Luigi Tatulli - Psicologo Psicoterapeuta

Luigi Tatulli - Psicologo Psicoterapeuta Informazioni di contatto, mappa e indicazioni stradali, modulo di contatto, orari di apertura, servizi, valutazioni, foto, video e annunci di Luigi Tatulli - Psicologo Psicoterapeuta, Psicoterapeuta, Via Roma, 16, Selvazzano Dentro.

Sono un Insegnante di Scuola Primaria, Psicologo e Psicoterapeuta iscritto all’Albo A dell’Ordine degli Psicologi del Veneto, con esperienza pluriennale anche come Educatore presso Comunità Terapeutiche per minori e adulti.

27/11/2025

Xebec muore da solo, in modo anonimo, senza che nessuno gli tenda la mano e lo aiuti, se non Roger e Garp e solo perché era diventato una minaccia troppo grande per tutti. Credo che Oda abbia voluto sottolineare proprio questo aspetto del personaggio, soprattutto mettendolo a confronto con Roger e Garp. Questi due, infatti, si sono salvati proprio grazie ai legami che si sono costruiti nel tempo.

Xebec, al contrario, non ha mai creato veri rapporti con la propria ciurma, anche perché non ne esistevano le basi. Ha scelto di affidarsi alla forza piuttosto che alla lealtà, e questo alla fine gli è costato tutto. Forse, se avesse avuto più fiducia negli altri e avesse costruito legami sinceri, pirati come Barbabianca o Kaido non lo avrebbero abbandonato così rapidamente e avrebbero almeno provato a capire che cosa gli stesse accadendo.

E, come se non bastasse, l’unico amico di cui si fidava finisce per tradirlo, abbandonandolo al proprio destino. Da soli, dunque, non si diventa Re del Mondo. E temo che persino suo figlio condividerà lo stesso destino del padre, ovvero morire da solo, abbandonato dalla sua stessa ciurma, che guarda caso è costruita anch’essa sull’opportunismo e sull'arrivismo.

Alla fine, la differenza la fanno sempre i compagni e le persone che scegli di avere accanto.

Luffy invece, come nota Mihawk a Marineford, possiede il potere di farsi alleati chiunque, creando ponti e legami ovunque vada. Questo è il suo vero immenso potere. Luffy riuscirà a raggiungere il suo obiettivo proprio grazie a questo, perché il suo sogno diventa anche quello di tutti coloro che gli vogliono bene.

Non scegliete mai di essere soli. Circondatevi di persone che vi vogliono bene davvero e che vi capiscono. Solo insieme possiamo raggiungere al meglio i nostri obbiettivi.

25/11/2025

🌲 La famiglia nel bosco non è il punto.
Questa storia della "famiglia nel bosco" ha generato opinioni di ogni tipo.
Una gamma che va dai romantici del ritorno alla natura ai complottisti dei giudici cattivoni che vogliono toglierci i figli.
Un dibattito che, lo ammetto, mi pareva tra i meno interessanti: la solita miscela in cui l’emotività è talmente densa da rendere impossibile qualsiasi confronto sensato.
Ma da ieri mi arrivano segnali di alert, inizia a esserci preoccupazione.
Mi avvertono che se non dico niente sulla faccenda rischio non solo l’abilitazione alla professione, ma soprattutto la mia preziosissima reputazione da psicologa influencer.
E allora mi tocca.
Partiamo da una cosa semplice, giusto per togliere l’ambiguità di mezzo: non ho alcuna intenzione di difendere la scelta di vivere isolati con dei minori in una capanna fatiscente, senza servizi, senza rete, senza garanzie minime per dei bambini.
Il punto però è un altro, ed è l’ipocrisia gigantesca che ci scivola davanti agli occhi.
Un’ipocrisia che non riguarda la scelta — legittima e francamente condivisibile a chiunque abbia letto le carte e non solo guardato i servizi delle Iene — dei giudici e degli assistenti sociali che hanno fatto il loro lavoro.
Riguarda tutto ciò che abbiamo normalizzato come società e come politica (compresi quelli che in questi giorni si stracciano le vesti davanti alle telecamere. Si Salvini, parlo di te).
Abbiamo normalizzato case rese “abitabili” anche se hanno la metratura di uno sgabuzzino, dove sì, il bagno ce l’hai, ma appoggiato alla testiera del letto.
Abbiamo normalizzato lavori che ti rendono quasi più povero dell’essere disoccupato, con stipendi che scompaiono prima ancora di arrivare sul conto.
Abbiamo normalizzato bambini lasciati con un telefono in mano, perché un/a babysitter costa quanto un rene e i congedi familiari sono un miraggio.
E no, non possiamo “semplicemente restare a casa a crescerli”, perché nel frattempo dobbiamo pagare l’affitto dello sgabuzzino di cui sopra.
E allora sì: io più che prendermela con i giudici, avrei dell'irritazione per questo disegno politico di una società che è uno scarabocchio sotto acidi.
Anni di retorica su famiglia, tradizioni, infanzia… senza mettere un euro dove servirebbe davvero.
Anni dove abbiamo normalizzato la precarietà come “colpa individuale”.
La "famiglia nel bosco" — o meglio, l’archetipo grottesco che è diventata nella narrazione collettiva — non è il segnale di una società che “vuole tornare alla natura”.
È il segnale di una società che ti lascia così solo, così stretto, così senza alternative, che perfino la natura — quella vera, dura, senza romanticismi e senza cesso — ti sembra un piano migliore.
Ed è lì che dovremmo guardare.
Tutto il resto è campagna elettorale.

