Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta

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Dott.ssa Valentina Scoppio - Psicologa Psicoterapeuta Psicologa - Psicoterapeuta - Analista Transazionale Nella mia pratica clinica, nel mio studio a Roma, mi occupo di consulenza e supporto psicologico.

Questa pagina ha lo scopo di fornire spunti di riflessione su tematiche legate alla psicologia, al confronto e allo scambio di opinioni. Non fornisco consulenze tramite Facebook, invito chiunque ne abbia bisogno a rivolgersi ai professionisti più adeguati. Psicoterapia. Colloqui individuali. Supporto durante i percorsi di Procreazione Medicalmente Assistita, sterilità e infertilità, ansia, attacchi di panico, fobie, compulsioni, ossessioni, depressione, lutto, perdita, separazione, divorzio, abbandono, difficoltà relazionali e affettive, fasi critiche della vita, disagio e conflitto col partner, con i figli o nel rapporto familiare, problemi di autostima, senso di vuoto, inefficacia, paura di vivere, solitudine, dipendenze, mobbing, disturbi dell’alimentazione, difficoltà di gestione di esperienze traumatiche, problematiche legate alla sfera sessuale individuale e di coppia, problematiche dell’identità, disturbi di personalità. Qualsiasi pubblicazione relativa alla pubblicità di altri siti o pagine Facebook effettuata sulla mia pagina senza autorizzazione, verrà rimossa. La maggior parte delle immagini inserite in questa pagina sono prese da internet; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore, non esitate a comunicarmelo e provvederò a rimuoverle.

14/12/2025

Esistono persone davvero coraggiose, ma non hanno mantelli rossi né superpoteri. Hanno facce normali, come le nostre, e vivono vite comuni. Sono quelli che scelgono davvero, che sanno fermarsi, cambiare direzione, restare fedeli a ciò che hanno capito essere giusto anche quando diventa scomodo. Il loro coraggio non è l’assenza di paura, ma la capacità di attraversarla senza tradirsi.

Molti altri, invece, vanno avanti senza pensarci. Prendono decisioni di fretta, evitano le domande scomode, cambiano strada solo in apparenza, pur restando sempre nello stesso punto. Non si fermano abbastanza da capire cosa stanno facendo, né perché. Continuano, dicendosi che andare avanti è essere forti, che non guardarsi indietro è coraggio. Ma spesso è solo paura di cambiare davvero, di ammettere un errore, di uscire da una palude che, col tempo, è diventata familiare.

Perché restare immobili non è resilienza, e procedere senza ripensamenti non è forza. Il coraggio vero non ha fretta, non ha bisogno di giustificarsi. Sa fermarsi, sa tornare indietro, sa scegliere di nuovo. E soprattutto, sa farlo assumendosi il peso delle conseguenze. VS

Un po’ di psico-ironia 😄
13/12/2025

Un po’ di psico-ironia 😄

13/12/2025

Quanto tempo perso, quante energie buttate per farci amare da chi non ci vuole, per cambiare chi non ha mai avuto intenzione di cambiare, per trattenere chi aveva già deciso di andare via, per spiegare chi siamo a chi preferisce giudicare.

Ci svuotiamo così, poco alla volta, e lo chiamiamo impegno, amore, pazienza. Ma spesso è solo paura di restare soli.

È tempo di fermarci, seriamente e di smettere di rincorrere, di giustificarci, di piegarci pur di essere accettati.
Quelle energie servono a noi, ci servono per vivere meglio, non per convincere qualcuno a restare.

Riprendiamoci il potere di scegliere chi entra nella nostra vita e chi no. Il rispetto non si chiede. Inizia da come ci trattiamo noi. Da quello che smettiamo di tollerare e da ciò che finalmente scegliamo per noi. VS

13/12/2025

Ci sono giorni o periodi interi in cui il sonno smette di essere un rifugio sano. Non è più riposo, ma diventa un anestetico, un letargo, una sorta di pausa forzata dalla realtà. Non dormiamo per ricaricarci, dormiamo per non esserci.

Ci succede quando dentro è troppo… troppa ansia, troppo dolore, troppa pressione... La mente, schiacciata e satura, non riesce più a restare sveglia e allora il corpo è come se la prendesse per mano e la portasse via. Spegne tutto e il sonno diventa un modo per “sparire senza sparire davvero”.

