Martino Lioy - psicoterapeuta e psicodrammatista

Martino Lioy - psicoterapeuta e psicodrammatista Psicologo clinico e di comunità
Psicoterapeuta junghiano e psicodrammatista

Stanotte la band ucraina "Kalush Orchestra" ha vinto l'Eurovision Song Contest 2022. Non è certo una vittoria inaspettat...
15/05/2022

Stanotte la band ucraina "Kalush Orchestra" ha vinto l'Eurovision Song Contest 2022. Non è certo una vittoria inaspettata, alla luce della violenza e della follia che continua a imperversare nel paese e a ferire il popolo ucraino. Ma ciò che forse ci arriva più inatteso è il contenuto del brano vincitore: sulle note di una musica scura, rabbiosa, a tratti malinconica e a tratti danzereccia, la canzone è dedicata alla madre del cantante, la Stefanìa del titolo. Fra strofe rap e ritornelli corali, la Kalush orchestra invoca una madre buona che culla il suo bambino e lo fa crescere forte nell'animo, una madre che resta presente attraverso la stanchezza e il conflitto, una madre che continua a prendersi cura del figlio in ogni tempo. Una madre il cui amore permette infine al figlio di dire: "troverò sempre la strada di casa, anche se tutte le strade saranno distrutte".

L'immagine del bambino che si rivolge alla sua mamma è fra le forme più elementari di relazione umana: è la richiesta di accudimento, la ricerca di sicurezza e contenimento, il bisogno di qualcuno che - almeno idealmente - ci sappia amare così come siamo, nella nostra forza quanto nelle nostre debolezze e paure. Ma nella canzone non è il bambino, è l'uomo a chiamare una madre che, mentre i campi ancora fioriscono, lentamente invecchia. Oggi è l'Uomo a invocare il suo aiuto, un Uomo che - davanti agli orrori della realtà - riesce a fare del suo sentimento un canto e, presente alla propria storia, si volta indietro e poi avanti. È un movimento antico, il suo, un gesto duplice che dovremmo conoscere tuttə e che pure è così difficile rinnovare: è prima di tutto il movimento del ricordo che, attraverso la nostalgia e il dolore, contatta infine la gratitutine per una Madre che ha mille volti e uno solo; ed è poi il movimento della preghiera, della ricerca (a volte immensamente ardua) di una qualche fede nel futuro, della forza di avere speranza, speranza che in questi tempi sembra così incauto voler ravvivare.

Ed è forse qualcos'altro ancora, qualcosa di più semplice e semplicemente umano. È una confessione di fragilità, la dura consapevolezza che da soli non sempre ce la facciamo, che nei momenti bui abbiamo bisogno di invocare qualcosa che è al di là di noi - qualcosa che sappia offrire un senso ai nostri stati d'animo, un riparo ai nostri pensieri agitati, un contenimento alla follia fuori e dentro di noi. Saper trovare questo "qualcosa", questa Madre, è forse una compito lungo una vita. Ma certo avere l'umiltà di mettersi alla ricerca è un buon inizio.

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Qui il link al videoclip della canzone, sottotitolato in inglese:
https://www.youtube.com/watch?v=Z8Z51no1TD0

È morto. Appeso a una croce, processato, umiliato e ucciso. L’accusa fu di bestemmia e di incitamento alla rivolta. Cerc...
12/04/2020

È morto. Appeso a una croce, processato, umiliato e ucciso. L’accusa fu di bestemmia e di incitamento alla rivolta. Cerco di immaginarmelo e ciò che realizzo mi turba: abbiamo condannato quell’uomo perché ci chiedeva di avere fede in un mondo differente. Non potevamo credere, parlava di qualcosa di impossibile per le nostre orecchie. Ma lui credeva, credeva nella possibilità di far andar le cose diversamente, immaginava un cambiamento collettivo e pensava che ciò fosse realizzabile attraverso l’amore. “È pericoloso immaginare, lo faccia il meno possibile”: mi torna in mente questa frase, letta in un romanzo. Cosa significa aver fede nel cambiamento?