22/10/2025

Se c'è un libro che andrebbe letto con la stessa cautela con cui si maneggia un esplosivo, è "Psicologia delle F***e" di Gustave Le Bon. Pubblicato nel 1895, questo non è un saggio; è il manuale d'istruzioni, né troppo segreto né troppo velato, di ogni forma di manipolazione di massa venuta dopo. È un testo così diabolicamente accurato che leggerlo oggi provoca una vertigine.

Non è un caso che Mussolini ne fosse un avido lettore, vantandosi di averlo studiato. Non è una sorpresa che Goebbels e Stalin lo conoscessero a fondo. Quest'opera è stata la pietra angolare su cui i grandi dittatori del Novecento hanno costruito la loro architettura del consenso. E, a giudicare dall'irrazionalità che domina il nostro dibattito pubblico, molti politici moderni continuano a usarlo come un prontuario.

La tesi di Le Bon è un insulto diretto alla nostra presunzione di individualità. Egli afferma, senza mezzi termini, che nel momento in cui l'individuo si immerge in una "folla" – sia essa fisica o, come diremmo oggi, ideologica – cessa di esistere. La sua coscienza critica si spegne, la sua intelligenza collassa, e viene assorbito da una "anima collettiva".

E com'è questa anima collettiva? È primitiva, impulsiva, irritabile, suggestionabile come un ipnotizzato. La folla non ragiona per logica, ma per immagini e associazioni rudimentali. Non cerca la verità, cerca un sogno. Non vuole prove, vuole un capo.

È qui che l'opera diventa profetica. Le Bon ci spiega, con un secolo e mezzo d'anticipo, perché le narrazioni semplicistiche trionfano sempre sull'analisi complessa. La folla non si convince: si seduce. E la seduzione avviene tramite tre strumenti infallibili: l'affermazione (pura, semplice, senza prove), la ripetizione (ossessiva, finché l'affermazione non penetra nell'inconscio) e il contagio (la diffusione virale dell'emozione).

Suona familiare? È l'anatomia di ogni ondata di indignazione collettiva, di ogni linciaggio morale, di ogni bolla speculativa e di ogni fanatismo politico.

Le Bon poi dipinge il ritratto del "condottiero", il leader. Non è uno statista, non è un intellettuale. È un allucinato, un nevrotico, un uomo d'azione ossessionato dalla sua idea fissa, ma dotato di una volontà di ferro. Non seduce con la ragione, ma con il "prestigio", quell'aura magnetica e irrazionale che paralizza la critica.

Certo, il libro è impregnato dei peggiori pregiudizi del suo tempo: Le Bon è classista, reazionario, ma è proprio questo suo snobismo aristocratico, questa sua totale mancanza di filtri democratici, a renderlo così spietato e onesto. Non fornisce illusioni.

