30/09/2022
“Ognuno ha il suo mantello e ognuno lo perde, dimentica dove l’ha messo o più semplicemente non ha più il coraggio d'indossarlo”
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Il racconto di settembre di Nicolò Targhetta porta la memoria ad oggetti della nostra storia personale che possono assumere per noi un significato profondo, toccando delle nostre corde interiori.
Quella spruzzata di profumo prima di uscire per una riunione importante che ci fa sentire di avere la giusta energia per affrontare la giornata, o quel mantello indossato da bambino che ci faceva sentire “una persona migliore, più coraggiosa, più forte e capace di gestire ogni situazione”.
La grafica è dell’illustratrice Amandine Delclos.
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Quando avevo circa sei anni i miei genitori mi comprarono un costume da Zorro, icona ritenuta sufficientemente anarchica e terzomondista per prendere parte alla crescita del figlio.
A me Zorro faceva ca**re.
Lui, Bernardo, il Sergente Garcia e i proprietari terrieri della Los Angeles del diciannovesimo secolo.
Però del mantello mi innamorai subito.
Fu un colpo di fulmine, buttai maschera, cappello e sciabola, mi legai al collo quel metro di stoffa nero lucido e non me lo tolsi più.
Quando dico che non me lo tolsi più, intendo che andai avanti per mesi con indosso il tabarro del giustiziere mascherato, a scuola come a casa. Ci dormivo pure la notte.
E anche se il fatto che a sei anni fossi già alto un metro e settanta restituiva di me non tanto l'immagine di un estroso bambino ammantellato, quanto di un dolce minorato mentale, la cosa non m’importava.
Il mantello mi faceva sentire una persona migliore, più coraggiosa, più forte e capace di gestire ogni situazione. Quello che, qualche tempo dopo, molti dei miei coetanei avrebbero trovato nella cocaina o in una laurea in giurisprudenza, io l'avevo già trovato nell'armadio di don Diego della Vega.
Durò quasi un anno, poi mia madre, per il bene delle mie relazioni sociali a lungo termine, fece sparire con discrezione la mantella tra un bucato e l'altro.
(Ogni tanto sogno ancora mia madre, mio padre e, per qualche ragione, il mio cane che ridono mentre fanno un falò in giardino con alcuni dei miei oggetti personali più preziosi, compreso "Il Piccolo Mago" Ravensburger anch'esso scomparso in circostanze mai chiarite).
Non ho più trovato niente di inanimato capace di darmi la forza, la grinta e la fiducia in me stesso che mi dava quel mantello.
Sì, la vestaglia aiuta, ma non è la stessa cosa.
Mi fa tristezza pensare che, ad avercelo oggi, sicuramente, un po' per vergogna un po' per viltà, neppure lo indosserei.
Crescere fa anche questo: ti liberi delle cose ti rendevano libero, privandoti della felicità solo per metterti in pari con la tristezza di tutti gli altri.
Ora, mi hanno detto di chiuderla in un modo che non vi faccia venir voglia di bere il liquido per i freni, perciò provo a dirvi un’altra cosa.
Ognuno ha il suo mantello e ognuno lo perde, dimentica dove l’ha messo o più semplicemente non ha più il coraggio d'indossarlo.
Per la maggior parte di noi, il mantello è strappato in tanti pezzi, portati via da (e)venti vari e finiti chissà dove.
Ecco, credo che una vita ben spesa, sia una vita alla ricerca dei brandelli di quel mantello.
Sì, proprio come in uno stupido cartone giapponese.
Alcuni di quei pezzi sono in noi, altri sono dentro le persone che incontriamo, che amiamo, che ci amano, che ci fanno star male, che ci aiutano e che ci ostacolano.
Se siamo bravi e fortunati riusciamo a ritrovarli tutti abbastanza in fretta, altrimenti non ci riusciamo mai, e rimaniamo tutta la vita con un mantello un po’ sbrindellato che certi giorni ci fa sentire invincibili e certi giorni proprio no.
Ma ogni tanto, quando meno ce l’aspettiamo, ci guardiamo indietro e scopriamo che il mantello è più grande di quanto immaginavamo. E quando tira il vento giusto, vedercelo svolazzare sulle spalle non ci fa sembrare né dei supereroi né degli idioti. Ci fa sembrare, cosa ancora più strana, noi.