17/10/2025
“Se non diventi oceano, avrai sempre mal di mare”. Il senso di questi giorni in Alentejo e Algarve, tra onde alla Point Break e immersion di mysore e pranayama con Petri. Se vuoi andare “oltre” nel viaggione yogico, devi assomigliare all’oceano: comprendere l’importanza di ogni ritorno a riva, alle radici. Il mio canto delle sirene a Odeceixe è stato il suono vibrante di Om 🕉️ nella shala portoghese dove ho avuto la conferma che certi mal di mare esistono finché resti in superficie ma che c’è un abisso quando ti immergi nel cuore di ciò che ami fare sotto la guida del tuo maestro prefe.Un punto fermo cui tornare, un porto sicuro cui affidarsi tra un vinyasa e l’altro della vita. Perché é parte del gioco anche il dopo sforzo, la condivisione con i compagni di workshop nelle gite fuori shala, dove metti in campo la tua umanità e capisci se stai bene con gli altri quanto sul tappetino, se ti stai ripulendo dal superfluo. In che modo l’ashtanga ci insegna a semplificare? Lo spiega Patanjali in YS 2.48, “Tato dvandvānabhighātah”: l’asana deve essere piacevole, tenuto stabile e fermo con l’intento di meditare, riducendo al minimo lo sforzo tanto da perdere la sensazione del corpo, e far andare nella direzione dell’indifferenza dagli stimoli esterni, così che la mente si possa svuotare. Ecco l’equilibrio perfetto, il non dualismo tra opposti. Allora che differenza c’è tra asana e meditazione e pertché se ne parla a fine del II pada? Non poteva dirci subito “Siediti e concentrati”?! La trascendenza arriva quando i poli tra cui oscilliamo di continuo (Ha e Tha, il sole e la luna, Ida e Pingala, simpatico e parasimpatico) vengono bilanciati, cioè quando la coscienza si stabilizza al centro. La cita in 2.48, chiamandola “dvandva”, il duello tra estremi, dando per scontato che una dualità intrinseca esista dentro di noi. Non è un caso se quando pratichiamo con presenza e concentrazione non siamo né attivi né passivi, eppure lucidi e in pace. E tu hai mai provato come ci si senta a respirare come l’oceano?