La mente entra così in una sorta di stand-by emotivo, è un meccanismo di difesa, spesso inconscio.
I neurotrasmettitori che ci tengono attivi e motivati (dopamina, serotonina, noradrenalina) crollano e all’opposto sale il cortisolo, l’ormone dello stress. Il sistema nervoso a quel punto è come se tirasse il freno a mano e noi cadiamo nel sonno, non perché siamo stanchi nel senso classico, ma perché il dolore e il rumore interno, sono insostenibili.

È come se il corpo ci dicesse: “Non possiamo più stare svegli a sentire tutto questo, è troppo”.
Quando la mente fa così e ci “spegne”, lo fa per proteggerci da una realtà che ci fa troppo male, dall’ansia che non si spegne, dal senso di vuoto, da aspettative che non riusciamo più a sostenere, da un conflitto che non vogliamo guardare…
Il sonno, in questi casi, non è riposo diventa proprio una porta chiusa a chiave, ma dall’interno.

È fondamentale però distinguere una grande stanchezza “sana”, da questa forma di fuga, perché non tutto il bisogno di dormire è patologico. Il corpo a volte ha davvero solo bisogno di riposare, ma ci sono segnali chiari che possono aiutarci a capire cosa ci sta accadendo.

La Stanchezza sana (che richiede un riposo fisiologico):
▪️Arriva dopo uno sforzo reale, fisico o mentale.
▪️Dormiamo e ci svegliamo più lucidi, anche se non sempre al massimo.
▪️Abbiamo appetito, desiderio di movimento e voglia di fare.
▪️Il sonno ci ricarica, anche se lentamente.

Stanchezza come fuga (che diventa un’anestesia emotiva):
▪️Dormiamo anche tante ore, ma ci svegliamo più vuoti di prima.
▪️Non c’è desiderio, né fame, né contatto, né curiosità… niente.
▪️Il sonno non ci ricarica, semplicemente ci spegne.
▪️Vorremmo solo dormire per non pensare, non sentire e in fondo per non esserci.

Se ci ritroviamo in questo secondo caso è proprio importante ascoltarsi:

Smettiamo di fingere che sia solo stanchezza, chiamare le cose con il loro nome è il primo passo per riprenderne il controllo.

Parliamo con qualcuno di cui ci fidiamo, anche solo dirgli “mi sento spento” rompe l’isolamento interno.

Esponiamoci poco alla volta, cominciamo con aprire una finestra e respirare aria fresca, uscire per 5 minuti, ascoltare una voce familiare… Non serve scalare l’Everest, basta non affondare in silenzio.

Cerchiamo uno psicologo/psicoterapeuta, non possiamo e non dobbiamo fare sempre tutto da soli, consideriamola una sorta di “manutenzione emotiva”. Se ci pensiamo bene, nessuno si vergogna di farsi curare una gamba rotta, perché dovremmo sentirci strani se abbiamo bisogno di curare una mente stanca?

Dobbiamo trovare il coraggio di guardarci in faccia e chiederci: “Da cosa sto scappando?”, “Perché voglio solo dormire e sparire?”
Finché non lo facciamo resteremo in una specie di letargo che per proteggerci ci toglie giorno dopo giorno, sia tempo che vita. Ed è un vero peccato. VS

12/12/2025

Ci sono giorni così.
Giornate che si trascinano, lente e ovattate, in cui tutto sembra uguale, e noi... un po’ meno vivi del solito. Non è tristezza, non è rabbia. È come una nebbia dentro... apatia, indolenza...
Un senso di vuoto che non fa grande rumore ma pesa comunque. E allora ci troviamo lì, immobili, a guardare il soffitto o a scorrere schermi senza davvero vedere nulla.

Non abbiamo voglia di fare, né di sentire. Anche le emozioni sembrano assopite e letargiche. Eppure, anche in questi momenti, qualcosa in noi respira piano. Forse è il bisogno di tenerezza, o solo il cuore che chiede silenziosamente una tregua (e come dargli torto?!).

Non c’è niente di sbagliato in noi.
Questi stati d'animo fanno parte dell’umano. Non siamo macchine sempre attive, produttive, motivate. Siamo onde. E ci sono maree più basse, giorni di bonaccia interiore in cui il mondo fuori ci appare lontano, sfuocato. È il corpo che chiede ascolto. È l’anima che si ritira per un attimo, come per fare spazio, per prendere fiato.

