Studio di Psicoterapia Dott.ssa Anna Rosa Francoletti

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Psicoterapia secondo la metodica dell'analisi bioenergetica. L'analisi bioenergetica è una psicoterapia che cerca di comprendere la personalità attraverso i processi energetici, intervenendo sul livello corporeo, emozionale e mentale, per aiutare l'individuo a risolvere i problemi esistenziali e a realizzare in misura più ampia il proprio potenziale di vivere. La specificità operativa dell'analisi bioenergetica ha origine diretta dal modello analitico freudiano, sviluppato coerentemente da Reich e da Lowen. L'obiettivo è di aiutare ad entrare in contatto con le tensioni, sentirle, riconoscerle e liberarle, in un progressivo processo di ammorbidimento e ampliamento delle proprie potenzialità espressive e tutto ciò attraverso trattamenti individuali, di gruppo e classi di esercizi bioenergetici. Per approfondimenti consulta il sito www.psicoterapiaannarosafrancoletti.it
Medici specialisti - neurologia e psichiatria
Dottore in medicina e chirurgia, specialista in Psicoterapia secondo la metodica dell'Analisi Bioenergetica, CBT (terapeuta bioenergetica certificato), membro I.I.F.A.B. (Istituto Italiano di formazione in Analisi Bioenergetica), membro I.I.B.A. (Istituto Internazionale di analisi Bioenergetica). Analisi Funzionale
EMDR
Mindfulness
Attività: Psicoterapeuta
Servizi: Si riceve su appuntamento
Terapie e trattamenti: Cura dell'ansia, disturbi del sonno, disturbi dell'umore, disturbi della personalità, disturbi sessuali, ipocondria, nevrosi, terapie di gruppo, terapie individuali, terapie per la depressione, per disturbi psicosomatici, fobie, ossessioni, classi di esercizi bioenergetici
Lo studio offre mensilmente appuntamenti di terapie osteopatiche con professionisti del settore.. Contatti: per appuntamenti telefonare o messaggiare al cellulare 3356233226

15/11/2025

La cattiveria non nasce dal nulla.
Non è un accidente morale, ma un processo psichico.
È la risposta distorta a una ferita primaria:
l’impossibilità di tollerare il dolore della propria mancanza.

Quando un individuo sperimenta un vuoto affettivo che non riesce a elaborare,
la psiche può imboccare due vie:
la via del dolore o la via del dominio.
Chi sceglie la prima attraversa la mancanza e cresce;
chi sceglie la seconda la nega e costruisce un potere contro di essa.

La cattiveria è dunque la difesa estrema contro il dolore.
Nasce quando la sofferenza non viene sentita, ma convertita in controllo.
È la forma più raffinata di anestesia emotiva:
non sento il mio dolore, quindi faccio sentire il tuo.

L’atto cattivo è un tentativo di sopravvivere all’umiliazione,
distruggendo ciò che la ricorda.

In termini psicodinamici, il sadismo è la risposta regressiva all’impotenza.
Quando l’Io è fragile e non riesce a contenere l’angoscia,
trasforma la paura in piacere attraverso l’aggressione.
È un ribaltamento della passività in potenza.
Nel sadico, la distruzione dell’altro è vissuta come prova di esistenza:
“Io ci sono perché ti faccio male.”

Questo meccanismo si sviluppa spesso in infanzie dove l’amore è stato ambivalente:
presente e ferente, affettuoso e umiliante insieme.
Il bambino che ama chi lo ferisce impara che il dolore è parte dell’amore,
e nell’età adulta può ripetere questo copione da entrambi i lati —
come vittima o come carnefice.

L’invidia, invece, è la radice più antica della cattiveria.
È l’incapacità di tollerare che l’altro possieda ciò che io non ho.
Non è gelosia, ma desiderio di distruzione.
L’invidioso non vuole avere ciò che l’altro ha,
vuole che l’altro non lo abbia più.
E nel toglierglielo, prova sollievo.

