Dott.ssa Elettra Paolini - Psicologia Alimentare

Dott.ssa Elettra Paolini - Psicologia Alimentare Comprendere, affrontare e gestire l'obesità, grazie alla psicologia alimentare.

Aiuto le persone con obesità e sovrappeso a vivere serenamente il loro rapporto col peso e col cibo

A volte il cibo diventa una risposta a tuttoMangiare non è semplicemente un atto alimentare.È una risposta.Una scorciato...
19/11/2025

A volte il cibo diventa una risposta a tutto

Mangiare non è semplicemente un atto alimentare.
È una risposta.
Una scorciatoia emotiva.
Un modo per calmarsi, distrarsi, riempire, rimandare, consolarsi, proteggersi, spegnere o sopravvivere.

Il cibo può diventare l'unico strumento per affrontare bisogni molto diversi tra loro: la stanchezza, la tensione, il vuoto, la solitudine, la vergogna, la mancanza di sostegno, la difficoltà a dire “no”, l’incapacità di chiedere aiuto.
Una sola azione per regolare stati emotivi complessi.
E, in alcuni casi — non sempre, ma più spesso di quanto immaginiamo — questo modo di usare il cibo ha radici lontane.
Ci sono bambini cresciuti con adulti incapaci di sintonizzarsi veramente con i loro bisogni.
Bambini che piangevano perché spaventati, nervosi, confusi o bisognosi di contatto… e ricevevano cibo.
Non per cattiveria, ma perché quel genitore non conosceva altri modi, o perché quello era l’unico strumento emotivo che aveva imparato a sua volta.
Così può accadere che il bambino, crescendo, impari un’associazione silenziosa e potente:
“Quando sto male, mangio. È quello che mi calma.”
Non perché il cibo fosse la risposta giusta, ma perché è stata la sola risposta disponibile.
E il corpo, quando trova qualcosa che “funziona”, tende a ripeterlo. Anche quando si è ormai adulti.
Non si tratta di colpe, né di spiegazioni totalizzanti.
Ma di comprendere che il cibo, per molte persone, è stato il primo tentativo possibile di autoregolazione, quando nessuno gli aveva insegnato altre strade.

In quest'ottica, lavorare sul rapporto con il cibo, significa proprio questo:
non togliere un gesto, ma restituire alternative, linguaggi emotivi, modi diversi di ascoltarsi.
Significa imparare, forse per la prima volta, a rispondere a sé stessi non con un’unica soluzione, ma con una gamma intera di possibilità.

James Pennebaker, professore di psicologia all'Università del Texas, un giorno disse:"ho molto rispetto della riservatez...
18/11/2025

James Pennebaker, professore di psicologia all'Università del Texas, un giorno disse:"ho molto rispetto della riservatezza, del tenere le cose per sé; ma sono convinto che le persone paghino un prezzo piuttosto alto cercando di negare l'evidenza".

Ecco...questo pensiero è un po' il fil rouge del mio terzo libro: la fame nel cuore.

Perché uno dei risvolti di questo tacere a sé stessi è quello delle abbuffate.
Non sto dicendo che per tutti il negare inneschi gli stessi meccanismi, naturalmente.
Ma le storie delle donne raccontate in questo libro, esprimono appieno questa dinamica.
Sono vite in cui la censura, la negazione, il non voler prendere atto di sentimenti sempre più repressi, hanno innescato un'alimentazione compulsiva e irrefrenabile.
Il famoso "prezzo" citato da Pennebaker.

Più si tenta di nascondere a sé stessi qualcosa, più quel qualcosa emergerà con forza attraverso linguaggi scomodi e sintomi spaventosi.