Non è questione di religione, ma forse è questione di spirito. Nel calendario pasquale, il venerdì e il sabato sono giorni di morte e di attesa. Solo al terzo giorno, la domenica, c’è la rinascita. In questi giorni, voglio ricordarlo come un dio della fiducia e del rinnovamento, tanto umile da farsi uomo e, da uomo, morire. Forse lo sapeva, forse sapeva che per accompagnare al cambiamento è necessario immedesimarsi in chi si accompagna e scoprirsi simili. Borgna parla di “comunità di destino” come condizione fondamentale per tutto ciò che è terapeutico: se non sentiamo il mistero di un’appartenenza comune, non potremo esser davvero d’aiuto all’altro. Oggi, isolati e inquieti, sentiamo con violenza quel terreno collettivo, che ci restituisce alla nostra natura fragile e mortale. Si tratta però di una tradizione molto antica. In tempi remoti, il medico operava le guarigioni attraverso la propria sofferenza: la fonte delle cure era la ferita viva, che non si rimarginava. Come a dire che per trasformare un dolore dobbiamo prima poterlo patire, che per avere cura serve tenere aperte le ferite, così che possa sgorgarne la nostra compassione. E ciò che fece Cristo. Forse, come dicevamo, per lui era indispensabile provare su di sé la difficoltà di essere umano e ciò che si prova a morire. Desiderava capirci, desiderava cambiare.

“Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Ecco cosa ha provato. Sono le ultime parole che pronuncia, nel grido rivolto a un padre che lo ha lasciato solo. È il grido dell’ora più buia, dove non è rimasto più nulla, nemmeno Dio. Il grido sulla croce è l’archetipo del tradimento, della solitudine e del sacrificio. “La trasformazione ha inizio a questo punto, quando non c’è speranza” scrive Hillman. Il passaggio attraverso il morire mette in moto la possibilità della rinascita. Come se il rinnovamento profondo, di cui la morte è l’immagine ultima, dovesse passare per la disperazione di una assenza radicale. È così che, nel racconto cristiano, il dio della fiducia deve provare l’umiliante suolo della sofferenza umana per trovare il seme divino della trasformazione. Nell’esperienza della croce, per un attimo tutto deve fermarsi. Come nel vuoto inevitabile fra due respiri, ci va un tempo di arresto. E lì “esiste solo il momento così come è, il seme di ciò che verrà, quale che sia: se sapremo attendere. L’attesa è tutto e si attende insieme” (Hillman, Il suicidio e l’anima).

La croce, su cui si compie il destino dell’uomo, è un simbolo unificatore. Fiducia e tradimento, speranza e disperazione, comunione e solitudine. Credere e lottare per un mondo ancora da ve**re è proprio questo: vivere la morte come qualcosa che è necessario attraversare, accettarne la disperazione come unica via per la rinascita, restarvi in attesa come nella dolorosa incubazione della speranza.
La croce è un simbolo di sofferenza, ma ricordiamoci che queste sofferenze trovano un senso proprio nel riconnetterci al nostro bisogno di rinascita, trovano un senso nel rendere possibile il cambiamento. Come cantava De Andrè, “il senso non dev’essere rischiare, ma forse non voler più sopportare”. La Pasqua stessa, fin dalle sue origini ebraiche, è una festa del passaggio e della liberazione dall’oppressione, nasce da una necessità di rinnovamento tanto individuale quanto comunitario. La sofferenza è una condizione umana e come tale è inevitabile, ma questo non significa che dobbiamo rassegnarci a ogni male. Esistono dolori opachi di cui non vediamo il senso e che è giusto voler cambiare. E proprio accanto a questi esiste una sofferenza piena, che ci rende umani e che testimonia della nostra capacità più straordinaria: quella di immaginarci qualcosa che ancora non c’è e di lottare per renderlo possibile.

“Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema” scrive un collettivo di artisti a Santiago del Cile. Quest’anno la Pasqua è un attraversamento molto molto difficile. Sento su di noi un’enorme responsabilità: quella di immaginarci un futuro diverso, senza più dimenticare il passato, ma soprattutto accettando la fatica di immedesimarci nel presente. In questo giorno sacro, mi piace credere che il senso di questa fatica non possa che essere in Noi.

Ultimamente mi capita spesso di legger poesia. Con poche parole ben pesate questi scrittori sanno evocare mondi di strao...
13/01/2020

Ultimamente mi capita spesso di legger poesia. Con poche parole ben pesate questi scrittori sanno evocare mondi di straordinaria complessità e i loro brevi racconti mi stimolano a riflettere. Da qualche giorno sono alle prese con alcuni versi del canadese Mark Strand:

Ho una chiave
quindi apro la porta ed entro.
È buio ed entro.
È più buio ed entro.