In questo si rivela la natura profonda del male:
non la rabbia, ma il piacere nella distruzione.
Un piacere perverso, che non nasce dal corpo ma dal potere.
È il godimento freddo dell’Io che si crede invincibile,
che non ama ma possiede,
che non riconosce l’altro come soggetto,
ma lo riduce a oggetto della propria pulsione.

La cattiveria è la gioia dell’assenza d’empatia.
È la festa del vuoto.

Nella psiche di chi fa del male c’è sempre un punto cieco:
l’impossibilità di vedere l’altro come persona viva.
L’altro diventa strumento, bersaglio, superficie di proiezione.
Lì, la coscienza è anestetizzata.
Non c’è colpa, né rimorso.
C’è solo l’autogiustificazione:
“Me lo ha chiesto lui. Se l’è cercata. È per il suo bene.”

Ecco il cuore oscuro della cattiveria:
la lucidità senza empatia,
l’intelligenza priva di sentimento,
la parola usata come lama,
l’amore trasformato in arma di potere.

Ma nessuno può restare in quella posizione senza pagare un prezzo.
Chi vive di cattiveria si svuota lentamente.
L’Io si erge come torre, ma la torre è vuota.
E alla fine, crolla su se stessa.

Il male non vince mai: semplicemente, si consuma da solo.

Dr. Carlo D’Angelo

04/11/2025

“Quando siamo stati poco amati, noi cerchiamo una persona che ci faccia andare bene questa cosa. Spiego meglio: noi cerchiamo una persona che somigli un pochino al nostro genitore, e quindi che sia una persona poco affettiva in fondo, una persona un po’ fredda, una persona che si manifesti poco, che abbia magari pure lui paura di amare, oppure una persona un po’ dura. E quello va bene perché è come se rivivessimo la storia col genitore, ma questa volta deve andare a lieto fine. Per cui se lui o lei ci amano apertamente non rappresentano il genitore, contano meno, sono persone che appaiono addirittura deboli a volte. Se l’altro un po’ si nega, ci emoziona parecchio perché somiglia al genitore che si nega e riconquistare quel genitore che si nega è salvare il nostro passato.
Passato che non ricordiamo, eh, attenzione. Passato che non ricordiamo ma di cui abbiamo conservato le emozioni.

Quando siamo così protesi a conquistare l’amore dell’altro, l’altro non lo vediamo e quindi non lo amiamo, e quindi non sappiamo amare.

Quando siamo così preoccupati da come ci tratta l’altro, cioè se ci ha dato segni di amarci, se ci preferisce, se ci ha detto che siamo belli o belle, se ci ripete continuamente che ci ama, noi dell’altro poco ce ne curiamo.
Per noi lui è interessante per questo riconoscimento che ci può dare: un riconoscimento che è mancato da bambini. L’altro è quello che ci può dare l’estasi o la depressione profonda: diventa tutto per noi, ma l’altro sente che c'è una fregatura.
Ci preoccupiamo di essere amati, ma non amiamo.”
Gabriella Tupini
Opera Piia Lehti. L'opera è intitolata "Lovebirds"

