11/2025

Chi mi segue avrà notato che, negli ultimi mesi, ho cominciato a condividere post un po’ più lunghi del solito: riflessioni più ampie, che parlano di temi psicologici partendo però dalla vita quotidiana, da quelle piccole dinamiche che, per qualche motivo, riguardano un po’ tutti.

Sento che questo modo di scrivere mi viene naturale. Anche quando parto con l’idea di lasciare un pensiero breve, quasi un accenno, finisco per aggiungere una cornice, una sfumatura, un passaggio in più. Non per “approfondire a tutti i costi”, ma perché alcune esperienze, per essere comprese davvero, hanno bisogno di qualche riga in più e di un respiro maggiore.

L’intento è proprio questo: portare la psicologia e la psicoterapia dentro i vissuti comuni, renderle parte della realtà di tutti i giorni. Perché molte dinamiche emotive e relazionali le viviamo quotidianamente, ma senza strumenti o parole per riconoscerle rischiano di sembrarci incomprensibili, o peggio ancora “solo nostre”.

Mi sembra utile, oltre che interessante, che una pagina come la mia possa offrire uno spaccato di questo tipo, un piccolo ponte tra ciò che accade nella vita reale e ciò che la psicologia ci aiuta a capire. Anche solo imparare qualcosa in più su come funzioniamo, o ricordarci che certi modi di reagire appartengono semplicemente all’essere umani e quindi complessi, sfaccettati, imperfetti quanto basta, può essere già tranquillizzante. A volte persino terapeutico, nel senso più semplice e umano della parola.

Per questo, negli ultimi tempi, mi viene naturale alternare riflessioni più ampie a post leggeri, a frasi che aprono una domanda o un sorriso. Credo che ci sia spazio per tutto: per la leggerezza e per la profondità, per l’ironia e per la comprensione.

E se qualche volta le parole si allungano, è perché sento che hanno bisogno di raccontare qualcosa che vale la pena guardare con calma.
Io continuo a farlo con l’intenzione di offrire uno spazio chiaro, accogliente e comprensibile.

Mi piacerebbe sapere se questa modalità, più ampia e riflessiva, è per voi utile, interessante ed efficace.
Se vi aiuta a sentirvi un po’ più orientati, un po’ più compresi, o semplicemente più vicini a certe parti di voi.

Per capire se, in questo momento, questa mia naturale inclinazione a guardare le cose con più profondità (e a prendermi la libertà di farlo anche qui) abbia senso non solo per me che scrivo, ma anche per voi che leggete. VS

12/11/2025

C’è un aspetto affascinante e molto umano nel credere alla fortuna, al destino o al karma. Tutti, in qualche misura, abbiamo un piccolo portafortuna, un gesto scaramantico, un pensiero che “non è vero ma ci credo”. Sono rituali che appartengono alla nostra dimensione simbolica, quella che ci fa sentire parte di qualcosa di più grande e che, in fondo, ci strappa anche un sorriso.

Il problema nasce quando il pensiero magico diventa un alibi, quando iniziamo a delegare alle “forze superiori” la responsabilità delle nostre azioni, delle nostre scelte e, soprattutto, dei nostri risultati.
In quel momento, senza accorgercene, smettiamo di essere adulti e torniamo a essere bambini emotivi, che cercano una spiegazione esterna a ciò che non riescono (o non vogliono) spiegarsi dentro di sé.

Pensiamo, per esempio, a uno studente universitario che non studia abbastanza, fallisce un esame e dice: “Sono sfortunato, il professore ce l’ha con me, era destino.” Ma succede lo stesso in molti altri ambiti della vita. Una persona che non si impegna davvero in una relazione e poi, quando finisce, dice “non era destino”; chi vive un momento lavorativo difficile e pensa “va sempre tutto storto”; chi non prova a cambiare strada perché “tanto la vita decide per me”. Sono modi sottili con cui ci allontaniamo dalla nostra possibilità di scelta e ci rifugiamo nell’idea che qualcuno o qualcosa decida al posto nostro.

In psicologia, questa dinamica è descritta dal concetto di “locus of control”, cioè il punto dove percepiamo che risieda il controllo sugli eventi della nostra vita.
Quando il locus è interno, sentiamo che ciò che accade dipende in gran parte dalle nostre decisioni, dal nostro impegno e dalle nostre azioni. Quando invece è esterno, tendiamo ad attribuire successi e fallimenti alla fortuna, al destino, agli altri o alle circostanze.

Ma non è solo una questione teorica. È il modo in cui ci muoviamo nel mondo.
Chi ha un locus interno, di fronte a una delusione, si chiede: “Cosa posso fare di diverso la prossima volta?”
Chi ha un locus esterno, invece, dice: “Non c’è niente da fare, è andata così.”
E questo piccolo scarto, apparentemente sottile, fa una differenza enorme: da un lato c’è potere personale, dall’altro impotenza appresa.

