30/04/2021
Dimissioni “Selvagge”: è possibile opporsi alle dimissioni di un malato di demenza dall’ospedale?
A cura della dott.ssa Annapaola Prestia, Team Psicologi S.O.F.I.A. per la Famiglia
I casi di dimissioni di anziani non autosufficienti da ospedali e case di cura si verificano ogni giorno. Pensiamo alle famiglie, cui viene detto di riportare a casa una persona che ha bisogno di tutto. Ci sono figli che restano a casa dal lavoro e corrono freneticamente alla ricerca di una soluzione. In questo modo, tutto è sulle loro spalle
In un sistema sanitario che funziona, con i servizi di medicina territoriale e le assistenze domiciliari, dovrebbe esserci il tempo di far seguire all’anziano un percorso di cura e aiutare la famiglia. Peccato che i servizi funzionino a macchia di leopardo e che l’offerta territoriale non sia la stessa lungo il nostro Bel Paese.
Secondo una stima del 2020 (fonte Associazione Alzheimer) 550 mila famiglie italiane hanno venduto casa o si sono indebitate per pagare l'assistenza ai loro cari. Il costo mensile delle residenze socio assistenziali, infatti, va dai 2000 ai 3500 euro (facendo un calcolo su media nazionale). Il carico sugli utenti dovrebbe ammontare alla metà della retta, in base alla normativa, mentre la quota restante spetta alle regioni. Dato che, peraltro, le normative regionali sono eterogenee, si viene a creare una situazione variabile a seconda della residenza dei malati e delle famiglie, spesso a scapito dei cittadini. La non autosufficienza infatti, dopo la perdita del lavoro, è una delle principali cause di impoverimento per le famiglie.
Forse non tutti sanno che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha l’obbligo morale e giuridico di curare tutti i malati. Detto obbligo sussiste (a maggior ragione) quando il paziente sia colpito da patologie acute o croniche, tali da renderlo inguaribile o non autosufficiente, come nel caso dei malati di demenza.
Nonostante ciò, in alcune strutture sanitarie pubbliche si verificano spesso casi di dimissione forzata o di dirottamento al settore assistenziale di malati che, invece, necessiterebbero di continue e irrinunciabili cure sanitarie.
E’ possibile opporsi a queste dimissioni, per così dire, “selvagge”?
La risposta è sì.
In base alla legge [1], infatti, il cittadino può sempre presentare osservazioni e contestazioni in materia di sanità, potendo – inoltre – opporre il proprio rifiuto alle dimissioni dall’ospedale o dalla casa di cura. In particolare, i congiunti del malato o il malato stesso (se in grado di intendere e di volere) si possono opporre alle dimissioni quando:
il paziente non sia in grado di badare a se stesso;
il paziente sia ancora malato. E cioè quando, nonostante sia passata la “fase acuta” egli necessiti (attestata la cronicità della malattia) di ulteriori cure che non possono essere praticate a casa, ma effettuate solo da un esperto (infermiere o medico).
Il rifiuto delle dimissioni è inoltre opponibile:
quando il malato e i suoi congiunti non hanno denaro sufficiente per pagare il ricovero presso strutture private a pagamento;
quando i servizi domiciliari offerti dalla sanità (Asl) o dal Comune, non garantiscono un’assistenza completa, con la conseguenza che il malato rischi di rimanere solo per molte ore del giorno e della notte.
Come scritto poco fa, in base alle leggi vigenti, il Servizio Sanitario Nazionale è obbligato per legge a prendersi cura di tutti i malati. Di contro, i congiunti dei malati non sono obbligati a svolgere le attività di competenza del SSN e, quindi, non hanno alcun obbligo giuridico di sostituirsi alla sanità.
Quanto detto comporta che, da un punto di vista giuridico, accettare le dimissioni da ospedali e da case di cura convenzionate di un malato cronico, non autosufficiente ed incapace di programmare il proprio futuro significa sottrarre volontariamente il paziente dalle competenze del SSN.
Sembra assurdo ma è così. Non solo: ciò comporta, in capo ai congiunti che accettino le dimissioni, l’assunzione di tutta una serie di responsabilità conseguenti alle cure che devono essere necessariamente fornite al malato.
Dette responsabilità hanno natura non solo economica, ma anche di rilievo penale. Infatti, il parente che accetti le dimissioni di un malato incapace o non autosufficiente, sostituendosi alla sanità, si assume anche la responsabilità di prendersi cura del malato e di assisterlo – se necessario – 24 ore su 24. Si tratta di situazioni non facilmente gestibili in ambito domestico. Tuttavia, una volta assunta la predetta responsabilità, qualora si infranga l’obbligo di continua cura ed assistenza, potrebbe configurarsi il reato di abbandono di persone incapaci previsto dal codice penale [2] e punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni. Inoltre, accettare le dimissioni di un proprio congiunto significa inevitabilmente far gravare sul budget familiare gli oneri economici conseguenti alle cure che devono essere fornite al malato.
Da un punto di vista prettamente pratico, per opporsi alle dimissioni da ospedali e da case di cura degli anziani malati cronici non autosufficienti e delle persone colpite da malattia di Alzheimer o da altre forme di demenza è necessario inviare una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno indirizzata al Direttore Generale dell’Asl di residenza del malato e (se del caso) al Direttore Generale dell’Asl in cui ha sede l’ospedale o la casa di cura.
Al riguardo si tenga a mente che, alla luce di tutto quanto detto e delle responsabilità (non solo economiche, ma anche penali) alle quali si va incontro, talvolta opporre il proprio rifiuto alle dimissioni di un malato di demenza, potrebbe rappresentare non solo un diritto, ma anche un dovere per i congiunti.
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NOTE
[1] In particolare, l’articolo 41 della legge 12 febbraio 1968 n. 132 prevede che il cittadino possa presentare apposito ricorso in via amministrativa contro le dimissioni.
L’articolo 4 della legge 23 ottobre 1985 n. 595 e l’articolo 14, n. 5 del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 502 consentono, inoltre, ai cittadini di presentare osservazioni e opposizioni in materia di sanità.
[2] Art. 591 cod. pen.