Dott. Giuseppe Lavenia

Dott. Giuseppe Lavenia Psicoterapeuta - Divulgatore Scientifico - Esperto in Educazione e Benessere Digitale.

Presidente Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi della regione Marche.

Sì, lo so: qualcuno già respira male.“E come facciamo senza il gruppo?”Tranquilli: l’umanità ha superato di peggio.Super...
04/12/2025

Sì, lo so: qualcuno già respira male.
“E come facciamo senza il gruppo?”
Tranquilli: l’umanità ha superato di peggio.
Supererà anche questo.

Perché i gruppi classe molto spesso non aiutano: alimentano ansia.
Sono il luogo dove gli adulti diventano detective, giudici, commentatori e, nei momenti migliori, profeti di sciagure scolastiche.

E soprattutto sono insicuri: può entrare chiunque, anche chi non dovrebbe. E diventare la porta perfetta a screenshot, fraintendimenti e prime dinamiche di cyberbullismo.

Poi c’è il mito della “condivisione”: nei gruppi classe si condivide poco e in alcuni casi male.
Si scarica ansia.
Ogni compito diventa un caso, ogni emoji un conflitto, ogni comunicazione una crisi internazionale.

La verità è semplice: molto spesso non sono gruppi informativi, sono centrali del fraintendimento.
E i ragazzi imparano che il rumore vale più delle parole.

La rivoluzione è questa: uscire noi, far uscire loro, e tornare a parlare davvero.

Premere “Esci dal gruppo” non è ribellione.
È igiene mentale.
Per noi.
E soprattutto per loro.

E sì, lo so, non tutti i gruppi sono così.
Ne esistono di virtuosi, utili, rispettosi.
Ma chi fa il mio mestiere lo vede ogni giorno: troppo spesso lo spazio del gruppo smette di aiutare e comincia ad amplificare ansie, fraintendimenti e pressioni invisibili.
La mia non è una crociata, è una provocazione necessaria. Perché possiamo anche tenerli quei gruppi… ma prima o poi dobbiamo chiederci se ci stanno davvero aiutando o se ci stanno solo trascinando dentro il rumore. E il rumore, quando si parla di figli, è il peggior consigliere possibile.

Capire i nostri figli nell’epoca degli schermi non è più un tema “da esperti”: è una necessità quotidiana.E riguarda tut...
02/12/2025

Capire i nostri figli nell’epoca degli schermi non è più un tema “da esperti”: è una necessità quotidiana.
E riguarda tutti noi.

Ogni giorno incontro ragazzi che chiedono ascolto e adulti che cercano risposte. Tra libertà e dipendenza, tra identità e smarrimento, il digitale è diventato il luogo dove cresciamo, spesso senza una bussola.

Per questo venerdì 5 dicembre, alle 19.00, sarò a Minervino di Lecce per una lectio magistralis dedicata alle famiglie, agli educatori e a chi vuole capire davvero cosa sta accadendo ai nostri bambini e adolescenti digitali.

📍 Scuola Secondaria di I° “G. Macchi” – Sede Centrale
Via Duca degli Abruzzi, 20 – Minervino di Lecce (73027)

Evento gratuito – iscrizione obbligatoria qui:
https://www.dipendenze.com/corso/bambini-adolescenti-digitali-minervino

Vi aspetto.

Incontro Sistema Integrato Zerosei a Minervino di Lecce il 5 dicembre: benessere 0–6 anni, educazione, media digitali e intervento del Prof. Lavenia.

«Almeno lui non mi giudica.»Me lo sono sentito dire da un quindicenne, con la naturalezza di chi crede che sia normale.E...
02/12/2025

«Almeno lui non mi giudica.»
Me lo sono sentito dire da un quindicenne, con la naturalezza di chi crede che sia normale.
E non parlava di un amico.
Parlava dell’Intelligenza Artificiale.

I dati dell’indagine Di.Te. & Skuola.net lo confermano:
1 adolescente su 2 (46%) ha già usato l’IA per parlare delle proprie emozioni.
1 su 10 lo fa ogni giorno.
Il 66% sente che l’IA non giudica.
Il 64% dice che li comprende.

Un algoritmo. Comprende.

Ma non è una questione di colpe. Neanche lontanamente.
Anche perché sono un genitore anch’io.
E so cosa vuol dire avere giornate piene, sentirsi tirati da tutte le parti, con la sensazione di non bastare mai.
La solitudine non è un’esclusiva degli adolescenti: è diventata la stanza in cui troppe famiglie vivono senza accorgersene.

