14/11/2025
Se ad oggi ci sono piccole persone che fingono di essere disabili per saltare la fila di ingresso ad un parco divertimenti, che se ne vantano sui social, che si auto definiscono “astute” e vengono anche seguite da migliaia di persone, se ad oggi ci sono famiglie che lottano da sole per vedersi riconosciuti diritti basici e fondamentali, che vivono tra fatiche inimmaginabili pur mantenendo una dignità che ci fa quasi vergognare delle nostre costanti lamentele, allora significa che stiamo sbagliando qualcosa.
Non ci può essere nessuna evoluzione quando manca l’umanità.
FRANCA BOCCHER: LA VERITÀ CHE NESSUNO HA IL CORAGGIO DI DIRE SULLA DISABILITÀ GRAVE
Mi chiamo Franca, sono la mamma di Bruno Ciola. Mio figlio è affetto da una gravissima disabilità causata da asfissia neonatale. La sua vita — e la nostra — non è fatta di speranza, frasi motivazionali, slogan dolci o favole sulla “diversità come dono”.
Bruno non cammina, non parla, non mangia, non beve.
Viene nutrito tramite PEG.
La sua giornata si divide tra letto e carrozzina.
Se il tempo lo permette, e se la malattia glielo concede, possiamo fare una breve passeggiata. Una normalità che per noi è già un lusso raro.
Questa non è una storia da libro di auto-aiuto.
Non è un racconto per far commuovere chi legge e poi continuare la giornata come se nulla fosse.
È la realtà nuda di ciò che significa vivere con una disabilità grave, per chi la vive nel corpo e per chi la vive nell’anima, ogni giorno, senza tregua.
Bruno non vive, Bruno subisce la vita.
E noi genitori insieme a lui.
La nostra vita non è più nostra.
Non esistono riposi, pause, notti intere, giorni liberi.
Il nostro è un lavoro continuo, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno.
Siamo caregiver.
Siamo infermieri, fisioterapisti, badanti, psicologi, assistenti.
Siamo tutto, tranne persone libere.
Chi dice che “la disabilità è un dono” non sa di cosa parla.
È una frase che può dire solo chi non ha mai vissuto ciò che viviamo noi.
Noi non siamo “coraggiosi”.
Non siamo santi.
Non siamo forti.
Siamo rassegnati.
E la rassegnazione non è pace.
La rassegnazione è dolore che non ha più lacrime.
Poi c’è lo Stato.
Anzi: l’assenza dello Stato.
La figura del caregiver familiare non è riconosciuta.
Io non lavoro, perché il mio lavoro è mio figlio.
Ma non avrò mai una pensione.
Non “posso” ammalarmi.
Non posso permettermi di cedere, fermarmi, crollare.
Perché se cado io, cade tutto.
E quando noi non ci saremo più?
Chi prenderà Bruno in braccio?
Chi lo laverà, nutrirà, assisterà?
Chi lo amerà al punto di consumarsi?
Non esistono strutture adeguate.
Solo istituti impersonali, corridoi freddi e spalle voltate.
Chiedo case famiglia piccole, con personale formato, luoghi dignitosi dove i nostri figli possano vivere senza essere parcheggiati nell’indifferenza.
Non chiediamo miracoli.
Chiediamo diritti.
Chiediamo di non elemosinare ciò che ci spetta.
Chiediamo che chi decide le leggi venga almeno una notte nelle nostre case.
Una sola.
E allora capirebbe.
Capirebbe davvero.
La disabilità non riguarda solo chi ne è colpito.
Riguarda l’intera famiglia.
Le amicizie svaniscono, i parenti spariscono, le relazioni si sbriciolano.
Rimane un nucleo fragile, stretto, che resiste.
Non per eroismo.
Per sopravvivenza.
Noi non viviamo.
Noi sopravviviamo.
E sopravvivere non dovrebbe mai essere la normalità.
Firmo questa testimonianza non come simbolo, non come esempio, non come storia da condividere e dimenticare.
La firmo come monito, come richiesta, come urlo silenzioso in mezzo al rumore dell’indifferenza.
Più rispetto.
Più sostegno.
Più presenza.
Non solo in campagna elettorale.
Con dolore e con verità,
Franca Boccher — mamma di Bruno