07/04/2023
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Questo mese, grazie al racconto di Nicolò Targhetta, affrontiamo un tema delicato e, purtroppo, sempre più attuale: il suicidio tra i giovani. Alcune fonti riportano un aumento preoccupante del fenomeno tra i giovani nel 2022. La pandemia ha avuto un impatto devastante sulla salute mentale dei giovani, ma questa non può essere l'unica spiegazione. È necessario prestare attenzione alle difficoltà che affrontano quotidianamente, alla carenza di supporto psicologico nelle scuole e alla tendenza a sottovalutare i problemi degli under 18.
Il testo ci suggerisce di guardare oltre i pregiudizi e aprirci al dialogo con le nuove generazioni, sforzandoci di capire le loro paure e le loro sofferenze. Solo così potremo iniziare a trovare soluzioni concrete per contrastare il fenomeno del suicidio tra i giovani e offrire loro un futuro più luminoso.
✍️ La grafica è dell’illustratrice Amandine Delclos.
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Il suicidio è una strada.
Ciascuno di noi ce l’ha dentro.
C’è chi la guarda da distante, chi sa esattamente dove si trova ma gira al largo e chi, per tutta la vita, non ci passa neanche vicino. C’è chi ne percorre un pezzo, chi la percorre tutta.
L’iconografia la vorrebbe buia, tortuosa e magari pure in discesa, ma oggi non parliamo di queste cazzate. Quello che vorrei fare qui è un discorso un po’ meno semplicistico.
Prima di cominciare ci terrei a specificare una cosa. Io scrivo per l’Ordine degli Psicologi, ma non sono uno psicologo. Sono una mascotte. Sono il carlino col cappello da compleanno che fa tanta tenerezza seduto a tavola perché sembra un essere umano. Questo per dire che non ho nessuna autorità per parlare professionalmente di suicidio. Ne parlo esclusivamente perché sono un suicida non professionista, uno che ci ha provato ma non ci è riuscito (ne abbiamo già parlato in questa sede, mo basta).
Torno sull’argomento per un semplice motivo: i ragazzi si stanno uccidendo.
Tra il 2022 e il 2023 i suicidi fra i giovani in Italia sono aumentati del 75%, così come i tentativi.
La reazione di fronte a questi dati è, inevitabilmente, di tristezza e panico.
Perché? Perché il suicidio ci terrorizza.
Ma se ci terrorizza così tanto com’è che ne parliamo così poco e così male?
Di nuovo, perché ci terrorizza.
Iniziate a capire qual è il problema?
Partiamo dall’inizio. Il suicidio è una decisione. E già suona male, vero?
Eppure il suicidio non è solo l’atto in sé, è anche tutto quello che viene prima. Una presa di coscienza, spesso un piano con un certo grado di programmazione e consapevolezza. Invece nella nostra testa assume spesso i contorni del raptus o dell’infermità mentale. Da un certo punto di vista ci è più comodo pensare che chi si ammazza non sappia cosa sta facendo, anche solo momentaneamente, perché se non c’è logica nell’atto non serve comprenderlo, perché se non è una decisione non va capita né tanto meno rispettata.
Secondo, il suicidio non è un reato. Eppure, non di rado, sui giornali e in tv, leggiamo o sentiamo di suicidi “commessi”. Lo stesso verbo degli omicidi. La vittima è anche il carnefice. Noi che abbiamo bisogno di trovare un colpevole prima del funerale, non di rado cadiamo nella tentazione di risparmiare tempo identificando nella persona che si è uccisa il suo assassino. E, come tutti gli assassini, lo lapidiamo con parole come “debole”, “fragile”, “sconfitto”.
Terzo, il suicidio non ci piace, ci mette profondamente a disagio. Basta che pensiate alla vostra espressione quando avete scoperto che questo post parlava di gente che si toglie la vita.
Non ci piace perché, come ogni stigma, non lo capiamo e non lo vogliamo capire. E in quanto tabù della nostra società si è deciso, a un certo, punto, di appiccicarci sopra l’etichetta di “male assoluto” e non guardare mai più nella sua direzione.
Capire il suicidio è doppiamente complicato: da una parte perché mettersi nei panni di un suicida o un aspirante suicida è complesso. Si tratta di un tipo di dolore, di un tipo di distacco, con cui è molto difficile empatizzare. Chi va fino in fondo non può spiegarci perché l’ha fatto e noi rimaniamo sempre senza risposte.
Dall’altra capendolo, parlandone, cercando di indagarlo, si rischia, se non si sta attenti, di istigarlo o, a vari livelli, giustificarlo.
L’ultimo aspetto che rende una conversazione sul suicidio incredibilmente intricata, è il fatto che il suicidio ci è vicino. A differenza di altre violenze, il suicidio è qualcosa a cui, prima o poi, abbiamo pensato tutti. È una strada dentro di noi che semplicemente scegliamo di non percorrere, ma che, per questo, non smette di esserci. E ogni volta che qualcuno la percorre fino alla fine ci ricorda che c’è.
Quindi da cosa partiamo? Partiamo dal fatto che il suicidio è brutto. Che il suicidio non è una soluzione. Che il suicidio è una tragedia.
Un po’ poco per capire, un po’ poco per prevenire. Un po’ poco se dall’altra parte dobbiamo fare i conti con il fatto che i ragazzi si stanno uccidendo.
La pandemia ha tagliato le gambe a una generazione, il supporto psicologico nelle scuole è carente e, per tradizione, in questo paese i problemi degli under 18 non sono davvero problemi.
Ah già, e siamo convinti che i ragazzi siano stupidi. Al di là di tutta la tristezza, il cordoglio e lo struggimento, pensiamo che un sedicenne si uccida perché non capisce, perché esagera, perché drammatizza, perché non sa mettere in prospettiva, perché si è fatto travolgere dagli eventi, coltivandosi dentro questa cosa, perdendone il controllo. Ma il suicidio non è un tumore, non ti nasce dentro. Arriva da fuori.
Io vi sfido a trovare un momento della vostra vita in cui il rapporto stress/fragilità sia così a vostro sfavore come durante gli anni della scuola. E così questi ragazzi affrontano mostri che noi neanche riusciamo più a ricordare, e li affrontano disarmati.
E se fra adulti, in pubblico, ci preoccupiamo sempre di parlare il più possibile di futuro e di nuove generazioni, alla nuove generazioni abbiamo smesso di parlare, forse perché ci siamo dimenticati come si fa.
Intanto quella strada rimane. È lì, è un dato di fatto. Non è buia e non è tortuosa, anzi è più illuminata che mai. Basterebbe guardarla bene, studiarla senza pregiudizi, sforzarsi di capirla e alla fine magari metterci anche due cartelli per far sapere a chi la imbocca che, in qualsiasi momento, può tornare indietro. E che indietro ci siamo noi.