Quando un figlio non trova ascolto e un genitore non trova riparo, si crea una fenditura.
E in quella fenditura entra di tutto: il telefono, i social, l’algoritmo. Non perché siano migliori degli adulti, ma perché sono lì.
Sempre disponibili.
Mai stanchi.
Mai arrabbiati.
Mai distratti.

La domanda non è: “Chi ha sbagliato?”
La domanda è: “Come possiamo ritrovarci?”

Io vedo ragazzi soli.
E vedo genitori soli.
E la solitudine, quando si somma, non divide: moltiplica.

Se un ragazzo si confida più con l’IA che con noi, non è un tradimento. È un segnale.
Un segnale che ci riguarda tutti, come comunità e come genitori.

L’IA non è il problema. È il sintomo.
Il problema è lo spazio che abbiamo perso tra di noi: quel luogo semplice dove qualcuno ti ascoltava senza giudicarti.

Ed è questo spazio che dobbiamo ricostruire.

Una lista di nomi di ragazze sul muro di un bagno. Non è uno scherzo. Non è goliardia.È un segnale preciso: qualcuno pen...
01/12/2025

Una lista di nomi di ragazze sul muro di un bagno. Non è uno scherzo. Non è goliardia.
È un segnale preciso: qualcuno pensa ancora che il corpo delle donne sia un territorio su cui esercitare potere.

Al Giulio Cesare non è comparsa una scritta.
È emersa una mentalità.
Una cultura che continua a produrre ragazzi convinti che umiliare, classificare o annunciare un abuso sia forza.
Non lo è.
È violenza.
E va riconosciuta come tale.

Oggi l’educazione affettiva e sessuale non la fa la scuola, e spesso non la fa nemmeno la famiglia.
La fa il web.
La fanno video espliciti consumati troppo presto.
La fa un immaginario tossico dove il consenso sparisce e il corpo dell’altro diventa un oggetto.
Il risultato?
Adolescenti che confondono il desiderio con il dominio, l’attrazione con la prevaricazione.

Quella lista è solo la superficie del problema:
sotto ci sono dinamiche di branco, bisogno di controllo, incapacità di tollerare frustrazione e rifiuto.
Sono fattori di rischio altissimo.
E ignorarli significa alimentare il prossimo episodio.

In questi casi non si sdrammatizza.
Non si parla di “ragazzate”.
Si interviene.
Con percorsi seri su rispetto, limiti, consenso.
E con sanzioni proporzionate: chi compie atti del genere deve capire subito che sta violando una persona, non un regolamento scolastico.

La scuola non può continuare a mettere cerotti su emorragie educative.
Le famiglie non possono delegare tutto allo smartphone.
E noi adulti dobbiamo smetterla di avere paura della verità: o educhiamo, o il vuoto educativo lo riempie qualcuno al posto nostro.

La scritta sul muro fa schifo.
Ma ciò che l’ha resa possibile fa ancora più paura.

La IX Giornata Nazionale sulle Dipendenze Tecnologiche e il Cyberbullismo è appena finita.Sono stanco, sì. Ma soprattutt...
30/11/2025

La IX Giornata Nazionale sulle Dipendenze Tecnologiche e il Cyberbullismo è appena finita.
Sono stanco, sì. Ma soprattutto sono profondamente orgoglioso di ciò che negli anni è diventata: un luogo vivo, un crocevia di professionisti, famiglie, insegnanti e ragazzi che scelgono di fermarsi, guardarsi negli occhi e fare la cosa più difficile in questo tempo: parlare davvero.

Quest’anno abbiamo avuto oltre 20.000 studenti collegati e una sala sold out dall’inizio alla fine.
Un’energia che non si può spiegare.
La senti solo quando sei lì, quando capisci che stai toccando qualcosa che riguarda tutti: il bisogno di essere ascoltati, il bisogno di sentirsi meno soli, il bisogno di adulti presenti.

Tutto questo non nasce dal caso.
Nasce dal lavoro quotidiano di oltre 200 esperti che fanno vivere l’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo.
Nasce dagli amici, dai relatori, da chi sale sul palco con coraggio, da chi si mette a disposizione degli altri.

Io ho solo l’onore di presiederla.
Loro, tutti loro, sono la forza che ha permesso a questa Giornata di diventare un punto di riferimento nazionale.

Grazie a chi c’era, a chi ci ha seguito, a chi crede che questa battaglia – fatta di ascolto, presenza e verità – valga la pena di essere combattuta.

Andiamo avanti. Insieme.




