07/11/2025
Ci sono silenzi che non hanno nulla di pacifico, non calmano, non aiutano a riflettere. Sono silenzi che gelano, che tagliano la relazione e che dicono “tu non esisti” senza usare una parola.
Il silenzio punitivo è proprio questo, un modo di esercitare potere, di far sentire l’altro in colpa e di controllare la distanza. Ma soprattutto, è una forma di dolore mascherata da forza.
Molte persone l’hanno imparato presto, osservando chi gli stava accanto. C’erano genitori che non urlavano mai, ma che sparivano dentro un silenzio carico di significato. “Non mi rivolgere la parola finché non capisci”, “Mi hai deluso”… E poi quella chiusura. Niente voce, niente sguardi e niente contatto. Indifferenza allo stato puro.
Un bambino che cresce così impara presto una cosa, che l’amore non è stabile ma si può togliere e che basta un errore per non essere più degni di presenza. E così, diventando grande, ripete ciò che ha subìto e vissuto. Quando soffre, si chiude. Quando si sente ferito, sparisce. Non per cattiveria (salvo rari casi) ma per sopravvivenza. È l’unico modo che conosce per proteggersi.
Dentro chi sceglie il silenzio punitivo c’è una confusione interiore enorme che spesso non si vede. C’è la paura di perdere il controllo, la paura di mostrare la propria vulnerabilità, c’è l’idea che parlare equivalga a perdere terreno, che il silenzio sia una forma di potere. “Se taccio, capirà.”, “Se sparisco, sentirà la mia mancanza.”
Ma in realtà questo non è controllo, ma disconnessione. È un tentativo disperato e maldestro di farsi sentire senza esporsi. È dire “sto male” nel modo più distante possibile.
Chi lo subisce, invece, lo sente addosso come un freddo profondo perché non è solo mancanza di parole, è proprio assenza. È la sensazione di essere stati tagliati fuori, messi da parte e dentro si attiva una catena di pensieri che logora: “Cosa ho fatto?” “Come posso sistemare le cose?”, “Cosa devo cambiare per meritare che torni a parlarmi?”
Ci si piega, ci si riduce, si cerca di non sbagliare più, si impara a misurare ogni gesto per non provocare di nuovo quella chiusura.
E quando questo meccanismo si attiva con un bambino, le conseguenze sono ancora più profonde. Perché un bambino non sa autoregolarsi, non ha ancora strumenti per calmarsi da solo né per sentirsi “al sicuro dentro di sè”. Quando l’adulto che rappresenta il suo mondo e il suo punto fermo lo punisce con il silenzio, quel bambino non pensa “mi stanno educando”, pensa “non esisto più”.
È un colpo diretto al cuore della sua identità. È come dire: “ti amo solo quando sei come voglio io.”
Allora lui per sopravvivenza si adatta. Osserva, capisce e anticipa. Diventa bravissimo a leggere gli altri, sa quando il genitore è stanco, quando è irritato, quando sta per chiudersi. E, pur di non perdere quel legame, fa di tutto per rientrare nelle regole. Non per rispetto, ma per grande paura.
E qui nasce la radice della manipolazione perché il bambino che impara che l’amore si ottiene adattandosi, da adulto tenderà a fare lo stesso. Si piegherà, compiacerà, o, al contrario, userà il silenzio per avere il controllo sull’altro. È lo stesso schema, solo invertito.
Molti adulti che oggi puniscono con il silenzio, in realtà, stanno solo ripetendo una ferita che conoscono bene. Non vogliono ferire, vogliono evitare di sentirsi impotenti come un tempo. Ma nel farlo, finiscono per far provare all’altro quella stessa impotenza. È un ciclo che si tramanda senza accorgersene.
Quando un bambino vive quel tipo di assenza emotiva, non impara a gestire le emozioni, impara a trattenerle, non impara a chiedere, ma a tacere. Cresce con l’idea che esprimere un bisogno sia pericoloso, perché potrebbe costargli l’amore.
E allora da adulto diventa quello che non dice mai quando sta male, o quello che punisce l’altro sparendo. Ma dietro a quel silenzio c’è sempre lo stesso grido antico: “vedimi, anche se ho sbagliato.”
Per questo è assolutamente fondamentale spezzare quel modello.
Un adulto può scegliere di non sparire, anche quando è arrabbiato. Può dire: “Ho bisogno di un momento, ma ci sono.” Può restare, anche nel disagio. E in quel restare insegna qualcosa di enorme, che la relazione non crolla davanti a un errore e che l’amore non si toglie per punire, ma resta mentre si cerca di capire.
È così che si costruisce la sicurezza emotiva di un bambino, nella presenza e non nel silenzio. Perché un bambino che sente “ci sono, esisto” anche nei momenti difficili, impara che può sbagliare senza perdersi. Impara che può esistere anche quando non è perfetto. E quella certezza diventa la sua base sicura per tutta la vita.
Ricordiamoci sempre che il silenzio punitivo non educa e non fa crescere. Congela. Congela la parola, la fiducia e la possibilità di incontro.
Il silenzio che cura, invece, è un’altra cosa, è quello che serve a ritrovarsi, a calmarsi, a dare il tempo alle parole di tornare, è un silenzio che accoglie, non che punisce. Che tiene il posto, invece di cancellarlo. E quando le parole tornano, perché tornano sempre, se c’è davvero il desiderio di capirsi, fanno bene. Portano chiarezza e verità. E la verità, anche quando fa un po’ male, è l’unica cosa che cura, guarisce e riesce davvero a ricucire ogni legame.
Valentina Scoppio- Psicologa Psicoterapeuta