01/11/2025

Domenica 2 novembre
COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI
Tutto ciò che nasce, muore. E tutto ciò che muore, si trasforma.
La scienza ce lo insegna con la sobrietà dei fatti: nessuna particella dell’universo si crea dal nulla, nessuna scompare nel nulla. Tutto cambia forma, come l’acqua che evapora, si fa nube, poi pioggia e poi ancora fiume, e mare, e vapore.
L’universo è una danza di metamorfosi. Una sinfonia di nascite e dissoluzioni. E noi — noi che pensiamo, che amiamo, che tremiamo di paura davanti alla morte — siamo parte di questa danza. Siamo vita che conosce sé stessa per un istante.
Quando parliamo di morte, pensiamo sempre ad una ‘fine’. Ma “fine” è parola ancora dell’ego non dell’universo. Nella lingua della materia e dello spirito, la parola morte significa trasformazione.
Gli antichi lo sapevano benissimo. Empedocle diceva che nulla nasce né perisce, ma si mescola e si separa. E i saggi d’Oriente chiamavano questa legge Brahman, Atman, Dao:
il Tutto che mai cessa di essere, il respiro che attraversa ogni forma.
Anche la fisica moderna, che tutto misura, sospetta la medesima verità: ogni forma visibile è solo un nodo temporaneo, in un oceano di energia e informazione. Che ogni cosa è relazione, risonanza, eco di un’unica vibrazione.
È vero, noi diciamo “muoio”, ma in realtà tutto ciò che siamo ritorna: ritorna alla terra, all’aria, al sole, alle radici di altri esseri viventi. Morendo, restituiamo ciò che ci è stato donato. La foglia che cade non teme la terra. Sa di essere parte dell’albero, e che, anche cadendo, continua a nutrirlo. «Non dire che sono solo questa forma», risponde la foglia al monaco Thich Nhat Hanh, «io sono tutto l’albero. Quando cadrò, tornerò a nutrirlo».
Forse anche noi potremmo dire così: non sono soltanto questo corpo che invecchia, questo io che teme la fine. Sono parte del grande albero della vita, e quando cadrò, non cadrò fuori dal Tutto — ma dentro al Tutto.
Il Mistero è che la morte non distrugge la vita: la compie. È l’altra faccia della nascita, la porta attraverso cui la vita continua a fluire.
Ogni organismo che muore lascia un’eredità invisibile. Non solo materia, ma informazione, memoria, coscienza diffusa. Una parte del suo canto rimane nel cosmo.
Per questo, forse, nulla si perde. Tutto è conservato in una grande memoria cosmica, in quel fondo silenzioso che i mistici chiamano Dio, e i fisici chiamano campo, e i poeti amore.
Accogliere la morte non è dunque un rassegnarsi, è riconciliarci con la vita. È smettere di opporre resistenza al flusso che ci attraversa. È dire: “Sia fatta la tua trasformazione in me”.
“Se vuoi la vita, prepara la morte”, scriveva Hans Küng. Preparala non con paura, ma con fiducia. Perché chi accoglie la propria finitezza, scopre l’infinito che la abita.
In fondo, viviamo meglio la vita quando smettiamo di fuggire la morte. Quando impariamo a lasciar scorrere tutto: i giorni, le relazioni, le stagioni, le gioie e i dolori, sapendo che ogni cosa ha un tempo, e che il suo tempo è sacro. Morire, allora, non sarà uno spegnersi, ma solo un aprirsi. Un dilatarsi fino a non avere più confini. È restituire alla vita ciò che la vita ci ha dato. E in quel momento — quando tutto sembra dissolversi — forse comprendiamo che non siamo mai stati separati. Che ciò che chiamavamo “io” è sempre stato parte di un Respiro più grande, di un cuore che batte in ogni creatura, di una luce che non conosce tramonto. Forse è questo che Gesù voleva dire quando spezzò il pane e disse: “Prendete e mangiate: questo è il mio corpo.” Non un corpo offerto una volta per tutte, ma la rivelazione di un principio cosmico: la vita si trasmette solo donandosi.
Ogni morte è un atto d’amore. Ogni caduta, una comunione. Ogni dissoluzione, una pasqua. Quando verrà il momento di lasciare, possiamo dire come la foglia all’albero: “Non avere paura. Ci ritroveremo nel vento, nella luce, nel silenzio che tutto abbraccia.
Non c’è fine, solo trasformazione.”

29/10/2025

Accadde anni dopo Vi presento Joe Black,
molto tempo dopo che le luci si erano spente.

Brad Pitt stava attraversando uno dei momenti più difficili della sua vita:
l’alcolismo, il dolore,
quella quieta confusione che arriva quando il successo
non basta più a riempire il silenzio.

