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   E' stata somministrata nell'ospedale pediatrico Giovanni XXIII di Bari, per la prima volta in Italia, la terapia geni...
01/05/2022

E' stata somministrata nell'ospedale pediatrico Giovanni XXIII di Bari, per la prima volta in Italia, la terapia genica ad una neonata di appena 23 giorni alla quale è stata diagnosticata la Sma (atrofia muscolare spinale).
La diagnosi è stata possibile poiché la Puglia, unica regione italiana, ha reso obbligatorio lo screening per tutti i neonati. Alla bimba è stato somministrato il farmaco Zolgensma.

E' la prima volta che viene somminisrtata la terapia genica a un neonato senza sintomi con età inferiore a un mese. In questo stato di malattia, diagnosticato attraverso lo screening obbligatorio e solo dopo sette giorni dalla nascita, si coltiva la speranza di buoni risultati.

  uno studio sull'efficacia dei vaccini con variante omicronStriking antibody evasion manifested by the Omicron variant ...
29/12/2021

uno studio sull'efficacia dei vaccini con variante omicron

Striking antibody evasion manifested by the Omicron variant of SARS-CoV-2
https://www.nature.com/articles/d41586-021-03826-3

Discover the world’s best science and medicine | Nature.com

  sembra che nelle mutazioni vengano alterati i livelli di una proteina virale immunosoppressiva chiamata ORF9b. Questa ...
29/12/2021

sembra che nelle mutazioni vengano alterati i livelli di una proteina virale immunosoppressiva chiamata ORF9b. Questa proteina poco studiata colpisce temporaneamente la risposta immunitaria innata del corpo, la sua prima linea di difesa contro i patogeni e probabilmente svolge un ruolo nell'infezione con le varianti Alpha, Delta e Omicron.

https://www.science.org/content/article/how-genetic-twist-old-variant-may-be-driving-omicron-and-delta-today

Far from the spike protein, a mutation pummels innate immunity

   I livelli di anticorpi Covid-19 possono restare elevati fino a nove mesi dopo l'infezione. L'incoraggiante risultato ...
22/07/2021

I livelli di anticorpi Covid-19 possono restare elevati fino a nove mesi dopo l'infezione.

L'incoraggiante risultato emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, condotto dagli scienziati dell'Università di Padova e dell'Imperial College di Londra, che hanno valutato i dati relativi ai residenti di Vo' Euganeo, in provincia di Padova.

Il team, guidato da Andrea Crisanti ed Ilaria Dorigatti, dell'Imperial College di Londra e dell'Università di Padova, ha testato l'85% degli abitanti della città, a febbraio, marzo, maggio e novembre 2020. Stando ai risultati del gruppo di ricerca, il 98,8% delle persone che a febbraio avevano livelli rilevabili di anticorpi contro Covid-19 mostravano circa gli stessi livelli a novembre.
Gli scienziati aggiungono che non sembrava ci fosse differenza tra le malattie sintomatiche e quelle non evidenti. I livelli di anticorpi sono stati monitorati utilizzando tre test in grado di rilevare vari anticorpi che reagiscono a parti differenti del virus. Gli autori sottolineano che il tasso di decadimento delle cellule immunitarie variava a seconda del test utilizzato.

Il gruppo di ricerca ha elaborato un modello per stimare la probabilità di infezione tra membri della famiglia. Gli esperti hanno calcolato che esiste una possibilità su quattro che un componente trasmetta il contagio a qualcuno nello stesso nucleo familiare. Sembra inoltre che il 79% della diffusione sia provocata dal 20% delle infezioni. I fattori comportamentali, come l'uso della mascherina e il distanziamento sociale, sottolineano gli autori, sono ancora fondamentali per il controllo dell'epidemia.

SARS-CoV-2 antibody dynamics and transmission from community-wide serological testing in the Italian municipality of Vo’
https://www.nature.com/articles/s41467-021-24622-7

Vo’, Italy, is a unique setting for studying SARS-CoV-2 antibody dynamics because mass testing was conducted there early in the pandemic. Here, the authors perform two follow-up serological surveys and estimate seroprevalence, the extent of within-household transmission, and the impact of contact ...

