11/11/2025
SETTING TERAPEUTICO: I RISCHI DI UNA TERAPEUTA SENZA CONFINI
Fai tre passi indietro con tanti auguri oppure vai fino a piazza accademia, se passi dal via ritira 20 euro. Vi ricordate le regole del “Monopoli”?
Io si, e mi ricordo quella volta che ero in Germania con il fratello e sorella della mia fidanzata di allora, una splendida triade di tre fratelli che mi invitò a giocare al più famoso gioco da tavola… ecco quella partita mi aiuta a parlarvi del tema di oggi…
Il setting, quell’insieme di regole e invariabili della psicoterapia che costituiscono il terreno che la rendono possibile ed efficace.
E non pensiate che orario, durata, postura, poltrone, messaggi, chiamate, incontri e compagnia cantando siano qualcosa di meramente organizzativo, qualcosa di freddamente logistico, no.
Sottovalutato da molti, il setting è ciò che consente di acquisire due cose fondamentale per ognuno, anzi tre: il vissuto di costanza, nostra e dell’oggetto; l’autonomia; la distinzione tra dentro e fuori, quella che si porta dietro la distinzione tra reale ed immaginario.
Tutto ciò ci dona un terreno mentale, i confini su cui muoverci e si fa garante della nostra incolumità.
Ma spesso gli Psicologi tradiscono queste stesse regole, un po’ come quando si gioca a “Uno” quel gioco di carte dove le variabili del gioco sono tante quanti sono i comuni italiani, anzi no, quante sono le famiglie italiane.
Dire “Uno”, cambio giro, salta turno, 2 carte “+4” significa prendi 8 carte… oppure no? Ogni famiglia se la canta a e se la suona e, confessiamolo, anche gli orientamenti in psicologia cadono in questo stesso tranello.
Allora ci sono tra noi terapeuti, quelli che vedono nel contatto fisico un veleno e chi una cura, quelli che parlano del passato e dei genitori come causa efficiente e sufficiente, e quelli che “i genitori sono un alibi per evitare il cambiamento”, quelli che l’astinenza e il lettino e quelli che partecipazione e vis a vis…
Ogni orientamento è un sistema di regole e i pazienti, giustamente, trasecolano, specie se fuggono da un terapeuta e giungono da un altro. Altri pazienti, la maggior parte oggi, è alla disperata ricerca della terapia adatta, di quel sistema di regole che hanno per loro carattere di sostenibilità.
Altri ancora sono in fuga da ogni terapia perché rifiutano qualsiasi setting. Allora ecco che chi ha un funzionamento borderline non deve scegliere un setting ma deve accettare di averne uno.
Insomma, lo confesso, ho rotto il setting, anzi anche questo blog è un modo di romperlo, ma mai come paziente, no. Da paziente sono stato ossessivamente attento a rispettare le regole del gioco, ne avevo bisogno.
E se da direttore di una comunità di tossicodipendenti, vero che non ave vo il ruolo di terapeuta, ma mi sono trovato a rompere il setting, a volte per inesperienza, a volte per necessità a volte per opportunità, da paziente ero ligio al dovere. Puntuale, preciso, mi fermavo allo scadere del tempo e davo le spalle al terapeuta come da prassi, anche se il mio desiderio più grande era girarmi.
E lui, il terapeuta, era molto legato al suo setting e dribblava ogni mio più o meno consapevole tentativo di tradire le regole del gioco… “Lei ha figli dottore?” Chiesi una volta e, indovinate un po’? ancora oggi non conosco la risposta.
Ma se tra voi pazienti c’è chi sta leggendo nella speranza di aver ragione nel mandare messaggi alla terapeuta la domenica a pranzo, oppure di andare a cena fuori col terapeuta… mbè rallentate e leggete fino in fondo, altrettanto fate voi colleghi che utilizzate il setting come fosse mortadella al mercato… “So tre etti e venti… che faccio… lascio?”
Si perché il setting va rotto ma senza rompere.
Voglio dire che ogni paziente testa la tenuta dei confini del terapeuta e ogni terapeuta deve essere disposto a cedere una parte di terreno, ma le regole del gioco vanno tenute ferme, altrimenti, anche se io evito di comprare “Parco della Vittoria”, sarebbe come dare fuoco a cartellone, case e alberghi.
Fate attenzione, non sono io a dirlo ma la letteratura scientifica.