In quei momenti, non serve forzarci. Non dobbiamo aggiustarci subito. Possiamo invece prenderci per mano, dirci “va bene così”, anche se non capiamo fino in fondo cosa sta accadendo. Possiamo restare accanto a quella parte di noi che è stanca e spenta, senza giudicarla, senza pretendere che sia diversa. E piano, senza fretta, tornerà anche il desiderio.

Tornerà la luce, magari con un piccolo gesto, un sorriso lieve, una carezza, una tazza calda tra le mani.
Nel frattempo, stiamoci accanto. Anche nel vuoto. VS ❤

✨ Le conosco anche io queste sensazioni, non abbiatene paura, state con voi amorevolmente quando vi sentite così. Sono esperienze che viviamo tutti, poi c'è chi le rifugge facendo mille cose e non dandosi il tempo di sentire l'apatia e il vuoto e poi c'è chi ci abita quotidianamente. Lasciate che siano momenti, giornate, poi lasciatevi impattare da qualcosa di piccolo, semplice ma "luminoso" e tornerete a guardare voi stessi e la vita da una prospettiva diversa. ❤🌱

12/12/2025

“Insegnate ai vostri figli ad essere buoni e generosi, ad aiutare, a schierarsi con i più deboli, ma insegnate loro anche l'importanza di proteggersi, rinforzate quelle mura - quelle immateriali - perché non crollino rovinosamente davanti agli attacchi della vita e possano resistere alle tempeste, anche a quelle più dure.

Ditegli che sono importanti!

Ditegli che non sono superiori agli altri, ma neppure inferiori, ditegli che quando hanno fatto tutto quello che potevano, con coscienza e buona volontà, il resto lo lascino nelle mani del tempo, di Dio o dello scorrere degli eventi.

Dite loro che le battaglie contro i mulini a vento si perdono tutte.

Dite loro di non smettere di sognare, pur tenendo i piedi per terra.

E, più di ogni altra cosa, ditegli che li amate, in ogni circostanza e che sono umanamente preziosi e che è loro dovere aver cura di se stessi e non permettere a nessuno di calpestare le loro anime.

Fortificateli nello spirito e lo saranno anche nella carne.

E quando raccomandate loro «non ti sporcare» fate che sia riferito all'anima e non al vestito”.

Carolina Turroni ✍🏻

12/12/2025

Quante volte abbiamo pensato: “Con tutto quello che faccio, nessuno se ne accorge mai…”. Lo diciamo al partner, ai figli, agli amici, ai colleghi… Non è una richiesta chiara, è più un lamento che nasconde amarezza. Ma dietro, lo sappiamo, c’è un bisogno tenero, quasi fragile di essere visti e di sentirci importanti.

A volte, a lavoro, ci raccontiamo che tanto non cambierà nulla. “Avanzano sempre i soliti, è inutile provarci.” Così ci fermiamo, non per mancanza di capacità o competenze, ma per proteggerci. Perché se non tentiamo, non rischiamo di fallire.
Ma in quel modo restiamo immobili, e la vita sembra scorrere davanti a noi, mentre noi rimaniamo a guardarla passare.

Tra amici, quante volte abbiamo pensato: “Se non scriviamo noi, nessuno ci cerca.”
È una frase pesante che non dice: “Mi mancate, vorrei sentirvi più vicini”, ma lancia un’accusa velata, sperando che qualcuno la colga. Eppure, quello che volevamo davvero era solo un gesto spontaneo, un messaggio che dicesse: “Ti penso, sei importante.”

In famiglia, poi, capita di dirci: “Abbiamo dato tutto, abbiamo rinunciato a tanto, e nessuno lo apprezza o lo valorizza come vorrei”. Come se i sacrifici dovessero parlare per noi, come se l’amore dovesse essere guadagnato così. Ma dentro di noi sappiamo che ciò che desideriamo davvero non è riconoscenza per ciò che abbiamo fatto, ma semplicemente il bisogno di sentirci amati.

E poi ci sono i momenti più silenziosi, quelli che restano chiusi dentro noi stessi: “Non ce la farò mai, gli altri sono più fortunati, a me va sempre peggio.” È lì che il vittimismo diventa intimo, un “rifugio carcerario” che ci protegge dalla paura di provare e fallire ma anche di vivere.