  Torna a parlare dopo 18 anni grazie all'uso di elettrodi nel cervelloUn uomo paralizzato dall’età di vent’anni, dopo u...
18/07/2021

Torna a parlare dopo 18 anni grazie all'uso di elettrodi nel cervello

Un uomo paralizzato dall’età di vent’anni, dopo un incidente d’auto avvenuto nel 2003, e impossibilitato a parlare, è riuscito a pronunciare attraverso l’uso di elettrodi che hanno trasferito i suoni emessi traducendoli in parole di senso compiuto su un computer.

L’eccezionale risultato scientifico potrebbe aprire una nuova frontiera medica e ridare a molti pazienti la possibilità di parlare.

Il paziente che potrebbe passare alla storia si chiama Pancho e ora ha 38 anni. I ricercatori hanno impiantato nel cervello un sistema formato da 128 elettrodi, pensati per registrare anche il minimo segnale dall’area che regola i processi legati al movimento della bocca, della lingua e della laringe. Per cinquanta sedute, diluite in quasi due anni, hanno connesso gli elettrodi al computer e chiesto al paziente di provare a dire una serie di parole prese da una lista di termini di senso comune, tra cui “hungry”, cioè ‘affamato’, “music” e “computer”. I suoni emessi, così come il movimento delle labbra e della laringe sono stati ‘tradotti’ da un computer. Dalla prima frase, accolta con emozione, sono arrivate le altre. “La mia infermiera è fuori”, “portatemi gli occhiali, per favore” e alla domanda “come ti senti oggi?”, il paziente ha risposto “Molto bene”.
Ci vorranno ancora anni, hanno spiegato i ricercatori, per rendere questo sistema efficace su larga scala, ma le prime parole di Pancho hanno cominciato a indicare la strada.

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2027540?query=featured_home

Original Article from The New England Journal of Medicine — Neuroprosthesis for Decoding Speech in a Paralyzed Person with Anarthria

   Uno studio condotto dall’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (VR), in corso di revisione sulla rivista ...
27/06/2021

Uno studio condotto dall’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (VR), in corso di revisione sulla rivista Clinical Microbiology and Infection, ha dimostrato che negli operatori sanitari con precedente infezione la risposta anticorpale dopo una sola dose di vaccino è significativamente più alta rispetto a quella ottenuta dopo due dosi negli operatori mai colpiti dal virus. Anche dopo dieci mesi dal contagio, ovvero il tempo intercorso dai primi operatori contagiati alla conclusione dello studio.

Lo studio è stato condotto fra gennaio e marzo 2021, quando circa 2000 operatori sanitari dell’ospedale veronese sono stati sottoposti alla vaccinazione anti-Covid con Pfizer-BioNTech; agli aderenti sono stati dosati gli anticorpi contro SARS-CoV-2 al momento della prima e della seconda dose e poi una terza volta dopo 2/3 settimane dall’ultima inoculazione.
I dati raccolti dai ricercatori veronesi sembrano dimostrare che la seconda dose potrebbe non essere necessaria.
L’obiettivo adesso è verificare questi dati in una popolazione che sia stata vaccinata dopo tempi ancora più lunghi dall’infezione, per corroborare ulteriormente l’indicazione.

  per la prima volta in Italia, utilizzata la realtà aumentata   per le protesi L’IRCCS di Negrar è il primo centro in I...
27/06/2021

per la prima volta in Italia, utilizzata la realtà aumentata per le protesi

L’IRCCS di Negrar è il primo centro in Italia a validare in ortopedia una tecnologia innovativa che ha lo scopo di migliorare ulteriormente gli impianti di protesi. Grazie ad essa il chirurgo vede in tempo reale, senza distrarre lo sguardo dal piano operatorio per consultare le immagini radiografiche, se sta posizionando la protesi esattamente come da lui stabilito nel piano pre-operatorio.

Dopo la stampante 3D e il robot chirurgico, nelle sale operatorie dell’Ortopedia e Traumatologia dell’Ospedale di Negrar è entrata la realtà aumentata. L’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria è il primo centro in Italia a validare in ortopedia questa tecnologia innovativa che ha lo scopo di migliorare ulteriormente gli impianti di protesi, in questo caso del ginocchio.