Una notte, decise di scrivere a un vecchio amico:
l’uomo che, anni prima, aveva interpretato la Morte al suo fianco — Anthony Hopkins.

Hopkins non giudicò.
Ascoltò.
Poi, con voce calma, gli disse:

“Ci sono passato anch’io, Brad.
So che cosa si prova in quella oscurità.”

In quel momento Brad capì
che non stava parlando a una leggenda,
ma a un sopravvissuto.

“Mi hai raccontato che anche tu hai affrontato la stessa battaglia
e ne sei uscito dall’altra parte,”
ricordò poi Pitt in un’intervista.
“Mi ha dato speranza.”

Hopkins era sobrio da decenni.
Sapeva che cosa significava distruggersi
e come risalire, un passo onesto alla volta.

“Cadiamo tutti,” gli disse.
“Ma è come ci rialziamo, quello che conta.”

Quella conversazione fu un punto di svolta.
Brad iniziò il suo percorso verso la sobrietà —
in silenzio, con costanza,
con Hopkins come guida discreta nell’ombra.

Nessun proclama, nessuna scena pubblica.
Solo due uomini che si dicevano la verità.
Uno che ricordava all’altro
che la redenzione non è rumorosa.
È vissuta.

Col passare degli anni, la loro amicizia si è trasformata
in un legame profondo e senza parole:
basato sul rispetto, sulla vulnerabilità, sulla sopravvivenza.

“Tony ha cambiato il modo in cui vedo la vita,”
confessò Brad.
“Mi ha insegnato che la forza non è il controllo,
ma la resa.”

In un mondo — come Hollywood — dove le maschere sono tutto,
Anthony Hopkins ha regalato a Brad Pitt qualcosa di raro:
il coraggio di essere vero. 🌙

29/10/2025

Per quarantacinque anni, il Buddha ripeté ripetutamente: "Insegno solo la sofferenza e come trasformarla".
Quando riconosciamo e accettiamo la nostra sofferenza, il Buddha ovvero il Buddha dentro di noi la osserverà, scoprirà cosa l'ha causata e prescriverà un corso d'azione che la trasformerà in pace, gioia e liberazione. La sofferenza è il mezzo che il Buddha usò per liberarsi, ed è anche il mezzo con cui possiamo liberarci.L'oceano della sofferenza è immenso, ma se ti giri, puoi vedere la terra. Il seme della sofferenza dentro di te può essere vigoroso, ma non aspettare di esaurire tutta la sofferenza prima di poter essere felice. Quando un albero in giardino si ammala, devi prendertene cura. Ma non trascurare gli alberi sani. Anche se il tuo cuore è pieno di dolore, puoi godere delle meraviglie della vita: il bellissimo tramonto, il sorriso di un bambino e l'abbondanza di fiori e alberi. La sofferenza non è tutto; per favore, non lasciarti imprigionare dalla tua stessa sofferenza.
Se hai mai provato una fame estrema, sai che avere del cibo è un miracolo. Se hai sofferto un freddo intenso, conosci il valore del calore. Se hai sofferto, sai apprezzare gli elementi paradisiaci che sono presenti. Se ti concentri solo sulla tua sofferenza, ti perderai il paradiso. Non ignorare la tua sofferenza, ma non dimenticare di godere delle meraviglie della vita, per il tuo bene e per quello di tutti gli esseri.

Fonte: Il cuore degli insegnamenti del Buddha - Thich Nhat Hanh

28/10/2025
28/10/2025
30/07/2025
Giorni intensi e appassionati...
20/07/2025

Giorni intensi e appassionati...

Indirizzo

4, Via Adige
Senigallia
60019

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 19:00
Martedì 09:00 - 19:00
Mercoledì 09:00 - 19:30
Giovedì 09:00 - 19:30
Venerdì 09:00 - 17:00

Telefono

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