La verità è che il vittimismo nasce quasi sempre da un bisogno profondo che non abbiamo il coraggio di dire a voce alta. È un modo distorto di chiedere amore, attenzione e riconoscimento. Ma quello che riceviamo sono solo briciole… un po’ di senso colpa negli altri, un sollievo momentaneo, alcune carezze mezze rubate. Ma non basta e non è quello che cerchiamo davvero.

Quello che desideriamo è autenticità, è sapere di poter dire con semplicità: “Ho bisogno di te”, “vorrei sentirti più vicino”, “ho paura, ma voglio provarci lo stesso.”Senza drammi, senza maschere, senza il ruolo del “povero me”.

Il vittimismo ci protegge, ma ci incatena, ci consola per un attimo, ma ci lascia vuoti. E intanto la vita scorre.
E noi, che siamo molto più grandi delle nostre lamentele, meritiamo di crearci contesti di amore vero, di rispetto sincero e di libertà piena. Non briciole. Non avanzi.

Perché restare fermi a piangere sulla sfortuna significa consegnare agli altri il potere di scrivere la nostra storia.
E invece la penna è nelle nostre mani. Sempre.
Sta a noi scegliere se usarla per riscrivere capitoli di lamento, o per aprirne di nuovi, fatti di coraggio, di desideri dichiarati e di vita vissuta davvero.

Il vittimismo ci fa sopravvivere. Ma noi non siamo nati per sopravvivere. Siamo nati per vivere. VS

11/12/2025

Stasera proviamo a guardarci allo specchio in silenzio. Non soffermiamoci sui capelli bianchi, sulle rughe o sulle occhiaie: lasciamo che siano i nostri occhi a parlarci.
Sono spenti? Luminosi? Rimaniamo lì, con dolcezza, mentre scendiamo un po’ più in profondità dentro di noi, oltre ciò che di solito vediamo. E se arrivano le lacrime o sale un po’ di rabbia o si abbozza un sorriso... accogliamo, accogliamo tutto.
Perché è facile notare un brufolo o una ruga… molto più difficile è ascoltare ciò che il nostro sguardo racconta di noi e della vita che stiamo vivendo. VS

11/12/2025

Entri in una casa, qualsiasi casa.
All’apparenza tutto è normale: stoviglie da lavare, tende abbassate, una TV che parla in sottofondo.
Ma dietro le porte chiuse si consumano storie che non si vedono, dolori che nessuno racconta.

C’è la madre che rientra la sera e si siede un attimo sul letto. Le mani odorano di detersivo e la schiena le brucia di fatica. In cucina ha sorriso ai figli, ha chiesto “com’è andata a scuola?”, ma dentro sente solo il vuoto e la stanchezza. Poi un bicchiere cade a terra, si frantuma, e lei urla. Non era un urlo per il bicchiere, era un urlo contro tutto il peso che porta dentro.

C’è il padre che di notte si rifugia in bagno con le bollette in mano, si chiede come dire alla famiglia che i soldi non bastano. Non vuole che lo vedano piangere. Pensa: “Che uomo sono se non riesco a proteggere la mia famiglia?” Al mattino si veste bene, si impone un sorriso e parla di calcio con i colleghi. Ma basta una parola storta perché esploda. Non ce l’ha con quella persona, ce l’ha con la paura di non valere più niente.

C’è l’adolescente che finge di studiare, con gli occhi rossi si tiene la testa tra le mani. Sente il respiro corto, la pressione addosso: “Devo farcela, non posso sbagliare.” Quando prende un brutto voto non piange, no. Urla, lancia la penna contro il muro. Meglio arrabbiarsi che ammettere di sentirsi fragile.

C’è la donna che in ufficio ha ingoiato l’ennesima battuta fuori posto. Ride, perché se reagisse sarebbe “troppo permalosa”. Poi torna a casa e trova il disordine dei figli, il partner distratto, e scatta. Il problema non sono le scarpe in giro, ma il veleno ingoiato tutto il giorno.

C’è il ragazzo che scrolla per ore Instagram. Vede corpi scolpiti, sorrisi senza crepe, coppie felici. Poi si guarda allo specchio, si vede inadeguato, “sbagliato”. Pensa: “Chi potrebbe mai volermi davvero?” Ogni like che non arriva glielo conferma.

C’è il ragazzo gay che torna da scuola e si chiude in camera. A tavola parla poco, non vuole sbagliare parole e non sa come fare, si sente in trappola. Dentro ha un amore che non sa come dire, che non può confessare. Ha paura di perdere l’affetto di chi ama di più. Così sorride, mentre dentro soffoca un urlo.