La guarigione non è mai un lampoQuando si intraprende un percorso di cura dell'obesità (che sia psicologico o di altra n...
13/11/2025

La guarigione non è mai un lampo

Quando si intraprende un percorso di cura dell'obesità (che sia psicologico o di altra natura) è importante, come pazienti, chiedersi che cosa ci si aspetta da tale percorso.
In altre parole è importante porsi una domanda: "cosa vuol dire, per me, aver superato il problema?"
Quando pensiamo alla guarigione, spesso immaginiamo un momento magico: un’illuminazione improvvisa che mette tutto a posto, che ci fa “diventare finalmente guariti”.
Ma nel caso dell’obesità — così come in molte condizioni croniche — la guarigione non coincide con la sparizione della malattia.
Ciò implica considerare a fondo gli obiettivi realisticamente raggiungibili sotto diversi punti di vista (perché, ormai lo sappiamo, l'obesità non è fatta di solo peso corporeo).
Ragionare, allora, sul proprio personale significato di "guarigione", è estremamente importante se non si vuole cadere nella trappola del vittimismo e dell'impotenza.
Occorre essere consapevoli che la vera trasformazione somiglia più al movimento di un pendolo che a un unico momento di illuminazione: piccoli passi avanti, ritorni indietro, a volte scoraggianti, a volte incoraggianti. Non esistono scorciatoie o folgorazioni improvvise, ma progressi reali e duraturi si costruiscono giorno per giorno.
Immaginare la guarigione come un percorso graduale, con alti e bassi, ci permette di stare con noi stessi in modo realistico, senza aspettative fantasiose e senza colpe per i ritorni indietro. Un cammino lento ma autentico.
E tu, da cosa ti accorgeresti di essere "guarita"?

Non è mai troppo presto per pensare ai regali di Natale 🤭😉Lo testimonia il fatto che alcuni di voi mi abbiano già scritt...
06/11/2025

Non è mai troppo presto per pensare ai regali di Natale 🤭😉
Lo testimonia il fatto che alcuni di voi mi abbiano già scritto per sapere quale dei tre libri sia meglio acquistare in base ad alcune esigenze ben precise.
Ho pensato allora di fare una mini-guida, utile a tutti, in cui sintetizzo le caratteristiche di ciascun libro così che possiate orientarvi meglio nell'acquisto (vi ricordo che sono tutti reperibili su Amazon).
📘LA VITA OLTRE IL PESO è il mio libro più concreto e trasformativo. Ha un focus diretto sulla psicologia alimentare e insegna come passare da un'alimentazione regolata dall'esterno a un'alimentazione centrata sui propri bisogni.
👉 è per te se ti senti intrappolato nel circolo "restrizione-perdita di controllo";
📕L'INGANNO DI VENERE qui ho voluto esplorare il tema dell'immagine corporea: quel dialogo silenzioso e continuo che abbiamo col nostro aspetto. La sua unicità è quella di affrontare questo delicato tema dal punto di vista delle persone con obesità, offrendo spunti di lavoro concreti per favorire l'accettazione di sé;
👉 È per te se senti di non vederti mai abbastanza e vuoi capire da dove nasce questa lotta con lo specchio.
📗LA FAME NEL CUORE è il più intimo e profondo. Affronta la fame emotiva, il vuoto e il dolore che si trasformano in bisogno di abbuffarsi, attraverso le storia di donne che sono riuscite a cambiare il loro rapporto con il cibo. Ribalta il significato dell'iperalimentazione da segno di scarsa volontà a strategia di sopravvivenza.
👉 È per te se vuoi comprendere la radice affettiva del tuo rapporto col cibo

Il cibo, a volte, diventa linguaggio del dolore.Non sempre mangiare troppo, troppo poco o in modo caotico parla davvero ...
05/11/2025