Io, invece, vi riporto in Germania e vi racconto che il modo ordinato dei tre fratelli tedeschi di giocare a monopoli, è stato sconvolto da me. Noi italiani giochiamo facendo man bassa, compriamo tutto ciò che ci capita sotto mano per poi iniziare il gioco di scambi, negoziazioni e ricatti. Per noi in Italia, il monopoli è come un SUK dove urlare a squarciagola.
Invece in Germania? In Germania si sceglie un colore e si attende che il fato conduca la locomotiva, il cilindro o il fiaschetto proprio su quel colore, e solo dopo si compra… cioè dico!!! Ma ci rendiamo conto. Maria, sua sorella e suo fratello, belli come il sole, erano basiti, quasi inorriditi.
Io avevo qualcosa di ogni colore scelto da loro e, mentre aspettavano di finirci sopra, io, col ghigno di uno di quelli che fa il gioco delle tre carte in autogrill, avevo comprato.
Ridevo in modo grasso mentre loro faticavano a capire come fare ad affrontare i miei ricatti negoziali… Vuoi Frankfurther Strasse? Paga Crucco! Ecco lì il mio amore per la mia fidanzata impallidì sottomettendosi al più bieco campanilismo da stadio.
Ho rotto le regole e il setting, abbiamo imparato molto, io e loro e forse per questo oggi Maria ha tre figli non con me.
Il punto è che rompere il setting, tradire le regole stabilite apre un mondo, distrugge la simbiosi, frantuma il sistema di credenze e mette in evidenza una quantità di materiale animico che altrimenti resterebbe nascosto.
Allora? Direte voi… che ce ne facciamo di quel sistema di regole? E qual è il sistema di regole corretto? Ci si abbraccia o no? Si sta 45 minuti o 50 o 60 0 un’ora e un quarto? Una seduta o due o una ogni due settimane? Uno di fronte all’altro? Di spalle? Posso alzarmi? Posso fumare? E oggi che siamo online le domande aumentano esponenzialmente.
Allora oggi più che confessare, vi rivelo e condivido come questa robba qui, il setting è ciò che più di tutto garantisce una buona terapia. La costanza del setting è ciò che consente di sentirsi costanti; l’autonomia del setting è ciò che ci consente di sviluppare autonomia; il setting definisce cosa può accadere in terapia e cosa no, così definisce anche cosa accade dentro di me consentendomi di distinguerlo da ciò che accade fuori di me e, poi, dentro chi mi sta di fronte.
Allora quando si tenta la sortita, quando un paziente cerca all’improvviso di cambiare le regole si devono considerare alcune cose, e ve le elenco proprio nello stesso modo in cui faccio a lezione o quando sto supervisionando un collega o una collega.
Primo, il setting va concordato col paziente. Non esiste un sistema di regole giusto e uno no, ma il vostro sistema. Potreste decidere di fare le sedute al bar, ma poi vanno fatte sempre lì e va considerato come tenere a bada le variabili intervenienti… tanto si sa, è l’INTENZIONE ad essere terapeutica.
Comunque il paziente deve partecipare alla costruzione di quel tabellone del monopoli. Alcune regole verranno comunicate altre parzialmente negoziate. Ogni eventuale nuova negoziazione si fa in seduta e senza improvvisazioni.
Secondo, puoi mettere in discussione me quanto vuoi, ma il setting rimane quello, la distruzione del setting non è possibile, la messa in discussione del terapeuta si.
Terzo, Anche quando il setting va stretto al terapeuta, specie quelle volte in cui il paziente lo mette in discussione e ci fa provare un senso di colpa per la nostra fedeltà al setting, si deve saper tenere il fardello di quella colpa.
Della serie, distruggi l’idea di me, ridimensionami, denigrami, cambia terapeuta se vuoi, ma se abbiamo deciso che la mia poltrona sta davanti alla tua e il dipinto della montagna sulla parete di destra, allora lascia perdere quella povera poltrona. Lei ci vuole bene e ci permette di poter fare errori, paziente col terapeuta e terapeuta col paziente, ma usandoli come strumenti perché tu possa trovare quella serenità che cerchi e che, ahimé, non si compra tanto all’etto.
Il setting è anche un sistema interno al paziente e uno al terapeuta, quelli possono essere interessati dagli attacchi nella dinamica di transfert e controtransfert e Ricorda… a gioco finito tutto torna nella scatola.
Buona Terapia
Luca Urbano Blasetti