Ci sono i neogenitori che guardano il loro bambino dormire con amore immenso, ma le occhiaie profonde e le notti senza sonno li hanno logorati. Si amano, ma si perdono tra pannolini, pianti e la fatica di non riconoscersi più.

C’è la coppia che sembra perfetta agli amici. Cene, foto e sorrisi. Ma a casa, a tavola, ognuno fissa il proprio telefono. Si parlano solo per cose pratiche: la spesa, le bollette, gli impegni. Non si toccano quasi più, eppure dicono “stiamo bene”.

C’è la coppia separata in casa che non riesce a lasciarsi del tutto. Dormono in stanze diverse, si incrociano nel corridoio in silenzio. I figli fingono di non capire, ma sentono l’aria pesante, il freddo nei gesti. In salotto la televisione fa finta di tenere compagnia, ma la verità è che lì dentro regna il gelo.

C’è chi ha l’amante e si divide tra due vite. Una ufficiale, fatta di sorrisi forzati e routine, e una segreta, fatta di messaggi cancellati e ansie continue. Non è solo passione, spesso è la ricerca disperata di sentirsi ancora vivi, visti, scelti. Ma dentro resta il vuoto.

C’è chi cerca un figlio e non ci riesce. Ogni mese la speranza si accende e si spegne, visite mediche, PMA che logora il corpo e il cuore. Ogni visita medica è una prova del corpo e ogni attesa un dolore dell’anima. E poi arriva la domanda innocente: “Ma voi, quando lo fate un bambino?” Sorridono, rispondono vago. Poi tornano a casa e piangono in silenzio.

C’è la ragazza che apre le chat di incontri. Vorrebbe solo qualcuno che la ascolti, che le chieda come sta, sperando in un po’ di tenerezza. Invece trova messaggi freddi, richieste veloci, foto spinte. Si sente usata ancora prima di incontrare qualcuno. E ogni volta si chiede se mai qualcuno la vedrà davvero.

C’è chi ha lasciato il proprio Paese per cercare un futuro. Ogni giorno combatte con una lingua che non è la sua, con sguardi che lo giudicano straniero. Si sente sospeso, non più di là, non ancora di qua.

C’è la nonna che tutti chiamano quando serve una mano con i nipoti. Porta la spesa, cucina, li accompagna a scuola. Ma nessuno le dice: “Ti va un caffè e quattro chiacchiere solo per te?” Si sente utile, sì. Ma invisibile come donna, come persona.

C’è chi ha perso qualcuno e vive tra oggetti che gridano “presenze assenti”. La sedia vuota a tavola, la giacca ancora appesa all’ingresso. Gli altri dicono “devi reagire”, ma lui sente che ogni giorno è un macigno, una montagna da scalare senza fiato.

C’è l’anziano che aspetta la telefonata di un figlio che non arriva. Ogni giorno accende il cellulare sperando. Quando finalmente qualcuno lo saluta, risponde brusco, acido. Non perché non sia felice, ma perché la solitudine lo ha corroso al punto da non sapere più come chiedere affetto.

C’è chi è malato e non trova aiuto. Visite rimandate, file infinite, medici che parlano una lingua troppo tecnica e fredda. A casa il dolore resta, insieme alla paura di pesare sugli altri, di non farcela. Non sempre urla, spesso tace. Ma dentro brucia l’ingiustizia di sentirsi lasciato solo proprio quando avrebbe più bisogno di qualcuno.

E ci sono ferite antiche, invisibili. Abbandoni mai raccontati, violenze mai nominate. Restano sotto pelle come cicatrici aperte. Basta un gesto sbagliato, e il sangue torna a scorrere.

E allora basta davvero poco, una parola detta male, un commento online, una manovra sbagliata in strada… E la miccia prende fuoco. Non reagiamo a quell’attimo lì, ma a tutto il dolore che ci portiamo addosso.

La risposta di pancia non è sempre cattiveria, spesso è dolore che non trova voce. Forse non siamo diventati più crudeli ma sicuramente siamo diventati più fragili, più soli, più pieni di cicatrici mai curate. E i social ci hanno tolto l’ultima difesa, nasconderlo, ora infatti tutto si vede, tutto esplode in pubblico, senza filtri.