Il cibo, a volte, diventa linguaggio del dolore.
Non sempre mangiare troppo, troppo poco o in modo caotico parla davvero di “cibo”.
Spesso parla di sopravvivenza.
Di un corpo che, un tempo, ha dovuto trovare da solo il modo per calmarsi, per sentirsi al sicuro, per non sentire troppo.
Chi ha vissuto esperienze di trascuratezza o di trauma sa quanto possa essere difficile fidarsi delle proprie sensazioni corporee.
Il corpo diventa un luogo confuso: manda segnali, ma non si sa più come interpretarli.
E allora si cercano strategie per regolare ciò che dentro è ingestibile.
Il cibo, in questo senso, può diventare una forma di “cura di emergenza”: qualcosa che calma, che distrae, che riempie.
Un modo — l’unico possibile in certi momenti — per mettere ordine nel caos interno.
Ma col tempo, quella stessa strategia può iniziare a funzionare sempre meno, lasciando la persona intrappolata tra bisogno e controllo, fame e colpa.
Il lavoro terapeutico serve proprio a restituire un linguaggio al corpo,
a imparare di nuovo a sentire senza esserne travolti.
Il vero cambiamento non passa dal controllo del cibo, ma dalla possibilità di riconoscere e accogliere ciò che il cibo, silenziosamente, sta cercando di dire.

Van der Kolk descrive l’impulsività autolesiva come una delle conseguenze dello sviluppo in contesti in cui non c’è stat...
04/11/2025

Van der Kolk descrive l’impulsività autolesiva come una delle conseguenze dello sviluppo in contesti in cui non c’è stata una comunicazione emotiva adeguata con il caregiver.
Quando un bambino cresce senza poter contare su un adulto che lo aiuti a dare un nome e un contenimento alle proprie emozioni, impara che sentire è pericoloso.
Così, da adulto, ogni emozione intensa può diventare insopportabile — qualcosa da zittire, da scaricare, da spegnere.

In questi casi, l’impulsività non è “mancanza di volontà”, ma un tentativo disperato di autoregolazione.
Le abbuffate, allora, diventano un modo per anestetizzare ciò che non si riesce a gestire internamente: un impulso autolesivo travestito da bisogno di cibo.

Per questo, lavorare sulle abbuffate significa molto più che imparare a controllarsi: significa ricostruire il legame con il proprio mondo interno, imparando, forse per la prima volta, a restare in contatto con ciò che si sente senza doverlo distruggere.

Molte persone hanno paura della propria fame.Non della fame in sé, ma di ciò che pensano possa accadere se la ascoltano....
30/10/2025

Molte persone hanno paura della propria fame.
Non della fame in sé, ma di ciò che pensano possa accadere se la ascoltano.

Da un lato, questa paura nasce da un condizionamento culturale: la diet culture ci ha insegnato a diffidare dei segnali del corpo.
La fame è diventata sinonimo di debolezza, mancanza di controllo, fallimento.
Così impariamo a contenerla, a distrarci, a sostituirla con regole e strategie.
In questa logica, fidarsi dei propri bisogni interni sembra pericoloso, perché potrebbe portare “a esagerare”.

Ma esiste un piano più profondo, che riguarda la storia personale.
Come scrive Van der Kolk, chi ha vissuto esperienze traumatiche spesso percepisce il proprio corpo come un luogo di pericolo.
I segnali interni — fame, rabbia, piacere, bisogno — vengono allora evitati, perché troppo intensi o confusi.
Ci si disconnette, si smette di sentire, si cerca sicurezza fuori di sé.

Ed è qui che nasce il paradosso:
più ci si allontana dalla sintonizzazione interna, più si diventa dipendenti da una regolazione esterna.
Il corpo, non più percepito come guida, viene sostituito da qualcosa o qualcuno che “decida” al suo posto: una dieta, un farmaco, un controllo ossessivo, una relazione, la continua ricerca di rassicurazione.

In apparenza, si tratta di controllo.
In realtà, è perdita di contatto.

Ritrovare fiducia nella propria fame — nel corpo e nei suoi segnali — significa imparare di nuovo a sentirsi al sicuro dentro di sé.
Un passo essenziale per tornare a vivere, non solo a controllare.