L’équipe diretta dal dottor Claudio Zorzi vanta una delle più alte casistiche in Italia di impianti protesici al ginocchio: 986 solo lo scorso anno, di cui un centinaio bilaterali. Proprio in virtù dell’eccellenza raggiunta nel campo della protesica – Negrar è centro di riferimento regionale per la revisione di protesi di ginocchio e anca – sono stati eseguiti recentemente cinque interventi con la realtà aumentata che contribuiranno a mettere a punto un sistema di navigazione unico nel suo genere e destinato in un prossimo futuro ad essere utilizzato di routine nella chirurgia ortopedica.

La realtà aumentata interviene con l’obiettivo di colmare questo gap, perché introduce nelle immagini reali elementi virtuali.
L’intervento di protesi comporta l’individuazione di punti anatomici ben precisi dell’arto, che fungono da reperi per effettuare i tagli sull’osso necessari a posizionare la protesi. La realtà aumentata richiede che su questi ‘punti di riferimento’ vengano collocati dei Qr code. Questi, una volta inquadrati, consentano alla fotocamera collegata agli occhiali indossati dal chirurgo di proiettare sugli stessi occhiali l’immagine reale dell’arto, ‘aumentata’ da alcuni elementi virtuali come la linea dell’asse del ginocchio e i gradi. Grazie a queste informazioni, il chirurgo può verificare se i tagli che sta effettuando sull’osso corrispondono all’inserimento della protesi secondo le angolature previste dal piano pre-operatorio.

La realtà aumentata non incide sull’abilità del chirurgo, ma sulla precisione dell’intervento. L’ottimale posizionamento della protesi oltre a permettere al paziente di riconquistare senza problemi la sua quotidianità, garantisce una maggiore durata della protesi stessa, evitando un intervento di revisione, delicato sul piano chirurgico e costoso per il sistema sanitario nazionale.

  Creato un mini cuore che batte fino a 100 volte al minuto E' il primo ad essere creato in laboratorio con camere che b...
29/05/2021

Creato un mini cuore che batte fino a 100 volte al minuto

E' il primo ad essere creato in laboratorio con camere che battono chiaramente.
Ha le dimensioni di un seme di sesamo di 2 millimetri; imita l'organo di un embrione di 25 giorni e ha una camera cava che batte dalle 60 alle 100 volte al minuto. Gli scienziati della Michigan State University hanno utilizzato cellule staminali per sviluppare questi mini-cuori, invece delle più classiche cellule cardiache dei topi.

Il team di ricercatori punta a studiare le varie fasi dello sviluppo del cuore nell'utero e provare a dare una spiegazione ad alcuni difetti congeniti, ma anche ai misteri scientifici sull'organo, come ad esempio il fatto che quello dei bambini non si cicatrizzi dopo un attacco cardiaco. L'obiettivo successivo sarà quello di fare in modo che i cardioidi po***no sangue se collegati alle reti vascolari. Uno studio simile era stato condotto già lo scorso anno, ma l'utilizzo delle cellule di topo non aveva permesso di replicare un vero e proprio cuore, quanto una sorta di un grumo.

Con l'utilizzo delle staminali, è stato possibile sviluppare in una sola settimana diversi strati di tessuto che si trovano nelle pareti della camera cardiaca del cuore di un embrione di 25 giorni, con al suo interno le cellule che si osservano tipicamente durante questa fase di sviluppo: cardiomiociti, epiteliali, fibroblasti e quelle della membrana dell'epicardio. Contenuti all'interno di una capsula di Petri, i mini-cuori sono sopravvissuti oltre tre mesi.

https://www.sciencemag.org/news/2021/05/lab-grown-minihearts-beat-real-thing


Self-organizing organoids resemble a 1-month-old embryo’s heart

  Nei sei mesi successivi al contagio si possono sviluppare problemi neurologici o psichiatriciUn ampio studio su pazien...
10/04/2021

Nei sei mesi successivi al contagio si possono sviluppare problemi neurologici o psichiatrici

Un ampio studio su pazienti con infezione da Covid-19 ha rilevato che, in un terzo dei casi, i soggetti hanno sviluppato disturbi neurologici o mentali entro sei mesi dall’infezione.
Su oltre 236.000 pazienti – per la maggior parte statunitensi – un soggetto su tre sopravvissuto al COVID-19 ha ricevuto diagnosi di un disturbo mentale o psichiatrico entro sei mesi. I casi di ictus, demenza e altre patologie neurologiche post-COVID sono più rari, ma comunque significativi, soprattutto in chi ha avuto una forma grave della malattia.