Mi affascina la realtà in cui questo breve schizzo riesce a portarci. Una chiave, prima di tutto. Quindi una porta – la sua porta – e un protagonista. Oltre la soglia, il buio; prima di questa, la determinazione ad aprire il varco di cui si ha la chiave. L’inizio ci dice qualcosa di tanto ovvio da sembrar misterioso: se ho il mezzo per accedere a qualcosa, è logico che lo faccia, va da sé. Se apro una porta, in genere, accedo a un qualche luogo. Perché ho proprio la chiave di questa porta? È da sempre in mio possesso? Il luogo oltre la porta quindi è legato a me, in qualche modo? Attraverso due semplicissimi versi si insinua il presentimento di una identità segreta fra il poeta, la chiave e la porta.

E poi il buio, un buio che si fa più buio mano a mano che procediamo, un buio che alla fine è la sola presenza a tener compagnia a chi entra. E in questo buio la poesia si conclude, quasi come se la poesia stessa fosse una porta, un tramite per portarci dove non riusciamo a vedere.

Non c’è scritto niente di più, eppure credo che ci sia ancora dell’altro. Trovo un sentimento complesso nelle parole di Strand. All’inizio un senso di determinazione e padronanza di sé, quasi un’accettazione del destino – del caso? – che ha voluto legare l’uomo alla chiave ed alla porta. E nel semplice gesto di aprirla c’è una gravità risoluta. E poi il buio e la continua risoluzione ad entrarvi, la costanza di fronte all’ignoto, la fede in mezzo alla tenebra.

Certo, questo è ciò che riesco a leggervi io; qualcun altro potrebbe raccontarci una storia diversa. Dopotutto, ognuno ha la sua. Ciò che più conta è che la poesia ci possa fare da specchio, se indugiamo sulle parole, se ci lasciamo stuzzicare dalle suggestioni, se seguiamo ciò che ci incuriosisce o che ci inquieta. Nelle parole d’altri possiamo pazientemente cercare le nostre. In attesa, poco a poco, che il grande buio si diradi…

Nel 1856 in questo stesso giorno nasceva Sigmund Freud. A distanza di oltre 160 anni desidero ricordare il pioniere che ...
06/05/2019

Nel 1856 in questo stesso giorno nasceva Sigmund Freud. A distanza di oltre 160 anni desidero ricordare il pioniere che aprì le frontiere e il dialogo con l’"altra parte". Tra l’infinità di studi e riflessioni che ci ha lasciato, oggi voglio richiamare alcuni fondamenti a cui la psicoanalisi ha dato dignità scientifica: la volontà di prestare ascolto all’ignoto, il valore del dubbio, l’ineludibile parzialità della conoscenza e la necessità di un confronto costante con i demoni nostri e dell’umanità.
Il cammino indicato da Freud ci ha portati a curarci della follia e della fragilità, mostrandoci come anche ciò che appare insensato o mostruoso può ritrovare il suo valore grazie all’amore e alla relazione umana.
L’Altro – il diverso, lo straniero, lo sconosciuto – è in noi: è un fatto psichico condiviso ormai da tutte le psicologie. Forse è proprio in questo periodo di fascismi, discriminazioni e chiusure che può farci bene tenerlo a mente. Forse, nel riconoscere che ciò che ci spaventa dell’altro è troppo spesso il nostro riflesso distorto e ignorato si trova una possibilità per prenderci cura di questo nostro mondo ferito.

La prossima settimana, due colleghe e io terremo una serata sulla Pasqua e sui suoi significati, dentro e fuori il valor...
08/04/2019

La prossima settimana, due colleghe e io terremo una serata sulla Pasqua e sui suoi significati, dentro e fuori il valore che riveste come rito religioso. Attraverso un racconto a più voci ripercorreremo alcuni momenti delle tradizioni a cui appartiene e - incontrando personaggi mitici e simbolici - ci confronteremo con alcuni dei grandi temi che racchiude.
Vi aspettiamo lunedì 15 aprile, dalle 21 alle 23, presso lo studio Epimeleia di corso Francia 33.