Oggi voglio parlare di un tema un po' scomodo e spinoso che, praticamente sempre, entra nello spazio della terapia con l...
21/10/2025

Oggi voglio parlare di un tema un po' scomodo e spinoso che, praticamente sempre, entra nello spazio della terapia con le persone affette da obesità.
L'argomento in questione è:
“lo faccio per la salute.”
Una frase che, come un mantra che a furia di ripeterlo perde di significato, dallo spazio pubblico dei "discorsi da bar", arriva a contagiare anche lo spazio privato del colloquio psicologico, creando quell'atmosfera di finzione che fa poco bene al processo di cambiamento (se non colto a dovere).
Si, perché mettere in discussione "l'obiettivo supremo", l'obiettivo degli obiettivi (lo faccio per la salute) o anche solo pensare di farlo, può creare fratture insanabili fra terapeuta e paziente, se ciò non avviene nei modi e coi tempi dovuti.
Ma, per fortuna, la terapia psicologica non funziona come una visita dal medico. Non ci si deve per forza affidare alle frasi fatte, alle percentuali di rischio, alle buone norme. Il luogo della terapia è il luogo dove poter sfidare qualsiasi convinzione crei in noi circuiti malsani di risposta. E, più spesso di quanto si possa pensare, la bugia del "lo faccio per la salute", crea più disagio che guadagno. Ed è lì che la salute, davvero, ci rimette.
Dire di voler perdere peso per la salute è un modo socialmente ineccepibile di giustificare agli altri e a sé stessi un obiettivo che, in realtà, ha spesso ben altre leve.
È la motivazione che, per antonomasia, non si può mettere in discussione — chi oserebbe mai contraddire chi dice di farlo “per la salute”?
E così, questa spiegazione diventa uno scudo.
Serve a proteggere da domande più scomode, ma anche a proteggere sé stessi dal contatto con le vere motivazioni, più intime, più fragili, più umane.
Il punto non è smascherare o giudicare chi lo dice — anzi.
È riconoscere che, spesso, dietro il linguaggio della “salute” si nasconde una storia di insicurezze, di ferite, di mancata accettazione.
Parlare davvero di salute, allora, significa anche parlare di benessere psicologico, di ascolto del corpo, di libertà dal giudizio e dal controllo.
Perché la salute non si costruisce nel tentativo di diventare “giusti”, ma nella possibilità di sentirsi finalmente interi.

I disturbi alimentari, per "definizione", sono disturbi portati dal corpo. In essi il corpo diventa un veicolo, un modo ...
16/10/2025

I disturbi alimentari, per "definizione", sono disturbi portati dal corpo.
In essi il corpo diventa un veicolo, un modo per comunicare ciò che a parole non può essere detto. Per questo motivo, molto spesso, l'origine di questi disturbi è traumatica. Il trauma, infatti, parla attraverso il corpo e si esprime attraverso sintomi che riguardano il funzionamento corporeo, specialmente se si tratta di un trauma preverbale (avvenuto prima dello sviluppo del linguaggio).
Posto che il linguaggio dei sintomi assume un significato specifico per ciascun paziente (e che, quindi, vanno evitare generalizzazioni che rischiano di essere superficiali), gli autori hanno comunque suggerito alcune possibili relazioni fra comportamenti alimentari disfunzionali ed effetti prodotti.
📍Restrizione: ottundimento corporeo ed emotivo ed iperarousal;
📍Abbuffate: ottundimento corporeo ed emotivo e ipoarousal;
📍Bulimia: ottundimento corporeo ed emotivo e ridotta sensibilità al dolore.
È importante, assieme al paziente, sondare le ragioni e le funzioni specifiche dei sintomi da lui portati. Pensare, infatti, di estirpare semplicemente il disturbo, creerebbe solo ulteriore disagio e toglierebbe, di fatto, la funzione utile che la sintomatologia porta con sé.