In conclusione, "Psicologia delle F***e" è un'opera tossica e indispensabile. È il veleno e, al tempo stesso, l'antidoto. Leggerlo oggi non significa approvare le sue conclusioni reazionarie, ma acquisire gli strumenti per riconoscere la folla quando agisce dentro e fuori di noi, prima che sia lei a inghiottirci.

✍️ Ivan Petruzzi
📕 https://amzn.to/4hkQuE1

19/10/2025

Di questa vicenda ci si è occupati solo dal punto di vista dell’orrore criminale. E intendiamoci, scanso a equivoci (ché già vedo i classici commenti accusatori del “giustificazionismo”, che a volte non capisco se arrivano da persone con scarsa capacità di comprensione o da critici intellettualmente disonesti): i Ramponi hanno commesso un atto terribile e criminale, che ha privato della vita tre persone e distrutto le rispettive famiglie. Di fronte a questi gesti criminali, sul piano della condanna personale, ci sono poche parole e pochi discorsi. I Ramponi pagheranno ciò che hanno fatto, meritatamente, con il carcere per il resto della loro vita.

Tuttavia, mi piacerebbe aprire un altro tema. Poiché, semplicemente, è la questione profonda che si pone di fronte ad una parte del crimine, della delinquenza e della “malvagità” che troviamo nella società e sulle prime pagine dei giornali. Un tema che si impone soprattutto, s’intende, quando si tratta della delinquenza e della criminalità di persone appartenenti alle “classi svantaggiate”, non certo di reati come le grandi evasioni fiscali, per intendersi.

Da giorni i due fratelli e la sorella Ramponi sono descritti come “mostri”. Anche come “selvaggi”, come potete leggere nell’articolo del Corriere della Sera. Mostri selvaggi e antisociali, con un’anima evidentemente malvagia e problemi psichiatrici.

Di questa vicenda si è parlato molto dell’orrore criminale e praticamente nulla delle condizioni che rendono possibili queste stragi. Facendo ancora un passo indietro: non si è parlato praticamente nulla delle condizioni politiche, sociali ed economiche che indirettamente portano le persone a trovarsi nelle condizioni di disperazione e abbrutimento materiale e morale che le può portare, infine, a compiere un crimine così grave. A diventare dei selvaggi e dei mostri, appunto.

Fa impressione vedere i volti dei due fratelli Ramponi, dopo anni di autosegregazione in casa durante il giorno senza elettricità e acqua corrente. Senza contatti sociali. Senza, in fondo, un riconoscimento umano da parte di individui della loro stessa specie. Fa impressione, specialmente in alcune città d’Italia, - mi viene in mente Napoli, dove ho lavorato per un anno, con le sue profonde differenze socio-economiche tra un quartiere Sanità e un Posillipo, ma la considerazione vale per tutte le grandi città d’Italia - vedere come le diseguaglianze socio-economiche fanno parte non solo dei modi e dei costumi, ma anche degli stessi volti. Da quali background familiari provengono le persone, spesso lo si può dire semplicemente guardandole in faccia e parlandoci per qualche secondo. Tra chi ha poco e nulla, e chi invece ha alle spalle una famiglia e un contesto sociale benestante, la differenza è profondissima, sul piano estetico e spirituale: la differenza è quasi antropologica. Sembra di avere a che fare con umanità diverse, con un differente grado di sviluppo culturale e spirituale. È un fatto che spesso proiettiamo su società del mondo “non-occidentale”, dove le diseguaglianze socio-economiche, dove le differenze tra chi possiede aziende e chi vive negli slums sono ben più profonde delle nostre; ma pure noi non ce la passiamo affatto bene. L’Italia, nel mondo “occidentale”, se ne sta dietro solo a USA e Gran Bretagna quanto a diseguale distribuzione della ricchezza (e delle possibilità di sviluppo umano e spirituale).

Tipico della cultura neoliberale è la rimozione delle condizioni strutturali, del socio-economico nella spiegazione delle cose. La “naturalizzazione” dei fatti: i poveri sono poveri perché non hanno meritato di guadagnare di più; i vincenti sono ricchi e vincenti perché se lo sono meritato. I mostri sono mostri perché, in fondo, sono mostri nell’anima. Probabilmente, malvagi e selvaggi fin dalla nascita. Poco potrebbe - e quindi: dovrebbe - fare l’organizzazione politica della società per affrontare e correggere questi fatti del tutto “naturali e inevitabili”.