Mercoledì cominceremo un nuovo ciclo di Autobiografie plurali, sei nuovi incontri in gruppo dedicati alle nostre storie,...
28/02/2019

Mercoledì cominceremo un nuovo ciclo di Autobiografie plurali, sei nuovi incontri in gruppo dedicati alle nostre storie, tra momenti di scrittura, condivisioni e piccoli giochi. Da tempo ormai ho modo di osservare i benefici e i piaceri dello scrivere e vorrei condividere qui alcune riflessioni.
Perché scrivere, dunque? Be', innanzitutto per rallentare. Scrivere è come un processo digestivo, che con la sua lentezza consente di metabolizzare ciò che viviamo, trasformando gli eventi in esperienze, consentendoci di gustarli. La scrittura può essere uno spazio tutto per noi, una tregua e un luogo in cui – per dirla con Hesse – “il guardare, l’osservare e il contemplare possono dive**re sempre più abitudine ed esercizio”, un luogo in cui compiacersi del semplice accorgersi. Un luogo in cui stare, insomma. Rilke invitava a soffermarsi sui nostri ricordi e sulle nostre emozioni, su quel che abbiamo dentro: “la sua personalità si rinsalderà” scriveva, “la sua solitudine si farà più ampia e diverrà una casa al crepuscolo, chiusa al lontano rumore degli altri”. Ecco: essere in grado di abitare nella nostra solitudine, di renderla un suggestivo luogo di villeggiatura – anziché una tormentosa prigione – mi pare un obiettivo invitante.
Ma com’è possibile riuscirci? Chi scrive d’abitudine si accorge – poco a poco – di racchiudere in sé una molteplicità di voci, ciascuna portatrice di posizioni personali, in un avvicendarsi di punti di vista, emozioni, convinzioni, impressioni. Virginia Woolf affermava: “La parola ‘io’ è soltanto una comoda designazione per nominare qualcuno che non esiste realmente”. Dar voce alle tante voci che ci abitano apre alla possibilità di dialoghi interiori, come in una messa in tensione psichica tramite cui rendiamo più articolata la nostra vita interiore. Dal “bianco o nero” ci si esercita a stare nelle sfumature, a rendere pensabili ambivalenze e conflitti, a riconoscere anche le nostre zone d’ombra. A far della solitudine una piacevole dimora.
Ma di che stiamo scrivendo? Di noi stessi, naturalmente. Non facciamoci ingannare però, non è poi così importante di cosa scriviamo; fatti e fantasie possono tranquillamente mischiarsi, il ricordo e il diario si intrecceranno inevitabilmente con appunti sparsi, idee, bozze di racconti, conversazioni inventate o udite di sfuggita, vite degli altri. Per la Duras, “scrivere significa tentare di sapere che cosa scriveremmo se scrivessimo”. Ecco, il punto, più che scrivere di sé, è scrivere per sé. Sono qua, al bar, in cucina, sul letto, in treno, non importa: posso fermarmi, posso ascoltarmi, posso scrivere quel che mi va. Di qualsiasi cosa io scriva, il semplice farlo prova che, almeno per un momento, io posso curarmi di me e dedicarmi del tempo.
La scrittura, poi, ha un rapporto privilegiato con la creatività e la spontaneità che tutti noi portiamo dentro, è compagna dell’immaginazione e dell’esplorazione giocosa. La possibilità di immaginare noi stessi può essere ad un tempo terapeutica e divertente (nel senso più proprio del termine). Le immagini interiori – le nostre fantasie e fantasticherie, i sogni ad occhi aperti (e anche chiusi) – hanno la capacità di esprimere la nostra esperienza emotiva sinteticamente e in forma visibile. Com’è la mia tristezza? È un prato innevato, terra che dorme in un inverno troppo lungo. Eccomi lì, è immediato, sono nel prato della mia tristezza. Ci sarà qualche animale? Almeno un fiorellino? Forse, se continuo a camminare, più in là troverò una casa…
Affidarsi alle immagini che emergono dalla nostra mente, attribuendogli un valore reale, è giocare con noi stessi, è un darsi retta delicato e gentile. Scopriamo così – tramite la pratica della scrittura – la bellezza di entrare e uscire dai nostri racconti e ricordi. Col tempo l’ambiguità delle immagini evocate ci diventerà familiare, quasi complice in quel gioco serissimo che è rinarrarsi, ancora e ancora, da angolature sempre nuove. Qui risiede la possibilità di riappropriarci di noi e riconoscerci in una storia che ci somiglia, osservandoci ora con occhio benevolo, ora con amorevole rimprovero o distacco, concedendoci soprattutto la dedizione che meritiamo.