I risultati indicano che le patologie mentali e i disturbi psichiatrici sono più comuni dopo il COVID-19.
Lo studio non è stato ancora in grado di determinare i meccanismi biologici o psicologici coinvolti, per i quali saranno necessari nuovi approfondimenti, con la prospettiva di prevenirli e trattarli.

Un precedente studio degli stessi ricercatori aveva riscontrato lo scorso anno come il 20% dei sopravvissuti al COVID-19 avesse ricevuto diagnosi di un disturbo psichiatrico entro tre mesi. I nuovi risultati indicano invece che il 34% dei soggetti ha ricevuto diagnosi di patologie neurologiche o psichiatriche entro sei mesi dall’infezione. Ansia, al 17%, e disturbi dell’umore, al 14%. Tuttavia, tra i soggetti ricoverati in terapia intensiva con COVID-19 grave, il 7% ha avuto un ictus entro sei mesi e quasi il 2% ha ricevuto diagnosi di demenza.

https://www.thelancet.com/journals/lanpsy/article/PIIS2215-0366(21)00084-5/fulltext

Our study provides evidence for substantial neurological and psychiatric morbidity in the 6 months after COVID-19 infection. Risks were greatest in, but not limited to, patients who had severe COVID-19. This information could help in service planning and identification of research priorities. Comple...

  Uno studio di un gruppo di ricercatori del King's College London, dell'Università degli studi di Trieste e del Centro ...
07/04/2021

Uno studio di un gruppo di ricercatori del King's College London, dell'Università degli studi di Trieste e del Centro di Ingegneria Genetica e Biotecnologie di Trieste, ha identificato il meccanismo che porta alla fusione delle cellule infettate con Sars-Cov-2, individuando un farmaco in grado di bloccare questo processo.
Si tratta della Niclosamide, un medicinale usato da più di 50 anni per le infezioni intestinali.

Lo stesso gruppo di ricercatori ha scoperto che i polmoni dei pazienti morti per Covid-19, oltre a mostrare un esteso danno e la presenza di coaguli che bloccano la circolazione del sangue, contengono un vasto numero di cellule anormali, molto grandi e con molti nuclei, infettate dal virus anche dopo 30-40 giorni dal ricovero in ospedale. Queste cellule anomale sono generate dalla capacità della proteina Spike del coronavirus di stimolare la fusione tra le cellule infettate e le cellule vicine. Stimolati da queste osservazioni, i ricercatori hanno ora scoperto il meccanismo che consente la fusione delle cellule e trovato un farmaco in grado di bloccarne il processo.

Gli scienziati hanno scoperto un meccanismo completamente nuovo, attivato dalla proteina Spike e importante per il virus. Le ricerche mostrano come Spike attivi una famiglia di proteine della cellula, chiamate TMEM16, che sono indispensabili per la fusione cellulare. Questo meccanismo è anche alla base dell'attivazione delle piastrine, e potrebbe quindi anche spiegare perché il 70% dei pazienti con Covid-19 grave sviluppa una trombosi. Ora sappiamo che c'è almeno un farmaco, la Niclosamide, in grado di bloccare questo meccanismo.

La Niclosamide è un farmaco sintetizzato negli anni '70 del secolo scorso e usato a partire dal 1982 per la terapia delle infezioni intestinali dovute alla tenia. Il nuovo studio mostra come questo farmaco, inibendo TMEM16 e la fusione delle cellule, blocchi anche la replicazione del virus.

Sulla base di questi risultati, una sperimentazione clinica su 120 pazienti è già partita in India, dove l'infezione è ancora molto diffusa e si sta somministrando la Niclosamide a un gruppo di pazienti ricoverati in ospedale con Covid-19.