Accanto alla descrizione dell’orrore criminale, che sempre tanta audience fa in TV - a proposito: la cronaca nera sulla televisione pubblica è un gigantesco, quotidiano meccanismo di distrazione di milioni di anziani e casalinghi / casalinghe dalle questioni politiche, e prima o poi bisognerà pur prendere di petto la questione - bisognerebbe aprire una gigantesca discussione sulle condizioni strutturali, socio-economiche, che hanno portato i Ramponi a commettere ciò che hanno commesso. E, più in generale, che portano tanti delinquenti a delinquere. Troppo facile scaricare le colpe sugli individui e spiegare tutto con elementi di “malvagità” e di devianza psichiatrica (devianza psichiatrica che andrebbe, anch’essa, spiegata su basi materiali).

Nessuno nasce criminale. Nessuno nasce “mostro”. La società ha smesso da tempo, soprattutto dall’esplosione dell’epoca neoliberale negli anni ‘70, di avere quale priorità il tentativo di elevare tutti gli individui sul piano materiale e spirituale. I legami sociali si sono sfilacciati, con la diffusione drammatica di una terribile solitudine personale; le diseguaglianze sono semplicemente esplose, con poche famiglie che hanno patrimoni milionari e una raffinatezza di modi, gusto e spirito garantita dalla capacità di spesa e dall’accesso quotidiano alla comodità e alla bellezza (una casa spaziosa e in quartieri esclusivi, vacanze, salotti buoni, sport, beni di lusso, et cetera), e milioni di persone che hanno accesso a un ordine di possibilità infinitamente inferiore. I Ramponi “mostri e selvaggi” sono un caso estremo, ma a milioni di italiani la società non garantisce condizioni materiali, e una possibilità di sviluppo spirituale, che sarebbero assolutamente possibili (e neanche complicate, con politiche diverse) in una parte di mondo come la nostra che sguazza nella ricchezza.

Ecco: a mio parere abbiamo perduto la capacità di interrogarci su tutte queste cose. Fenomeni storici e dovuti a cause strutturali, come le diseguaglianze socio-economiche estreme, hanno smesso di scandalizzarci e abbiamo perduto la consapevolezza delle conseguenze e degli effetti di una società così diseguale, atomizzata, sfilacciata. In cui tante persone e famiglie sono lasciate a se stesse, senza possibilità di un minimo benessere materiale e di un dignitoso sviluppo spirituale. Un tempo si parlava di “diritti” incondizionati e inalienabili; ora si parla praticamente solo di “meriti”, persino dell’opportunità di patentini del voto per togliere la possibilità di espressione politica a chi è “ignorante e selvaggio” (senza mai porsi la questione di come mai è “ignorante e selvaggio”, dinamica tipica dei liberali). Un tempo si parlava di uguaglianza quale obiettivo sociale e politico principale, al fine di garantire l’universale sviluppo della persona umana, come da terzo articolo della Costituzione italiana. Prima dell’epoca neoliberale, quando la cultura socialista e democratica era diffusa nella società, questo universale sviluppo della persona umana, a prescindere dalle condizioni socio-economiche di partenza, era uno dei cardini del modo “occidentale” di stare al mondo. Oggi ormai non costituisce più neppure un problema la coesistenza, nelle nostre società, di classi sociali i cui estremi appaiono quasi come specie umane diverse. I superuomini con la villa al mare e il Range Rover, e gli uomini di Neanderthal senza acqua corrente ed elettricità, costretti a lavorare di notte.

Come dice il cantante Mannarino nella canzone “Un’estate”, meravigliosa e vera:

“I mostri della terra esistevano. Ma erano fratelli sfortunati”

17/10/2025

🔴 Comunicato stampa congiunto sull’educazione sessuo-affettiva nelle scuole

Le Presidenti e i Presidenti degli Ordini degli Psicologi di Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Puglia, Sicilia e Veneto prendono una posizione chiara e netta in merito al DDL del 23 maggio 2025 del Ministro Valditara.

🎓 L’educazione sessuo-affettiva è una risorsa, non un rischio. Limitare o escludere la possibilità di promuovere da parte dei professionisti della salute attività educative su questi temi significa privare bambini e adolescenti di strumenti fondamentali per comprendere e gestire i cambiamenti fisici ed emotivi legati alla crescita.