Il fatto è che spostare il controllo all’esterno non è solo pigrizia o superficialità, è spesso una forma di protezione. Restare nel ruolo del bambino che si deresponsabilizza significa non dover sentire il peso dell’errore, della colpa o del fallimento. In fondo, ci è stato insegnato presto che l’adulto punisce, che sbagliare fa male, che è più sicuro credere che “non dipende da me”. E così cresciamo portando dentro quella parte infantile che cerca ancora una figura esterna, il destino, la fortuna, Dio, il karma… che si prenda carico di ciò che non riusciamo a gestire da soli.

C’è anche un fascino nel rimanere in questa posizione, l’illusione che se tutto è scritto, allora non dobbiamo temere le conseguenze delle nostre scelte. È rassicurante pensare che la vita “accada” e che noi dobbiamo solo attraversarla. Ma quella stessa illusione, col tempo, ci toglie forza, ci priva di libertà e ci lascia spettatori della nostra esistenza invece che protagonisti.

E allora sì, teniamoci pure il portafortuna, facciamo quel piccolo gesto prima di un esame o di un colloquio, lasciamo spazio al simbolico e al mistero ma ricordiamoci che la vera magia è la responsabilità.
Che la vera fortuna è sentirci autori della nostra vita, anche quando le cose non vanno come vorremmo.

Perché la differenza tra chi si sente vittima del destino e chi costruisce il proprio cammino non è la fortuna, è la consapevolezza. E il più potente dei talismani è la capacità di dire: “Non posso controllare tutto, ma posso scegliere come affrontarlo”. VS

"Alla fine noi siamo 'sta roba qua.Sopravvissuti, imperfetti, pieni di cicatrici che ci siamo fatti tra di noi. Se ci gu...
12/11/2025

"Alla fine noi siamo 'sta roba qua.
Sopravvissuti, imperfetti, pieni di cicatrici che ci siamo fatti tra di noi.
Se ci guardi da vicino, ti accorgi che, non si sa come, restiamo attaccati. Siamo tenuti insieme con lo sputo.
È così, quando attraversi la vita.
Ti usuri. E non puoi più tornare com'eri prima. Ci devi stare.
L'importante è che capisci quali sono i pezzi più importanti, quelli di cui non puoi fare a meno, che ti fanno essere quello che sei.
E te li tieni stretti. Pure se si scheggiano.
Pure se si frammentato. Te li devi tenere stretti. Fino all'ultimo granello...".

Zerocalcare ✍🏻

12/11/2025

Ci sono bambini che crescono nel silenzio di un amore non ricevuto o ricevuto a metà. Bambini che imparano presto che il mondo non sempre si accorge di loro, che la fame di attenzioni, di dolcezza o di comprensione non trova risposta.
A volte è una mancanza sottile, quasi invisibile, genitori presenti ma emotivamente lontani, troppo presi dai propri pensieri, dal lavoro o da una vita che li travolge.
Altre volte, invece, quella mancanza ha il volto più duro della trascuratezza o della violenza, parole che feriscono, mani che spaventano e silenzi che diventano muri.

Ci sono famiglie in cui i genitori, pur amando, non hanno gli strumenti per amare davvero. Sono persone che portano a loro volta ferite mai guarite, storie irrisolte con i propri genitori, schemi di dolore che si ripetono come un’eco di generazione in generazione. Altri ancora crescono in contesti di povertà o disagio, dove tutto ruota intorno alla sopravvivenza, e non c’è spazio per la tenerezza, per l’ascolto e per i bisogni invisibili ma vitali dell’anima.
Ci sono bambini che diventano grandi accanto a fratelli con bisogni speciali, che assorbono tutto, l’attenzione e l’energia dei genitori, e imparano così che per ricevere qualcosa bisogna farsi piccoli, silenziosi e invisibili.

Qualunque sia la forma, il risultato è simile, il bambino cresce sentendo che qualcosa gli manca, ma non sapendo esattamente cosa. E per sopravvivere, costruisce dentro di sé una casa emotiva fatta di regole segrete, di stanze chiuse e di promesse non dette. Una casa che, da adulti, continuiamo ad abitare senza rendercene conto.

Se da piccoli siamo cresciuti sentendo che il mondo non ci vedeva, che dovevamo guadagnarci l’amore con il comportamento giusto, che dovevamo essere forti, autonomi, adattati, allora da adulti potremmo portare dentro una sorta di pretesa silenziosa: l’idea che la vita, prima o poi, debba restituirci ciò che ci è stato tolto.