“La creazione di qualcosa di nuovo non si ottiene con l'intelletto ma con l'istinto del gioco che nasce da necessità int...
19/02/2019

“La creazione di qualcosa di nuovo non si ottiene con l'intelletto ma con l'istinto del gioco che nasce da necessità interiori. La mente creativa gioca con gli oggetti che ama” (Jung).
In questi giorni sto preparando gli incontri per il laboratorio del mese prossimo. Oggi sono alle prese con il gioco e, inevitabilmente, mi ritrovo trasportato altrove, lontano dal mio computer e da qui: sono nell’infanzia e nel suo tempo sospeso – difficile pensarla diversa, la casa del gioco. Ricordo pomeriggi interminabili (forse dovrei dire privi di durata) e avventure meravigliose, esplorazioni in mondi sconosciuti e ripetizioni quasi sacrali di gesti e attività. Ricordo un incessante racconto interiore che sembrava vivere di vita propria e che mi guidava su sentieri che potevo solo intuire – ero complice di me stesso nel lasciarmi trasportare fuori dalla vita ordinaria e dalla sua prevedibilità. Già, era un misto di evasione e viaggio di scoperta, un divertimento profondo e con la forza della necessità. Era necessario, sì, ne avevo bisogno.
La psicologia ci insegna che per un bambino giocare è un’attività fondamentale, che è il terreno per quella finzione reale che ci insegna l’esistenza dell’interiorità nostra e altrui, che ci permette di accedere alla dimensione simbolica della vita, che ci fa fare le prove col mondo e ci riflette nei mille e mille panni che potremo vestire in esso.
Ma oggi, “da grandi”? Quand’è che giochiamo? “Eh, ormai, mica ho più il tempo per giocare, io”. Capita di pensarlo, di temerlo? Se pensando al gioco ritorniamo all’infanzia è difficile non sentirci un po’ smarriti, non avere almeno un po’ di timore di aver perso qualcosa. Ma non dobbiamo ingannarci: i giochi non possono più essere quelli di una volta semplicemente perché noi siamo diversi da allora. Niente panico però, facciamo un passo indietro: qualcosa rimane. Da bambini – dicevamo – il gioco è importantissimo, ci prepara alla vita, è un modo per familiarizzare con le regole e scoprire così che esistono dei confini e dei limiti – sociali, ma prima ancora personali. È un serissimo esperimento esistenziale e il divertimento che ci procura è legato al piacere della scoperta, del “cambiar strada” (di-vertere), dell’essere curiosi della vita stessa e con ciò di noi – forse, più precisamente, dell’Altro in noi, di ciò che potenzialmente potremmo essere. Il gioco, insomma, come il processo di diventare noi stessi che è diventare sempre altro. Non esattamente un gioco da ragazzi, eh? Eppure…
In questi termini credo che il gioco possa ancora avere spazio nelle nostre vite. E allora: quand’è che ci svaghiamo e – divagando – ci divertiamo? Ogni volta, penso, che facciamo qualcosa per tener vivo il fuoco che alimenta in noi quell’antica tensione al divertimento e al diverso, alla curiosità e alla cura (per inciso, curiosità e cura hanno la stessa radice). E in cosa starebbe questa curiosità che cura? Per Freud all’opposto del gioco non troviamo la serietà, ma la realtà. Il gioco è di casa nella fantasia e nell’immaginazione. Il che lo colloca, mi pare, in una delle zone più riposte dell’esistenza. Il gioco è una faccenda personale – quasi privata certe volte – e racconta dell’intimità di ciascuno di noi molto più di quanto sappia fare la realtà esteriore.
E situandosi all’opposto della realtà ci disintossica da essa, ci salva dalla sua univocità, accompagnandoci dove tutto è possibile, in un disordine fantasticato che saremo liberi di organizzare a piacimento e dove le regole le facciamo noi. Giocare è qui un esperimento col caso e un’ipotesi creativa di nuovo ordine e nuove logiche. È un immenso atto di libertà. Lontano dal superficiale, dall’evidente, dal manifesto, il gioco è un centro. Caramagna scrive che quando perdiamo il luogo che da bambini occupavamo nel prato perdiamo il nostro posto nell’universo. Ecco: forse tutto quel che ci serve è semplicemente la curiosità per quel luogo, la ricerca instancabile di quel posto; perché in cuor nostro sappiamo, lo sappiamo, che là saremo salvi.

Fra un mese comincia il prossimo ciclo di Autobiografie plurali. Qua sotto la locandina di presentazione dei singoli inc...
05/02/2019

Fra un mese comincia il prossimo ciclo di Autobiografie plurali. Qua sotto la locandina di presentazione dei singoli incontri, come sei piccoli cassetti tramite cui sbirciare dentro di noi.

Indirizzo

Corso Francia 33
Turin
10138

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 20:00
Martedì 09:00 - 20:00
Mercoledì 09:00 - 20:00
Giovedì 09:00 - 20:00
Venerdì 09:00 - 20:00

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