🧠 L’educazione sessuo-affettiva, quando è adeguata all’età e scientificamente fondata, contribuisce a relazioni sane, alla prevenzione di bullismo e violenza di genere, e al benessere psicologico delle giovani generazioni.

👥 Gli Ordini regionali sopra menzionati esprimono profonda preoccupazione per le implicazioni culturali e sociali derivanti dalle limitazioni previste nel DDL “Disposizioni in materia di consenso informato in ambito scolastico”.

Chiediamo che la voce degli psicologi e delle psicologhe venga ascoltata nelle sedi parlamentari competenti, per ribadire l’importanza di un’educazione affettiva e sessuale tempestiva, continuativa e basata sulle evidenze scientifiche.

📢 La tutela dei minori passa anche — e soprattutto — attraverso la conoscenza, l’ascolto e la costruzione di contesti educativi sicuri e consapevoli.

03/10/2025

Il week end lungo e la rivoluzione starebbero benissimo insieme.
Ci ricorderebbe che il tempo che abbiamo a disposizione è prezioso.
Che possiamo donarne un po’ alla comunità, soprattutto alle sue parti più fragili e in difficoltà.
Che il lavoro che rende liberi era una beffa, che al massimo la libertà è qualcosa che ci può essere sottratta, non qualcosa che ci dobbiamo guadagnare.
Il week end lungo, per sottrarci all’idea che tutto - individui, popoli, guerre, ricostruzioni comprese - sia monetizzabile.
Il week end lungo per restituire all’essere umano la possibilità di stare in relazione, di vivere di creatività, di alimentare la pazienza e la curiosità verso l’altro.
Quanta pace ci sarebbe, nel week end lungo.

23/09/2025

Cosa accade a un uomo quando il suo corpo è tutto ciò che ha per dire chi è?

Frank Bruno, nella narrazione che lo circonda, è spesso ridotto a una superficie: pugni, muscoli, grida. L’epopea del gigante nero. Il gladiatore buono. Il simbolo di una forza senza colpa. Ma ogni corpo, anche il più scolpito, nasconde una crepa. E questa crepa, se non è abitata da un senso, si trasforma in un abisso.

Cresciuto in una Londra poverissima, marginale, figlio di immigrati caraibici, Frank aveva dentro di sé il rombo di due oceani. Ma la sua voce era bassa, la sua natura docile, quasi stonata nel caos della working class britannica. Fin da ragazzino il suo corpo eccede: troppo grosso, troppo forte, troppo alto. È un corpo che anticipa il desiderio di guadagnare la vetta: vincere e colpire. Ma chi è Frank, se non ciò che gli altri si aspettano che sia?

Il padre è severo, quasi assente. E come ogni assenza paterna, genera un buco. Il noto psicoanalista Jacques Lacan lo chiamerebbe il “foro del Nome-del-Padre”: quel punto in cui la Legge simbolica non si è inscritta. E allora il ragazzo cerca una legge altrove. Nel ring e nei guantoni, nei colpi sul volto e nei ritmi forsennati della corsa imposta dai timer del maestro. Là dove le regole sono chiare, dove il dolore è previsto, dove l’identità si guadagna a colpi. La boxe non è solo sport: è uno spazio simbolico dove Frank tenta di iscriversi nel mondo.

Ma il ring è anche un luogo di equivoco. Ti si ama per la tua forza, non per la tua verità. Ti si applaude quando cadi, ma solo se ti rialzi. E quando il corpo inizia a cedere — com’è destino per ogni corpo — la maschera crepa. È in quel momento che la psicosi bussa alla porta.

Frank Bruno viene internato in un ospedale psichiatrico. La diagnosi è di disturbo bipolare. Ma la diagnosi, da sola, non dice tutto. Il crollo psichico non è un incidente; è il ritorno del rimosso. È la voce di un bambino che non ha mai potuto parlare. È il desiderio che non ha trovato parola. Il ricovero non è la fine della sua parabola: è il suo punto zero. Il punto da cui può, forse per la prima volta, ricominciare.

