26/10/2025
GEPPI CUCCIARI — “NON CHIAMATECI GUERRIERI”: IL CORAGGIO DI CHI VIVE, NON DI CHI COMBATTE
"Non chiamateci guerrieri."
Così inizia il monologo intenso e autentico di Geppi Cucciari, un messaggio che rompe gli schemi e tocca corde profonde, lontane dalla retorica e dalle frasi fatte.
Con quella lucidità che le appartiene, Geppi smonta una delle narrazioni più abusate del nostro tempo: quella della “lotta contro il cancro”.
Non è una guerra, dice.
Non è un campo di battaglia dove ci sono vincitori e vinti.
È una vita che continua, a volte più fragile, a volte più silenziosa, ma sempre degna.
E il suo racconto è un invito a cambiare sguardo, a scegliere parole nuove, più umane.
“MORIRE SAREBBE UNA RESA?”
Le sue domande, una dopo l’altra, arrivano come fendenti, ma non fanno male: fanno pensare.
“Morire sarebbe una resa?
Soccombere significa non aver guerreggiato bene?”
Geppi parla senza filtri.
Perché dietro ogni storia di malattia c’è una persona che soffre, che spera, che affronta la paura.
E non sempre chi se ne va lo fa perché ha perso: spesso, semplicemente, perché la malattia è più forte della medicina, non della volontà.
“Che tattica avremmo dovuto usare?” chiede.
“Forse al dolore bisogna aggiungere anche l’umiliazione di una battaglia condotta male?”
Parole che spogliano di eroismo forzato il dolore, restituendogli invece la sua verità più nuda: la malattia non è un duello, ma un percorso, pieno di ostacoli, di giorni bui e di piccole, immense vittorie quotidiane.
“LA GUERRA NON LA FACCIAMO NOI, LA FA LA RICERCA”
Nel suo monologo, Geppi Cucciari porta lo sguardo là dove quasi nessuno guarda: non sui malati, ma su chi li cura, sulla ricerca scientifica, sulla dedizione di medici e infermieri che ogni giorno, in silenzio, salvano vite.
“La guerra la fa la ricerca condotta da eroi, spesso trascurata da chi ha le redini dell’autorità pubblica.”
In un’Italia che ancora finanzia poco la scienza e la medicina, le sue parole suonano come un appello civile, oltre che umano.
Non serve dire “sei un leone”, serve stare accanto, ascoltare, abbracciare, sostenere.
Serve smettere di spettacolarizzare la sofferenza, di usarla come leva motivazionale, come se il dolore fosse una palestra di coraggio.
“Chi si sta impegnando allo spasimo per uscirne vivo ha bisogno di affetto, di attenzione, di ascolto, di non essere lasciato solo.”
La sua voce si fa carezza, e denuncia insieme.
Perché c’è troppa solitudine dietro la malattia, e troppo silenzio dove dovrebbero esserci investimenti, cure, rispetto.
“NON È UNA GUERRA, È UNA SEQUENZA DI NOTTI INSONNI”
Nessuna metafora bellica, ma la realtà.
“È una sequenza di notti insonni, di paura quando entri nel tubo della risonanza magnetica, del terrore di guardare negli occhi chi ti ha appena fatto un esame.”
È il racconto della vita sospesa di chi vive tra una TAC e un referto, tra la speranza e la paura, tra la forza e la fragilità.
La “guerra” non è fatta di armi, ma di resistenza silenziosa, di sorrisi strappati al dolore, di attese che diventano preghiere.
E in questa verità c’è tutta la potenza del suo messaggio: il coraggio non è nei muscoli tesi, ma nella dolcezza con cui si accetta di non avere il controllo.
UN GRIDO GENTILE CONTRO LA RETORICA
Geppi Cucciari non vuole compassione, né applausi.
Vuole solo sincerità.
E la sua è una richiesta semplice, che dovrebbe far riflettere chiunque usi le parole con leggerezza: non chiamiamoli eroi, non trasformiamo il dolore in slogan.
Ogni persona che affronta la malattia ha già fatto abbastanza semplicemente vivendo, accettando, andando avanti.
Non ha bisogno di medaglie, ma di presenza.
“Scusate l’impudicizia — conclude — ma non ne potevo più.”
Un finale che non è rabbia, ma liberazione.
La voce di una donna che parla per sé, ma anche per tutti quelli che non hanno più voce.
IL VALORE DELLE PAROLE
Questo monologo è uno spartiacque.
Ci costringe a fermarci e a riflettere su quanto peso hanno le parole che scegliamo, su quanto male o bene possono fare.
Dire “guerriero” può sembrare incoraggiante, ma per chi soffre è solo un modo per sentirsi in colpa se non ce la fa.
Dire invece “ti sono vicino”, “sono qui”, “ti voglio bene” — quello sì, può salvare un’anima.
La verità è che non serve chiamarli eroi: basta considerarli persone.
Persone che vivono, che temono, che sperano, e che meritano rispetto, sempre.
E se proprio dobbiamo usare una parola grande, che sia questa:
Amore.