31/10/2025
A volte accade che, dopo anni trascorsi a mantenersi su un livello energetico alto, cercando di restare sempre “up”, emerga la paura di cadere in depressione proprio nel momento in cui ci si concede di essere tristi.
È come se l’atto stesso di permettersi la tristezza, dopo tanto tempo passato a combatterla, facesse tremare qualcosa di profondo.
Quando iniziamo davvero a rispettare i nostri bisogni e i nostri stati d’animo, e smettiamo di forzarci a “stare bene”, incontriamo anche la mancanza, il vuoto, la lentezza.
In quell'incontro può affiorare una sensazione di libertà, come se qualcosa dentro di noi finalmente si rilassasse.
Eppure, proprio allora, qualcosa si allarma.
È come se la piccola mente interpretasse questa apertura come un pericolo e cercasse di difendersi. Così sorge, ad esempio, il pensiero: “E se stessi cadendo in depressione?”
Mi chiedo se non sia proprio questo il passaggio in cui, avvicinandoci a parti di noi a lungo negate, entriamo in un territorio sconosciuto che la mente non sa ancora nominare come "vita", e quindi chiama "rischio".
È anche vero però che non ogni caduta energetica è segno di libertà: a volte la tristezza può chiudersi su se stessa, diventare stasi, isolamento, perdita di contatto.
L’invito, allora, è restare in un ascolto sottile di sé, per distinguere se stiamo sprofondando o se stiamo semplicemente tornando a sentire.
Forse il lavoro interiore comincia proprio qui: nel poter sostare in questa soglia, dove la piccola mente teme di perdersi e invece si sta ritrovando, imparando a fidarci della vita anche quando non è “up”, anche quando scorre quieta, imperfetta, ma autentica.
Perché è proprio in quel punto che si apre la differenza più sottile e decisiva: tra il seguire l’idea di sé, costruita per proteggerci e restare in controllo, e l’ascoltare il vero Sé, che non ha bisogno di brillare per esistere, ma solo di essere accolto.
(Arte: Alice Rahon)