Da lì in poi, la vita di Bruno non è più quella di un pugile, ma di un uomo che tenta — faticosamente, quotidianamente — di abitare la propria fragilità. Inizia a parlare della sua malattia. Inizia a mostrarsi senza la corazza. E così facendo, apre uno spazio nuovo nel discorso pubblico: quello in cui la fragilità non è più una vergogna, ma una forma alta di umanità. Si presenta in scuole, convegni, università, palestre e porta la sua voce: le fragilità sono umane, cadere rovinosamente è umano, e tutti abbiamo una seconda possibilità.

Frank Bruno ha vinto un titolo mondiale, ma questa è solo una nota a piè di pagina. La sua vera vittoria è un’altra: è quella di non aver fatto della forza fisica una religione, di aver concesso al proprio crollo la possibilità di un senso.

Ha avuto forza, certo, ma non quella che applaudono. Ha avuto quella di chi regge la fatica di restare, di chi non si leva dal cuore il peso del proprio nome. Frank Bruno non ha vinto il mondo, anzi ha perso, e spesso. Ha perso e si è seduto accanto alla sconfitta, come a una madre. L’ha guardata negli occhi, e lei non ha avuto più niente da togliergli.

[Ex tenebris, lux" - Storia di Frank Roy Bruno]

22/09/2025

🌍Mobilitazione generale per la Palestina | Lunedì 22 settembre
Oggi non si resta in silenzio, oggi si agisce per denunciare la violenza e l’ingiustizia perpetrata ogni giorno a Gaza.

Altrapsicologia ha promosso e sostenuto numerose iniziative territoriali che hanno dato voce a una solidarietà concreta.
Grazie al grande impegno dei gruppi regionali di Lombardia, Toscana e Abruzzo, abbiamo raccolto e devoluto 3.624,00 € a organizzazioni umanitarie attive nei territori colpiti:

Emergency – Amnesty International – Save the Children – Croce Rossa Italiana – Medici Senza Frontiere.

Non basta dire "pace", serve scegliere da che parte stare.
✊ La solidarietà è una pratica politica. La psicologia non può restare neutrale.