La prima infanzia non è in crisi per colpa degli schermi.È in crisi perché gli adulti hanno iniziato a delegare la fatic...
28/11/2025

La prima infanzia non è in crisi per colpa degli schermi.
È in crisi perché gli adulti hanno iniziato a delegare la fatica di educare.

Il resto è conseguenza, non causa.

Oggi più di sei bambini su dieci, tra 0 e 6 anni, usano uno schermo ogni giorno.
E quasi la metà comincia tra i 2 e i 3 anni, proprio quando il cervello ha bisogno di terra sotto le unghie, non di colori digitali.
Quasi uno su cinque inizia prima ancora di compiere due anni.

Poi ci stupiamo se, quando spegniamo il tablet, arriva la tempesta: succede nel 57,7% dei casi.
Nel 21,8% scatta la crisi vera, quella che parla di un’emozione non allenata, non regolata, non accolta.

E la parte più seria è questa: nell’81% dei casi i bambini usano lo schermo da soli.
Non c’è una guida, non c’è uno sguardo accanto, non c’è un limite che contenga.
E nessuna tecnologia può sostituire l’esperienza emotiva che nasce nella relazione.

Intanto loro ci osservano.
E vedono che nel 60,3% delle famiglie siamo noi adulti i primi a usare lo smartphone davanti a loro.
Imparano da ciò che siamo, non da ciò che diciamo.

Gli schermi non sono un mostro.
Il vero rischio è quando diventano una stampella emotiva. Quando sostituiscono ciò che dovrebbe essere nostro: la noia, l’attesa, il limite, il contatto.

Un bambino non ha bisogno di un dispositivo che risponda al posto suo.
Ha bisogno di un adulto che resti.

E questo, piaccia o no,nessuna app potrà mai farlo al posto nostro.

Abbiamo preso la scuolae l’abbiamo trasformatain una centrale operativa.Ogni voto, ogni nota, ogni respiro dei ragazzimo...
26/11/2025

Abbiamo preso la scuola
e l’abbiamo trasformata
in una centrale operativa.

Ogni voto, ogni nota, ogni respiro dei ragazzi
monitorato in tempo reale.
Non è innovazione.
È un cortocircuito culturale.

Non aspettiamo più i figli.
Aspettiamo la notifica.
È diventato questo il nostro dialogo educativo:
“5”, “6½”, “7–” al posto delle parole.

E il dato più assurdo è uno, non esiste alcuna prova neuroscientifica che tutto questo migliori l’apprendimento.
Zero.
Il contrario sì: più controlli un ragazzo, meno lo responsabilizzi.

In terapia me lo dicono così:
“Dottore, se prendo 3 tanto lo sanno subito.
Che recupero a fare?”

Ed è vero.
Gli abbiamo tolto il tempo.
Il tempo per sbagliare.
Per pensarci.
Per rialzarsi da soli.
La scuola non è più scuola:
è un reality in diretta.

E i docenti?
Valutano sotto una platea invisibile di adulti pronti a giudicare.
Ogni voto può diventare un processo.
Ogni nota una polemica.
Ogni compito un referendum nazionale.

Li stiamo logorando.
E poi ci stupiamo se la scuola è esausta.

Il registro elettronico non ha avvicinato scuola e famiglia:
ha avvicinato le ansie.
Le ha moltiplicate.
Le ha messe una contro l’altra.

A chi serve sapere tutto, subito, sempre?
Ai ragazzi? No.
Ai genitori? No.
Ai docenti? Neppure.

Serve solo a calmare, per cinque secondi,
la nostra paura di perdere il controllo.
È ansia che si traveste da premura.

Per questo lo dico senza giri di parole !

Aboliamolo così com’è.
Ridiamo ai ragazzi il diritto di sbagliare.
Ridiamo ai docenti il diritto di insegnare.
Ridiamo ai genitori il diritto di educare
senza vivere perennemente in allerta.

La scuola non è un’app.
È un luogo umano💙

Ci sono tre frasi che ogni ragazza dovrebbe imparare a memoria.Tre frasi che distinguono l’amore dalla paura, il rispett...
25/11/2025

Ci sono tre frasi che ogni ragazza dovrebbe imparare a memoria.
Tre frasi che distinguono l’amore dalla paura, il rispetto dal controllo, la cura dal possesso.

SE TI CONTROLLA, NON TI AMA.
SE TI FA PAURA, NON TI MERITA.
SE TI TOGLIE LIBERTÀ, NON È AMORE.

La violenza non inizia quando si vede.
Inizia quando non si vede.
Quando il controllo viene scambiato per gelosia, la gelosia per amore, l’amore per diritto di decidere su di te.