È come se dentro di noi ci fosse una voce che dice: “adesso tocca a noi essere amati, capiti, protetti”.
E così, spesso senza rendercene conto, ci ritroviamo a cercare e a pretendere riconoscimento in ogni luogo... nel lavoro, nelle relazioni, negli sguardi degli altri. Ci arrabbiamo quando non arriva, ci sentiamo feriti quando non veniamo considerati, come se ogni piccola delusione riaprisse la vecchia ferita di quando non ci sentivamo visti.

A volte ci innamoriamo di persone che sembrano poterci riparare, figure accoglienti, forti, che sembrano promettere quel calore che ci è mancato. Ma poi scopriamo che anche loro non possono davvero colmare quel vuoto.

La vita, infatti, non risarcisce.
Non viene a compensare ciò che è mancato: ci invita, piuttosto, a prendercene cura. Ci chiede di guardare ciò che è rimasto sospeso, di imparare noi a darci quello che un tempo non abbiamo ricevuto.

Se da piccoli abbiamo imparato che chiedere non serviva, che non c’era spazio per i nostri bisogni o che l’amore si otteneva solo smettendo di pesare, allora da adulti potremmo essere diventati persone che non chiedono più nulla.

Ci convinciamo, a volte senza nemmeno accorgercene, che non meritiamo davvero le cose belle. Ci sentiamo “meno”, come se la felicità fosse una lingua che non sappiamo parlare. Ci scusiamo per esistere, ci nascondiamo dietro la nostra disponibilità, accettiamo briciole d’affetto pensando che “tanto, per noi, è già qualcosa”.
E quando qualcuno ci ama davvero, ci sentiamo quasi a disagio, come se non fossimo all’altezza, come se non potessimo restituire abbastanza.

Così, mentre la vita prova a offrirci qualcosa, ci ritraiamo. Ci proteggiamo dietro la corazza di chi si è abituato a non aspettarsi niente, custodendo quella vecchia ferita che continua a sussurrare:
“non valgo abbastanza per essere amato davvero.”

Da fuori, sembrano due modi opposti di vivere: uno chiede troppo, l’altro non chiede niente. Ma dentro, l’origine è la stessa. È sempre quel bambino che, in modi diversi, continua a cercare ciò che gli è mancato. Uno lo fa gridando, l’altro tacendo. Uno reclama, l’altro rinuncia. Entrambi, però, stanno ancora bussando alla stessa porta del passato.

E poi arriva un momento, nella vita, in cui si può decidere di tornare in quella casa emotiva non più come un ospite impaurito, ma come un adulto che finalmente sa prendersi per mano. È il momento in cui smettiamo di chiedere che qualcuno venga a ripararci, e iniziamo a costruire dentro di noi il tipo di presenza che non abbiamo mai avuto.
È lì che scopriamo che non è colpa nostra se ci è mancato l’amore, ma che ora è una nostra responsabilità imparare a offrirlo a noi stessi.

Guarire significa proprio questo: non cancellare ciò che è stato, ma imparare a vivere con quello che è mancato senza farlo diventare una condanna. Significa dare valore ai nostri bisogni, riconoscere la nostra fame d’amore senza vergognarcene, imparare a ricevere senza paura e a chiedere senza sentirci deboli.
E allora quella casa interiore che un tempo era fatta di vuoti, diventa un luogo abitabile. Le stanze che odoravano di mancanza si riempiono di presenza, di tenerezza, di amore e di verità.
I bambini che eravamo possono finalmente smettere di aspettare, non perché qualcuno è arrivato a salvarli, ma perché ci siamo noi adesso insieme a loro. VS

“A vent’anniLei si guarda e si vede"troppo grassa, troppo magra,troppo bassa, troppo alta,con i capelli troppo lisci, tr...
12/11/2025

“A vent’anni
Lei si guarda e si vede
"troppo grassa, troppo magra,
troppo bassa, troppo alta,
con i capelli troppo lisci, troppo arricciati",
ma decide che uscirà di casa lo stesso.

A trent’anni
Lei si guarda e si vede
"troppo grassa, troppo magra,
troppo bassa, troppo alta,
con i capelli troppo lisci, troppo arricciati",
ma decide che non ha tempo di risistemarsi
e che uscirà di casa lo stesso.

A quarant’anni
Lei si guarda e si vede
"troppo grassa, troppo magra,
troppo bassa, troppo alta,
con i capelli troppo lisci, troppo arricciati",
ma dice: "almeno sono pulita",
ed esce di casa lo stesso.

A cinquant’anni
Lei si guarda e si vede "esistere"
e se ne va dovunque abbia voglia di andare.

A sessant’anni
Lei si guarda e ricorda tutte le persone
che non possono più nemmeno guardarsi allo specchio.
Esce di casa e conquista il mondo.