Il gruppo di ricerca è stato portato avanti dal prof. Mauro Giacca, professore dell'Università di Trieste, docente di Cardiovascular Sciences al King's College di Londra, e responsabile del Laboratorio di Medicina Molecolare dell'ICGEB.

https://www.nature.com/articles/s41586-021-03491-6

   Il Covid-19 interagisce sia direttamente che indirettamente con le cellule del cuore: lo confermano i primi risultati...
06/04/2021

Il Covid-19 interagisce sia direttamente che indirettamente con le cellule del cuore: lo confermano i primi risultati dello studio “Cardio-CoV”, realizzato dal Centro Cardiologico Monzino in collaborazione con l’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, appena pubblicati su rivista scientifica della European Society of Cardiology (Esc).

Lo studio è stato interamente finanziato da Regione Lombardia, e mostra come il virus attacca le cellule stromali, facendole diventare veicolo di infezione, causando complicazioni cardiache.

I ricercatori, coordinati da Maurizio Pesce, Responsabile dell’Unità di Ricerca in Ingegneria Tissutale Cardiovascolare del Monzino, hanno confermato che le cellule stromali, uno dei tipi cellulari maggiormente diffusi nel cuore, possono essere attaccate direttamente dal virus, diventando a loro volta veicolo dell’infezione. La maggiore o minore capacità di replicazione del virus in queste cellule risulta strettamente correlata ai livelli di espressione del recettore cellulare Ace2.
Allo stesso tempo, indipendentemente dai livelli di Ace2, le cellule stromali possono reagire all’invasione del Covid-19 attivando una importante risposta infiammatoria. Questo duplice effetto conseguente all’interazione tra virus e cellule stromali può spiegare la variabilità dei danni cardiaci riscontrati e le complicanze cardiache che si osservano nei casi più gravi di Covid-19.

Il Sars-CoV-2 ha manifestato, sin dall’esordio della pandemia, il potere di innescare gravi problematiche a livello cardiaco, come aritmie e scompenso, in alcuni casi persistenti anche dopo la guarigione dal virus.

Le osservazioni degli scienziati hanno confermato che effettivamente il virus entra nelle cellule attraverso il recettore Ace2 e che quindi esso può andare incontro a replicazione diffondendosi nel cuore. In parallelo, hanno osservato che le stesse cellule possono anche evolvere verso un destino pro-infiammatorio da cui ne conseguirebbe la deposizione di tessuto fibrotico, osservata in molti pazienti Covid-19. È stato possibile mostrare che il grado di infezione del Sars-CoV-2 dipende dai livelli di espressione del recettore Ace2, vale a dire che più Ace2 è presente, maggiore è l’infezione.

I risultati supportano l’utilizzo degli anti-infiammatori già utilizzati negli attuali protocolli anti-Covid-19 per minimizzare la risposta infiammatoria a livello cardiaco, e permettono di escludere che vi sia un’interazione tra trattamenti anti-ipertensivi e gravità dell’infezione, almeno a livello del cuore, contrariamente a quanto si era pensato all’inizio della pandemia. È stata trovata conferma che questi farmaci non impattano sui livelli basali di espressione di Ace2 nelle cellule dei pazienti.

Lo studio Cardio-Cov ora si svilupperà intorno a due obiettivi: definire nelle cellule stromali il meccanismo molecolare che causa l’espressione di Ace2 per identificare un farmaco in grado di inibire la replicazione virale nel cuore, e analizzare l’evoluzione infiammatoria dello stroma cardiaco per individuare nuovi targets molecolari, a cui mirare per impedirne la progressione.

Human cardiosphere-derived stromal cells exposed to SARS-CoV-2 evolve into hyper-inflammatory/pro-fibrotic phenotype and produce infective viral particles depending on the levels of ACE2 receptor expression

https://academic.oup.com/cardiovascres/advance-article/doi/10.1093/cvr/cvab082/6168421?searchresult=1

AbstractAims. Patients with severe respiratory syndrome caused by SARS-CoV-2 undergo cardiac complications due to hyper-inflammatory conditions. Although the pr

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Verona
Verona
37100

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