L’evitamento è probabilmente una delle risposte più sottili e pervasive al trauma. Inizia come una difesa: allontanarsi ...
12/10/2025

L’evitamento è probabilmente una delle risposte più sottili e pervasive al trauma. Inizia come una difesa: allontanarsi da ciò che fa troppo male per essere tollerato.
Ma con il tempo, questa difesa tende ad allargarsi, come un’ombra che si estende su tutto.

Si evita non solo ciò che ricorda il trauma — i luoghi, le persone, i conflitti — ma anche le emozioni, le sensazioni corporee, la vitalità stessa.
Allora si cerca rifugio in piccole ossessioni quotidiane: un’attenzione minuziosa alle cose da fare, il bisogno di tenere tutto sotto controllo, il parlare incessantemente, il ridere per non sentire.
A volte, ci si fissa persino su emozioni “più accettabili” come la vergogna o la colpa, perché sono meno minacciose di altre — come la rabbia, la paura o il desiderio.

Ma queste difese, nate per proteggerci, finiscono per restringere il campo di coscienza e quindi la possibilità di sentirci pienamente vivi.
Tutto ciò che prima ci rendeva vivi, viene a poco, a poco tagliato fuori.
Anche nella relazione col cibo, può accadere qualcosa di simile: l’attenzione ossessiva all’alimentazione o al corpo diventa un modo per non sentire altro — il dolore, la solitudine, il bisogno. Persino la vergogna, ormai così socialmente accettata, diventa un modo di occupare la mente in modo alternativo rispetto a una vera presa di coscienza.

Ritrovare sé stessi, allora, significa riaprire lo spazio della consapevolezza, con delicatezza e tempo.
Non per forzare il contatto con ciò che fa male, ma per imparare, passo dopo passo, a restare presenti anche quando sentire fa paura.

Anche se non sono affatto una fan delle "giornate mondiali", un piccolo, semplice pensiero lo vorrei esprimere.Oggi non ...
10/10/2025

Anche se non sono affatto una fan delle "giornate mondiali", un piccolo, semplice pensiero lo vorrei esprimere.

Oggi non voglio ricordare che la salute mentale è importante quanto quella fisica.
Questo, ormai, dovremmo saperlo.

Voglio invece ricordare che, per troppe persone, la salute mentale è ancora un traguardo lontano.
Viviamo in un’epoca in cui il dolore deve essere “funzionale”, il disagio “discreto”, la fragilità “gestita”.
E così, ogni giorno, siamo circondati da sorrisi che celano tempeste, da vite apparentemente stabili che nascondono fatiche taciute.

Molti si convincono che ammettere di stare male sia una debolezza, un fallimento, qualcosa da tenere per sé.
E proprio così, negando, si alimentano quei meccanismi che rendono il malessere ancora più profondo, talvolta cronicizzandolo ed estendendolo a chi è vicino. Come un virus che si propaga.

Forse, oggi, parlare di salute mentale significa anche questo: riconoscere la stanchezza, accogliere la vulnerabilità, permettersi di non stare bene — e farlo senza vergogna.
Smettere di giudicare il dolore altrui e l'altrui modo di affrontarlo, come se ci fossero problemi di serie A e di serie B.
Smettere di paragonare le vite di oggi a quelle di ieri, cedendo a facili considerazioni che, ahimè, non aiutano chi le vive a stare meglio.
Smettere di pensare che la salute mentale interessi soltanto chi ha una patologia diagnosticata, un disturbo mentale conclamato, una situazione visivamente complicata da gestire...questo non fa altro che confermare quanto siamo ancora lontani dal capire veramente cosa significa "stare bene" psicologicamente.
Un po' come pensare che dal dottore ci si va solo se si ha una gamba rotta o un trauma cranico.
Iniziamo a cogliere le sfumature, a notare la complessità, ad andare oltre le maschere.

Perché godere di una buona salute mentale non è possibile per nessuno, se non ci si lavora tutti.

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