27/06/2025

Qualche anno fa mi sono scottato.
Succede quando vai al mare, no?
Ti distrai, magari t’addormenti un attimo, ti scotti, fa parte del gioco. All’inizio non ci ho fatto tanto caso, però poi ha cominciato a far male, un male cane. È venuto fuori che era una cosa seria. Cioè, almeno per me. Agli altri dicevo che era quello che sembrava, una scottatura. E loro, in coro: ma per forza, vai al mare, ti distrai, ti addormenti, ti scotti, fa parte del gioco.
Mi sono detto che avevano ragione, che magari stavo esagerando. Ma non smetteva di bruciare.
È buffo perché io ho sempre pensato di essere il tipo di persona che non si scotta. E anche se si scotta, ho sempre pensato di essere il tipo di persona che una cosa così la regge. Fortifica, no? Si dice così? Magari uno accusa un attimo il colpo, ma poi basta, si rimette in piedi e va avanti. Invece no, invece quella scottatura mi ha tolto il fiato, mi ha scorticato, ustionandomi sottopelle per giorni, per mesi, per anni. E non smetteva mai di bruciare.
Mi sono bloccato. Non riuscivo più a fare niente. C’ero solo io e quella scottatura che lentamente mi consumava. Ogni tanto pensavo fosse passata, ogni tanto mi dicevo adesso ti dai una regolata e ritorni a fare la vita di prima.
Così mi costringevo a tornare al mare. E il mare stava lì ad aspettarmi. Mettevo la crema solare, da trenta, da cinquanta. Non serviva a niente, continuavo a sentirmi vulnerabile.
Anche le cose più banali come stare sulla spiaggia, o prendere il sole, erano diventate complicate. Figuriamoci fare il bagno.
Ho cominciato ad andare al mare con la maglietta. Poi direttamente senza portarmi il costume. Poi fermandomi al bar a guardare gli altri prendere il sole. Domandandomi come facessero. Non lo sanno che ci si può scottare? Non si rendono conto di quanto sia pericoloso, doloroso...
Ho iniziato ad aver paura di andare al mare. Non l’ho detto a nessuno, figuriamoci. Come lo spieghi che hai paura di prendere il sole? Chi è che ha paura di prendere il sole?
Il passo successivo è stato smettere di andare al mare. Prima con qualche scusa, poi senza neanche quelle.
P***a miseria, a me piaceva il mare. Mi faceva stare bene. Era una di quelle poche cose che mi faceva sentire me.
Ho cominciato a parlarne male. A dire che il mare è una m***a. Che quelli che ci vanno sono degli imbecilli. Con tutto quello che succede nel mondo, tu pensi al mare. Ma dai, cresci un po’.
Ho deciso che l’estate è sopravvalutata, che non mi serve, che vivo benissimo anche senza sole.
E poi ho pensato a un’altra cosa. Che era colpa mia. Che non sono in grado, non sono capace, che sono un cretino, un id**ta, un fallito che non sa manco prendere il sole senza scottarsi, che si è ustionato, che si è squagliato, che si è consumato perché troppo stupido per gestire il mare.
E ho preso una decisione. Ho deciso che non mi merito il mare.
E allora non va******lo mare, va******lo Nicolò per aver anche solo pensato che uno come te potesse andare al mare senza tornarsene a casa escoriato.
A questo punto la retorica tradizionale che s’inghiotte questo tipo di storie scongiura che io vi dica che tutto s’aggiusta. Che col tempo, la pazienza, che vedrai, che parlarne con qualcuno, che dai e dai i pezzi si rimettono insieme, le paure scompaiono e si torna a essere quelli di prima. Per me non è così.
Ancora oggi sento la scottatura, sento il dolore.
A volte li riconosci quelli che si son presi una scottatura. Hanno sorrisi difficili da tener su, e sguardi facili da buttar giù. Facce che non parlano di certi luoghi, di certi anni, di certe persone. Anche se le conosci da una vita, anche se ci fai l’amore insieme. Non ne parlano e basta.
Quando si rompe qualcosa dentro, non è detto che si aggiusti. Puoi provare a proteggerti, puoi provare a lasciar perdere, puoi parlarne, e sono tutte cose sensate per impedire alla paura di immobilizzarti, ma non sempre bastano.
Non condanno che si chiude, chi si barrica, si tutela, chi trova, si affeziona e difende la propria comfort zone, e chi sulla sabbia decide di non metterci più piede. Perché, va bene, nessuno si salva da solo, ma intanto ognuno da solo fa quello che può.
Un giorno ci sono tornato al mare. È successo un po’ per caso, con la spiaggia semivuota.
Non l’ho detto a nessuno. Ho steso il telo, mi sono seduto, le mani dentro la sabbia. Dopo un po’ ho avuto anche il coraggio di togliermi la maglietta. Ho fatto anche il bagno. Cinque minuti, poi basta. Il cuore mi batteva fortissimo. Sono uscito, mi sono asciugato, mi sono vestito, ho preso le mie cose e sono andato via. Tutto qua. Non ho fatto un sacco di cose, alcune sono sicuro che non le farò mai. Continuo a guardare gli altri, su quella spiaggia, e continuo a chiedermi come facciano a non scottarsi.
Ho avuto paura. Ne ho ancora.
Quel giorno lì non ho provato né sollievo, né euforia. Nessuna catarsi, nessuna cura. Ho provato meno dolore di quello che mi sarei aspettato, questo sì. E mi è rimasta dentro una consapevolezza: che sono stato capace di stare su quella spiaggia.
E che se volessi, potrei farlo di nuovo.

Il testo è di Nicolò Targhetta e la grafica di Amandine Delclos.

Indirizzo

Via Roma, 16
Selvazzano Dentro
35030

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 20:00
Martedì 09:00 - 20:00
Mercoledì 09:00 - 20:00
Giovedì 09:00 - 20:00
Venerdì 09:00 - 20:00
Sabato 09:00 - 13:00

Notifiche

Lasciando la tua email puoi essere il primo a sapere quando Luigi Tatulli - Psicologo Psicoterapeuta pubblica notizie e promozioni. Il tuo indirizzo email non verrà utilizzato per nessun altro scopo e potrai annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.

Contatta Lo Studio

Invia un messaggio a Luigi Tatulli - Psicologo Psicoterapeuta:

Condividi

Share on Facebook Share on Twitter Share on LinkedIn
Share on Pinterest Share on Reddit Share via Email
Share on WhatsApp Share on Instagram Share on Telegram

Digitare