19/11/2025
A volte il cibo diventa una risposta a tutto
Mangiare non è semplicemente un atto alimentare.
È una risposta.
Una scorciatoia emotiva.
Un modo per calmarsi, distrarsi, riempire, rimandare, consolarsi, proteggersi, spegnere o sopravvivere.
Il cibo può diventare l'unico strumento per affrontare bisogni molto diversi tra loro: la stanchezza, la tensione, il vuoto, la solitudine, la vergogna, la mancanza di sostegno, la difficoltà a dire “no”, l’incapacità di chiedere aiuto.
Una sola azione per regolare stati emotivi complessi.
E, in alcuni casi — non sempre, ma più spesso di quanto immaginiamo — questo modo di usare il cibo ha radici lontane.
Ci sono bambini cresciuti con adulti incapaci di sintonizzarsi veramente con i loro bisogni.
Bambini che piangevano perché spaventati, nervosi, confusi o bisognosi di contatto… e ricevevano cibo.
Non per cattiveria, ma perché quel genitore non conosceva altri modi, o perché quello era l’unico strumento emotivo che aveva imparato a sua volta.
Così può accadere che il bambino, crescendo, impari un’associazione silenziosa e potente:
“Quando sto male, mangio. È quello che mi calma.”
Non perché il cibo fosse la risposta giusta, ma perché è stata la sola risposta disponibile.
E il corpo, quando trova qualcosa che “funziona”, tende a ripeterlo. Anche quando si è ormai adulti.
Non si tratta di colpe, né di spiegazioni totalizzanti.
Ma di comprendere che il cibo, per molte persone, è stato il primo tentativo possibile di autoregolazione, quando nessuno gli aveva insegnato altre strade.
In quest'ottica, lavorare sul rapporto con il cibo, significa proprio questo:
non togliere un gesto, ma restituire alternative, linguaggi emotivi, modi diversi di ascoltarsi.
Significa imparare, forse per la prima volta, a rispondere a sé stessi non con un’unica soluzione, ma con una gamma intera di possibilità.