Inizia quando ti senti in colpa per cose che non dovrebbero riguardare nessuno.
Quando giustifichi ciò che ti fa male.
Quando ti abitui a essere meno per evitare che l’altro diventi di più.

Ricordalo:
l’amore che ti spegne non è amore.
L’amore che ti rimpicciolisce non è amore.
L’amore che ti fa paura… non è amore.

Meriti qualcuno che ti rispetta.
Meriti qualcuno che ti lascia respirare.
Meriti qualcuno che ti ama senza possederti.

E soprattutto: meriti di riconoscere subito chi non ti merita.

Oggi il Paese litiga sulla famiglia del bosco: tre bambini, una roulotte, una casa fatiscente. Da una parte: “Lo Stato r...
24/11/2025

Oggi il Paese litiga sulla famiglia del bosco: tre bambini, una roulotte, una casa fatiscente.
Da una parte: “Lo Stato ruba i figli ai genitori”. Dall’altra: “Genitori irresponsabili”.
Sempre il tifo. E come sempre, i bambini in mezzo.

Un figlio non è un esperimento ideologico.
Non è il luogo dove provare il proprio rifiuto della società, né la propria fuga romantica nel verde. Un figlio è qualcuno su cui si imprime tutto: amore, limiti, paure, incoerenze.
La libertà dei genitori finisce lì dove inizia la vulnerabilità dei figli.
Questo lo abbiamo dimenticato.

Perché crescere tre bambini in un bosco, lontani dalla scuola, dai pari, dai controlli sanitari, non è una fiaba.
È una scelta adulta.
E sono loro, i bambini, a pagarla.
Ma sarebbe ipocrita credere che basti un decreto per “metterli al sicuro”.

L’allontanamento è una amputazione emotiva: spezza legami, confonde, ferisce.
Se non c’è un progetto vero, per loro e per i genitori, stiamo solo spostando il dolore più in là. E qui arriva il punto che non vogliamo vedere.

La famiglia del bosco ci urta perché è estrema.
Perché mette in scena, concretamente, quello che noi facciamo in modo più elegante: chiudere i figli in bolle, diverse ma ugualmente strette. Una bolla fatta di natura e rifiuto del mondo.
Una bolla fatta di wifi e supermercati aperti la domenica.

In entrambe, il bambino è spesso l’ultimo ad essere ascoltato.
Oggi ci scandalizziamo per tre bambini isolati tra gli alberi.
Domani torneremo a ignorare le migliaia di bambini isolati nelle loro camerette, davanti a uno schermo, con genitori presenti con il corpo ma altrove con la testa. Il punto non è Palmoli.

Il punto siamo noi: un Paese che ha smesso di credere che educare significhi esporsi, dire no, assumersi il peso delle conseguenze.
Un figlio non è proprietà privata né pubblica.
È una persona che ha diritto a un mondo abbastanza grande da farlo diventare adulto.

Prima di giudicare la roulotte nel bosco, chiediamoci: quanti bambini crescono nella stessa solitudine, anche senza il bosco?

La plusdotazione è una forma di neurodivergenza che rende il bambino più esposto, come quei germogli che spuntano prima ...
23/11/2025

La plusdotazione è una forma di neurodivergenza che rende il bambino più esposto, come quei germogli che spuntano prima della primavera: bellissimi, sì… ma anche più delicati, perché il freddo li può ferire.

La riconosci così:

• Il pensiero è rapido come un lampo
Arriva alle soluzioni prima ancora di riuscire a spiegarle.
Non lo fa per stupire: il suo cervello connette, crea, anticipa.
E a volte è proprio questa velocità a spaventarlo.

• L’emotività è un’eco amplificata
Non sente “troppo”: sente tutto.
Le emozioni arrivano prima, più forti, più intense.
Come onde grandi su un cuore che non ha ancora imparato a nuotare.

• Le domande scavano in profondità
Non cerca risposte veloci: cerca radici.
Vuole capire “da dove nasce”, “perché accade”, “cosa significa”. È il bisogno di costruire senso, non di essere diverso.

• Il rendimento è irregolare, come una costellazione
Accende talenti straordinari dove trova significato, si spegne dove non incontra nutrimento. Non è disattenzione: è la neurobiologia dell’interesse che guida la mente.

• La solitudine arriva quando il mondo non tiene il suo passo
Non perché non ami gli altri, ma perché non sempre gli altri riescono a stargli accanto.
E quel sentirsi “fuori ritmo” può diventare una ferita silenziosa.

E poi c’è la parte invisibile:

la fatica di regolare emozioni grandi in un corpo piccolo, la paura di deludere, la stanchezza di essere sempre “troppo” per qualcuno e “troppo poco” per qualcun altro.