La vera forza non è colpire più forte e più spietato. La vera forza è fermarsi un istante, riconoscere il veleno che ci abita e scegliere di non spargerlo. Perché quel veleno non cerca davvero un nemico: cerca ascolto, comprensione e cura. E solo così, invece di ferire, possiamo finalmente provare a guarire. VS

10/12/2025

✏️ Le vostre richieste di approfondimento: "non riesco a smettere di mangiare fuori pasto. Dentro ho voce che mi dice che c'è ancora qualcosa di più buono di quello che ho mangiato fino a quel momento. Naturalmente dopo queste abbuffate mi sento in colpa...vedi la bilancia che sale".

A volte mangiamo senza avere davvero fame. Non è una questione di golosità o di scarsa forza di volontà, è che dentro di noi si muove qualcosa che il cibo, almeno per un momento, sembra in grado di calmare.
La gola e la fame emotiva, infatti, non funzionano allo stesso modo. La gola è un piacere leggero, scegliamo un sapore perché ci piace, perché ci va, senza nessuna urgenza. La fame emotiva invece arriva di colpo, è impulsiva, non cerca gusto, cerca solo sollievo.

E questo modo di reagire non nasce oggi. Molti di noi lo hanno imparato da piccoli, in ambienti in cui il cibo veniva usato per consolare, distrarre e rassicurare. Il corpo memorizza che “mangiare” calma, e da adulti ripete ciò che conosce quando le emozioni diventano difficili da gestire o da nominare.

La parte più importante sta nel riuscire ad accorgercene prima di mangiare. Anche solo un secondo. Quel momento in cui possiamo fermarci e chiederci: “Questa è fame del corpo o del cuore?”
Non serve avere subito la risposta giusta, all'inizio basta farsi la domanda. Perché fermarci su questa domanda ci riporta presenti, consapevoli, ci fa rallentare, ci aiuta a capire se stiamo rispondendo ad un bisogno fisico o ad un’emozione che non abbiamo riconosciuto.

La fame emotiva, infatti, non è un problema da combattere, ma è un prezioso segnale. Ci indica che dentro c’è qualcosa che sta chiedendo attenzione, una pausa o un po’ di spazio. Una parte di noi che non chiede cibo ma ascolto.

E quando iniziamo a trattarci così, con più presenza e meno critica o senso di colpa, il cibo smette di essere un modo per tamponare e torna a essere ciò che dovrebbe essere, una necessità per vivere, un piacere e una scelta.

È utile avere queste consapevolezze perché sono un primo passo per comprendere e possono davvero fare la differenza nel quotidiano, ma da sole non sempre bastano.
Perché alla base della fame emotiva ci sono spesso dinamiche più profonde, radici antiche, meccanismi che non si trasformano soltanto capendoli. Serve tempo, cura e spesso anche un percorso che permetta di elaborarli davvero.

Pensiamolo così, la consapevolezza apre la porta e la nostra presenza a ciò che viviamo ci sostiene. Ma è il lavoro terapeutico che ci dà modo di trasformare, in profondità, ciò che si ripete da anni e di costruire un modo nuovo di stare con noi stessi. VS

09/12/2025

In psicologia il termine simbiosi ha un significato molto preciso.
Nasce dalla biologia e descrive due organismi che vivono in una dipendenza così stretta da funzionare quasi come un solo corpo. Una configurazione utile per certe specie, ma non certo per noi esseri umani.

Noi attraversiamo una vera simbiosi solo nei primissimi mesi di vita, quando non esiste ancora un “io” separato da colui che se ne prende cura. In quel momento la fusione è vitale, non è amore, è sopravvivenza. Ma è una fase che ha un compito chiaro: permetterci, poco alla volta, di uscire da quella unità totale e diventare individui.

Quando questa separazione non avviene completamente, la simbiosi ritorna più avanti sotto altre forme come dipendenza affettiva, ruoli confusi, rapporti in cui uno esiste solo attraverso l’altro.

Perché ci attira così tanto questa idea di fusione?
Perché, senza saperlo, richiama la memoria emotiva più antica che abbiamo, quel tempo in cui essere “uno” significava essere al sicuro. E allora, da adulti, quando troviamo qualcuno disposto a fondersi con noi, qualcosa dentro risuona profondamente.

Una parte profonda dice: “Finalmente, torno a casa.” Ma quella “casa” non esiste più. Era un luogo fisiologico dell’inizio della vita, non un modello per i rapporti adulti.

