17/10/2025
Quest’anno segna il mio ventiduesimo anno di insegnamento nella scuola media. E ieri… ieri è stato uno di quei giorni che non si dimenticano. Forse il più intenso di tutta la mia carriera.
Ho deciso di provare una nuova attività con i miei studenti. L’ho chiamata “L’attività del sacco del dolore.”
Ho chiesto:
— Che cos’è, secondo voi, avere un sacco del dolore?
Le risposte sono arrivate piano, timide, ma sincere:
— È tutto ciò che ci fa male.
— È ciò che ci portiamo dentro e che pesa sulle spalle.
Allora ho dato a ciascuno un piccolo foglio.
— Scrivete ciò che vi preoccupa. Nessun nome. Solo la verità.
Poi l’abbiamo accartocciato.
E lanciato.
Ognuno ha raccolto un foglio a caso.
E uno per uno, li hanno letti ad alta voce.
Dopo ogni lettura, chiedevo:
— Chi l’ha scritto? Vuoi parlarne?
E lì, in quella stanza, è successo qualcosa di raro, di potente, di profondamente umano.
Le voci tremavano. Le mani si stringevano.
Alcuni ragazzi hanno raccontato di genitori in prigione.
Altri della droga in famiglia.
Qualcuno del dolore per una perdita, per la malattia, per un lutto.
Uno ha scritto che il suo criceto era morto perché era diventato troppo grasso — e lì, tra le lacrime, abbiamo anche riso. Perché la vita è così: dolore e tenerezza, insieme.
Molti di loro piangevano mentre leggevano.
E chi decideva di parlare, piangeva anche di più.
Era come se, per la prima volta, si sentissero davvero visti.
Quando tutto finì, c’era silenzio.
Un silenzio pieno. Profondo.
E in quell’aula, per un attimo, non c’erano più studenti e insegnante.
C’erano solo esseri umani che si tenevano a galla, insieme.
Da quel giorno, accanto alla mia porta, pende un sacchetto trasparente.
Lo chiamo “il sacco del dolore.”
Ricorda a tutti noi che ognuno porta qualcosa, ma che qui — in questa classe — possiamo lasciarlo fuori.
Perché dentro, si entra leggeri. Si entra accolti.
Quando sono usciti, ho detto loro:
“Non siete soli. Siete amati.
E qui ci prendiamo cura gli uni degli altri.”
Sono tornata a casa svuotata, ma piena.
Perché credo che dopo quella giornata, i miei studenti giudicheranno un po’ meno, ameranno un po’ di più, e perdoneranno un po’ più in fretta.
E io, dopo ventidue anni, ho capito che insegnare non è solo trasmettere conoscenza.
È aprire porte dentro i cuori.
È dire, ogni giorno, senza parole:
“Tu conti. Tu vali. Tu non sei solo.”
Piccole Storie.