La plusdotazione è questo: una mente che vola e un cuore che chiede terra, un’intelligenza che corre e un’emotività che ha bisogno di essere tenuta per mano.

Il rischio non è mancare l’obiettivo.
Il rischio è crescere senza sentirsi compresi.

Per questo un bambino plusdotato non va esaltato come prodigio.
Va accolto come creatura che porta dentro un’intensità che può illuminare o bruciare.

Va accompagnato.
Va protetto.
Va ascoltato con la cura con cui si ascolta ciò che è prezioso e fragile allo stesso tempo.

Perché quando un bambino si sente custodito,
la sua mente non solo corre: inizia a fiorire.

“In posa con un ca****re”.Non è la scena di un film horror low cost. È cronaca.Un operaio del cimitero che solleva un co...
21/11/2025

“In posa con un ca****re”.
Non è la scena di un film horror low cost. È cronaca.

Un operaio del cimitero che solleva un corpo, ci si mette accanto, sorride e si fa fotografare. La foto gira nelle chat, diventa virale, tutti inorriditi. Adesso lui andrà a processo per vilipendio di ca****re.

Tranquilli però: è stata solo “una goliardata”, “un gesto ingenuo”.
La solita giustificazione perfetta quando non vogliamo vedere quanto siamo messi male.

Il punto, infatti, non è solo lui.
È anche:
– chi ha scattato la foto,
– chi l’ha inoltrata,
– chi l’ha guardata ridendo,
– chi ha pensato “vabbè, ormai gira, che problema c’è?”.

Abbiamo trasformato la morte in un contenuto condivisibile.
Neanche davanti a un corpo senza vita riusciamo più a fermarci.
Il riflesso non è il silenzio, non è il rispetto.
È: “Aspetta, fammi una foto”.

Questa è la vera emergenza psicologica: una società che ha perso il senso del limite, del sacro, del rispetto.
Insegniamo ai ragazzi che “si può scherzare su tutto”, poi ci stupiamo se non distinguono più tra ironia e disumanità.

Non entro nel merito del processo, quello lo farà un giudice.
Ma da psicoterapeuta una cosa la posso dire: quando la dignità di un morto diventa materiale per una foto virale, non è solo il ca****re a essere offeso.
È la nostra umanità ad essere vilipesa.

Se davanti alla morte tiri fuori il telefono invece del silenzio, qualcosa dentro si è già rotto.
E non basterà cancellare una foto da una chat per rimetterlo a posto.

Me lo sono chiesto oggi, guardando i volti di quei ragazzi che arrivano in studio stanchi prima ancora di iniziare a par...
20/11/2025

Me lo sono chiesto oggi, guardando i volti di quei ragazzi che arrivano in studio stanchi prima ancora di iniziare a parlare.

Compiti.
Ore di compiti.
Pomeriggi interi passati lì.
il 37% di loro passa più di 4 ore al giorno
Il 12% supera le 5 ore.
E 8 su 10 ormai usano l’intelligenza artificiale per farli, perché non ce la fanno più da soli.

E allora la domanda è semplice: che stiamo facendo?

Non c’è un solo manuale di neuroscienze che dica che più compiti = più apprendimento.
Anzi:
- dopo 60/90 minuti la mente crolla,
- lo stress alza il cortisolo e blocca la memoria,
e il sonno, quello che rende possibile imparare davvero viene tagliato.

Lo vedo tutti i giorni: ragazzi che studiano fino a tardi, che rubano 1–2 ore di sonno ogni notte, che al mattino non riescono neanche a stare nel proprio corpo.
E noi continuiamo a chiamarlo “impegno”.

Poi li giudichiamo perché cercano le relazioni online.

Ma ditemi voi:
quando dovrebbero costruirle quelle relazioni?
Quando dovrebbero uscire, parlare, ridere, stare insieme, vivere?

Se il tempo reale glielo togliamo, si costruiranno un tempo altrove.
E quel “altrove” si chiama digitale.

È inevitabile, non patologico.
È una risposta.

La verità è questa: un ragazzo non cresce perché lo carichi. Cresce perché lo rispetti.
Nel suo corpo, nei suoi tempi, nel suo cervello, nelle sue relazioni.

Indirizzo

Via Corridoni 11, 13, 15
Senigallia
60019

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 20:00
Martedì 09:00 - 20:00
Mercoledì 09:00 - 20:00
Giovedì 09:00 - 20:00
Venerdì 09:00 - 20:00

Telefono

+393347765413

Sito Web

http://www.giuseppelavenia.name/

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