Eppure idealizziamo la fusione. La chiamiamo romanticismo. Le frasi come “siamo una cosa sola”, “sei la mia metà”, “non posso vivere senza di te” ci sembrano la prova più alta dell’amore. Perché?
Perché la simbiosi, nell’immaginario affettivo, rappresenta l’annullamento della distanza, delle incertezze e dei rischi.
La fusione ci illude di aver trovato finalmente un luogo dove non poter essere abbandonati.

L’individuazione, invece, la scambiamo per freddezza. Per mancanza di sentimento. Per egoismo. Se qualcuno ci dice: “Io sono io e tu sei tu”, lo viviamo come un rifiuto.
Come se la distinzione togliesse qualcosa all’intensità del legame.
Quando in realtà fa esattamente il contrario: la rende possibile.

Nella simbiosi non esiste autenticità, perché non esiste più nessuno.
Esiste un miscuglio indifferenziato, un'unione patologica che sembra speciale solo perché è estrema, non perché è sana.

E infatti questi legami vengono percepiti come “unici” proprio perché lo sono… ma lo sono nel modo sbagliato: sono unici perché compromettono l’identità. Ci rassicurano perché ci tolgono la responsabilità di esistere come individui. Ci tranquillizzano perché ci lasciano credere che, se siamo fusi, non saremo mai soli (e questo spiega anche tante tragedie consumate quando la fusione viene messa in crisi).

Ma la verità è che nella simbiosi si perde tutto: la libertà, la crescita, la voce personale, la possibilità di scegliere davvero l’altro. Si perde l’amore, paradossalmente, perché un amore che non permette differenze non può durare, può solo trattenere, imprigionare e consumare.

Conoscere queste dinamiche non ci rende meno capaci di amare, anzi. Ci libera dal pensare che l’intensità coincida con la fusione. Ci permette di vivere relazioni piene, vive, profonde, anche viscerali quando serve, ma senza rinunciare a noi stessi. Perché sì, si può essere intensi senza essere simbiotici.

Si può essere innamorati senza essere incastrati. Si può essere complici senza dissolversi. La simbiosi appartiene all’inizio della vita.
L’amore adulto richiede altro, richiede due persone, non una.
E forse la domanda più importante dovremmo farci è questa: vogliamo un legame che ci protegge annullandoci, o un legame che ci ama vedendoci interi? Perché la seconda forma richiede più coraggio. Ma è l’unica che ci fa crescere. E l’unica in cui si ama per davvero. Riflettiamoci. VS

“L’altra mattina la mia mamma mi ha chiamato e mi ha detto: “Ho letto un articolo che parlava delle sedie vuote a Natale...
09/12/2025

“L’altra mattina la mia mamma mi ha chiamato e mi ha detto: “Ho letto un articolo che parlava delle sedie vuote a Natale, del male che fanno”, e le tremava la voce mentre parlava.

Io, poi, a queste sedie vuote ci ho pensato per tre giorni, un po’ anche di notte, e mi ci è venuto perfino il mal di pancia, perché a me la tristezza si accumula tutta lì, nemmeno nel cuore o nella testa.
Nella pancia.

A un certo punto, però, mi sono detta: “se tutti stiamo a pensare alle sedie vuote, a quelli che non ci sono, a chi non c’è mai stato, a chi non c’è più, chi ci penserà a chi è rimasto?
A chi c’è ancora, chi ci pensa?”

A me il Natale non fa tanto bene, perché mi ricorda quanta magia perdiamo per strada, mi ricorda quante speranze mandiamo al patibolo senza nemmeno accorgercene, e insomma: ci sono giornate che mi piacciono di più, tipo il primo giorno di primavera, il giorno in cui cambia l’ora e ci regalano un po’ di luce, il giorno in cui mi sveglio e gli alberi del mio viale sono arrossiti e si preparano a spogliarsi davanti a tutti.

Eppure quest’anno voglio provare a viverla meglio, quest’anno ho un buon proposito per oggi (mi piace andare per gradi, un giorno alla volta, perché poi domani chissà).

Oggi voglio pensare alle sedie piene, a quello che è rimasto, a tutto quello che è sopravvissuto, a tutto quello che c’è.

Alle sedie vuote rivolgerò un sorriso, e non si offenderanno.
Chi non c’è più non si offende se ogni tanto proviamo ad essere felici”.

Susanna Casciani ✍🏻

Indirizzo

Largo Millesimo 19
Rome
00168

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