A settant’anni
Li si guarda e vede la saggezza, la capacità di ridere e saper vivere, esce e si gode la vita.

A ottant’anni
non perde tempo a guardarsi.
Si mette in testa un cappello color rosso porpora ed esce per divertirsi con il mondo”.

Autore Anonimo ✍🏻

11/11/2025

C’è qualcosa dentro di noi che fa una fatica enorme a lasciare andare. Ci aggrappiamo alle cose come se potessero salvarci... un messaggio, una voce, un’abitudine.
Facciamo finta di non sapere che le cose cambiano, che tutto si muove, anche quando noi restiamo fermi.

Eppure, se ci guardassimo intorno, lo vedremmo chiaramente: la vita è movimento.
La natura cambia ogni giorno, le stagioni, la luce, il corpo, i volti.
Niente resta uguale. È così che la vita respira. Ma noi no.
Noi cerchiamo di bloccare tutto, di congelare i momenti, le persone, perfino le emozioni. Come se fermando le cose potessimo sentirci al sicuro.

Ci hanno insegnato che la stabilità è il sinonimo della felicità.
Che chi resta è più affidabile di chi cambia, che chi tiene duro è più forte di chi lascia andare.
E così cresciamo credendo che il movimento sia pericoloso, che sposti gli equilibri e che porti via quello che amiamo.
Non ci insegnano che invece è proprio nel cambiamento che c’è la vita, e che tutto ciò che smette di muoversi, piano piano, muore.

Da piccoli guardiamo gli adulti ripetere sempre gli stessi gesti, tenere tutto com’è. Le loro abitudini diventano regole, la stessa tazza ogni mattina, le stesse frasi, gli stessi riti.
E da lì impariamo che muovere qualcosa anche solo un pensiero o un desiderio significa rischiare di rompere un equilibrio.
Così cresciamo associando il movimento alla perdita, e la stabilità al controllo.

E forse è proprio questo che ci terrorizza: l’idea di non avere più controllo. L’idea che la vita vada avanti anche senza chiedercelo.
Che le cose finiscano anche quando non siamo pronti.

Ma la verità è che la vita si muove comunque, anche se noi ci opponiamo. E ogni volta che cerchiamo di trattenerla, lei trova un modo per scorrere lo stesso, magari facendoci male, magari costringendoci a cambiare quando non volevamo.

Accettare il movimento non è facile. Affatto.
Richiede di disimparare quello che ci hanno detto, di restare dentro al cambiamento invece di scappare via. Richiede fiducia.
Fiducia nel fatto che non tutto ciò che finisce è una perdita, e che anche da ciò che cambia può nascere qualcosa di buono.

Si può cominciare dalle cose piccole.
Dall’accorgersi che non serve forzare le cose a restare uguali. Che possiamo lasciare che un’amicizia si trasformi, che un sogno cambi direzione, che una parte di noi si sposti altrove.
E che va bene così.

A volte serve qualcuno che ci accompagni, una terapia, uno spazio dove poter dire le cose come sono, senza paura. Perché solo quando diamo voce a ciò che ci muove dentro, smettiamo di esserne spaventati.

E poi, un giorno, succede qualcosa.
Ci accorgiamo che non stiamo più cercando di trattenere tutto.
Che lasciamo andare non per stanchezza, ma per comprensione.
Capiamo che la vita non ci toglie ma ci trasforma. E che non possiamo fermarla senza fermare anche noi stessi.

E quando cominciamo a vederla così, succede una cosa ancora più grande: iniziamo davvero a sentirla. A gustarla, a viverla in ogni sfumatura, nel bene e nel male.
Perché capiamo che anche il dolore, anche i cambiamenti più stravolgenti, anche quelli che ci fanno a pezzi, fanno parte dello stesso movimento. E se riusciamo ad inserirli in quella prospettiva, diventano più sopportabili. Perché smettono di essere ingiustizie, e tornano ad essere vita.

E allora anche il corpo che cambia, le rughe, le malattie, le perdite, le trasformazioni... tutto assume un senso diverso. Non più viste come accanimenti della vita o come punizioni, ma come passaggi. Come parte del ritmo naturale delle cose.

E sì, può sembrare una filosofia facile da dire. Ma la verità è che non abbiamo scelta. Perché la vita scorre lo stesso, anche se noi non vogliamo. E se proviamo a viverla come qualcosa di inaccettabile, la sprechiamo. La sprechiamo nel tentativo inutile di trattenere ciò che non può essere trattenuto.

Tanto la vita va comunque. E allora tanto vale imparare a scorrerci dentro. Con tutte le paure, le perdite e le meraviglie che può offrirci.
Perché solo così, davvero, possiamo dire di averla vissuta. VS

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Rome
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